Il giorno in cui mio figlio più piccolo ha finito l’asilo, ho deciso di liberare la stanza dei giochi in cui aveva passato gran parte della sua fino a quel momento breve vita. I giocattoli gli avevano tenuto compagnia tutte le volte che io e sua madre eravamo presi da altre incombenze o distrazioni. Negli anni ne aveva accumulata una quantità indecente. Mentre rovistavo tra le pile di oggetti, mi sentivo come nel cantiere di un immenso scavo archeologico. Non avevo mai pensato a me e a mia moglie come a due genitori particolarmente invadenti o indulgenti: volevamo solo che i nostri figli da adulti fossero economicamente indipendenti e che non sperimentassero niente di peggio di una normale tristezza. Gli oggetti nella stanza dei giochi, però, dicevano altro.

Ecco un inventario parziale di quello che ho trovato: tredici puzzle da pavimento, molti dei quali studiati per imparare l’alfabeto; due confezioni di tesserine magnetiche e decine di pupazzetti e macchinine per il gioco costruttivo e simbolico. Xilofoni e tamburelli per stimolare le capacità musicali e colori a dita per ispirare la creatività artistica; quattro giochi di logica e una scatola di dadi per esercitarsi con la matematica; una cassa altoparlante per ascoltare Mozart o versioni dell’Iliade e dell’Odissea per bambini; infiniti pezzi di Duplo. E, dulcis in fundo, per insegnare al bambino a distendersi dopo un intenso pomeriggio fortemente pedagogico, il Topino meditazione e relax della Fisher-Price, un peluche imbottito che impartisce lezioni di stretching e rilassamento (la pubblicità dice: “Il compagno di coccole ideale per aiutare il tuo piccolo a rilassarsi”).

Jan Von Holleben, Trunk archive

La nostra pila di giocattoli magari era esagerata, ma di certo non eravamo un caso isolato. Le famiglie statunitensi spendono in media seicento dollari all’anno per i giocattoli; a dieci anni un bambino britannico ha ricevuto in media 238 giocattoli, per un valore di 6.500 sterline (7.500 euro). Dietro quest’abbondanza c’è un mondo: il boom postbellico della plastica, delle nascite e dell’aumento del reddito delle famiglie; le persone che lavorano nelle fabbriche cinesi e nelle agenzie di marketing; l’indolenza, non sempre benevola, di genitori presi inesorabilmente dalla carriera, dai postumi di una sbornia o dall’avversione a passare del tempo con altri soggetti emotivamente volubili. Soprattutto, però, dietro quest’abbondanza di giocattoli c’è una particolare idea della funzione del gioco e dell’infanzia.

Negli ultimi due secoli educatori, psicologi, aziende produttrici di giocattoli e genitori si sono comportati, più o meno esplicitamente, come se lo scopo del gioco fosse preparare i bambini all’età adulta. Il riferimento dominante in questo senso era la scuola, con il suo “leggere, scrivere e far di conto”. Più studio si faceva passare per gioco, meglio era. Poi, a partire dalla seconda metà del novecento, con la diffusione delle neuroscienze, le aziende cominciarono a vendere i giocattoli (e i consumatori a comprarli) con l’obiettivo di formare menti migliori e, di conseguenza, adulti più competitivi e di successo. Insomma, creare un homo sapiens un po’ più sapiens.

Questa pressione si concentrava soprattutto sui bambini più piccoli, fino ai cinque anni. Negli ultimi decenni sono arrivati sul mercato marchi come Baby Einstein, Baby Genius e Fat Brain (toys that matter for their grey matter, “giocattoli importanti per la loro materia grigia”, è lo slogan). Nel 2020 l’ampia categoria dei giocattoli educativi ha prodotto un fatturato di quasi 65 miliardi di dollari a livello mondiale, una cifra che secondo le previsioni raddoppierà entro il 2030. Questi oggetti – dal grillo parlante al gioco della fattoria a tutto il filone dei robot per imparare a scrivere il linguaggio informatico – sono presenti in moltissime giovani vite. “I genitori di oggi chiedono ai giocattoli di fornire un prodotto finale: la prosperità”, osserva Richard Gottlieb, un influente consulente del settore. “Vogliono dei giocattoli che facciano andare i figli ad Harvard”.

Negli ultimi tempi, però, questa concezione dello sviluppo infantile, per cui i bambini devono sguazzare tra numeri e lettere dell’alfabeto fin dai primi anni di vita, è stata messa in discussione. Al suo posto si sta facendo strada una visione più arcaica, e anche più anarchica, dell’infanzia e dei suoi giochi. “Il modello era ‘se compro dei giocattoli che fanno cose scolastiche allora va bene’”, osserva Alison Gopnik, una psicologa dello sviluppo. “Ma, in realtà, va contro tutto quello che dice la scienza dello sviluppo”. Per chi deve fare i regali di Natale o di compleanno, la notizia è che i bambini sono molto più raffinati, da un punto di vista cognitivo, di quanto non lascino supporre le pagine di Amazon o gli scaffali dei negozi. Insomma, per anni non abbiamo capito niente né dei nostri figli né dei loro giocattoli.

Scivolo rosso ciliegia

Quest’estate sono andato a visitare la sede di New York della Fisher-Price, il più grande produttore mondiale di giochi per bambini sotto i sei anni, per capire come le diverse teorie dello sviluppo infantile si riflettono nei vari giocattoli. Nell’atrio dell’edificio principale ho visto un dipendente che scendeva dal primo piano buttandosi da un enorme scivolo a spirale color rosso ciliegia. Sparsi per i corridoi c’erano esemplari dei giocattoli più conosciuti e più venduti dell’azienda, dalla classica Rock-a-Stack, la piramide di anelli colorati, sul mercato dal 1960, al Tino-robottino 4 in 1.

Per creare una linea di giocattoli di solito ci vogliono un paio d’anni. Alla Fisher-Price, comprata all’inizio degli anni novanta dalla Mattel, multinazionale del giocattolo da sei miliardi di dollari, gli interessi commerciali hanno ovviamente la priorità. La progettazione comincia con una scheda del settore marketing che specifica quanti prodotti servono per la prossima stagione, a quali prezzi devono essere venduti e in quali punti vendita. Poi arrivano gli studi sulle tendenze, che aiutano a orientare il design, dalla gamma dei colori alla “personalità” di ciascun giocattolo. Tutte le proposte devono essere toyetic, “giocattolose”, cioè carine e facili da lanciare sul mercato.

Una quindicina di anni fa, mentre lavorava sui Linkimals, una fortunatissima linea di giocattoli simili a buffi mammiferi che insegnano (o così dovrebbero) i rudimenti dell’alfabeto, dell’aritmetica e i colori dell’arcobaleno, la Fisher-Price valutò molti tipi di personaggi. “Cominciavano ad andare di moda le creature del bosco e quelle più stravaganti”, mi ha detto Dom Gubitosi, responsabile della progettazione. “I genitori si erano stufati di elefanti e tigri”. Attualmente la linea comprende la Lontra Abc, il Castoro Boppin e il Lama Multicolor, ma purtroppo non il Pangolino delle Preposizioni. “Per quanto ci sforzassimo, non riuscivamo a rendere il pangolino abbastanza tenero”, mi ha spiegato Kevin Crane, il principale progettista dei Linkimals.

Anche nell’epoca degli acquisti online, il momento chiave nella vita dei giocattoli prodotti per il mercato di massa è in negozio. I bambini fanno le loro prime scelte di acquisto più o meno all’inizio della scuola primaria, ma prima sono soprattutto gli adulti a comprare. Per convincere un genitore a mettere mano al portafoglio – o per spingere un bambino a blandire, supplicare, circuire e scatenare una guerra termonucleare finché il genitore non apre il portafoglio – “l’esperienza sullo scaffale” è fondamentale.

“Pensiamo sempre a come sarà il momento del ‘provami’”, spiega un designer di giocattoli indipendente che collabora con la Fisher-Price. I Linkimals sono studiati per attirare bambini e genitori grazie alle frequenze radio, che permettono d’interagire e cantare canzoni dell’alfabeto all’unisono. “Il segreto è sempre stato costruire giocattoli che parlassero tra di loro, ed è quello che abbiamo fatto noi”, dice Crane. “Quando conquistiamo un consumatore, lo facciamo fino in fondo, perché gli permettiamo d’immergersi nell’apprendimento, nella magia”.

Un elemento cruciale di questa “magia” dell’abc sono i contenuti caricati sui microprocessori dei giocattoli. Alcuni Linkimals hanno un repertorio di più di 125 “canzoni, suoni, motivi e frasi” per educare e intrattenere i bambini. “Non ti so neanche dire quante canzoni per contare fino a dieci ho scritto”, mi ha raccontato Cheralyn Paul, della Fisher-Price. Quando le ho chiesto in cosa consistesse il suo lavoro mi ha risposto: “Scrivere la sceneggiatura dell’intera esperienza elettronica” dei consumatori in età prescolare.

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I piccoli tormentoni che escono dalla cassa gracchiante sulla schiena dei Linkimals – “Hell-ooh friends, how are you to-day? Are you rea-dy to play? Let friendship li-ight the way!” (Ciao amici, come state oggi? Siete pronti a giocare? Facciamoci guidare dall’amicizia!) – sono quasi tutti opera di Paul e di Glen Tarachow, un designer del suono che per arrotondare fa il dj techno con lo pseudonimo di Euphoreum e il compositore di musica minimalista (con il suo vero nome): un antidoto, forse, alle canzoncine su cui gli tocca lavorare alla Fisher-Price.

“Portiamo energia”, mi ha detto Tarachow delle sue composizioni per i giocattoli. “Diciamo sempre così: più energia!”. A distanza di sei mesi, una delle sue canzoni per bambini dagli accenti house – ispirata, dice, dai night club belgi – mi tormenta ancora: “All I see are colours, colours all around. All I see are colours, colours when I bounce. Bounce!” (Vedo solo colori, colori intorno a me. Vedo solo colori, colori quando salto. Salta!).

Visioni contrastanti

In tempi e posti diversi, ma spesso anche nello stesso posto e nella stessa epoca, gli anni tra la nascita e la pubertà sono stati visti come una primavera d’innocenza e scoperta, come una miniera di manodopera a buon mercato o come un periodo d’incoscienza e inclinazione al peccato da reprimere con il catechismo e le bastonate. Queste convinzioni portavano con sé sentimenti contrastanti sul gioco, l’attività caratteristica dell’infanzia, e sui suoi materiali d’uso comune, cioè i giocattoli. I giochi della Fisher-Price rappresentano per molti aspetti l’apoteosi di un’idea della gioventù che si formò vari secoli fa ma è diventata davvero dominante solo nell’ultimo secolo.

Una grande varietà di specie animali, dal pesce elefante al drago di Komodo, si diverte con oggetti come rametti, anelli e palline di plastica. Tra i nostri simili il gioco è onnipresente. Le prime tracce di giocattoli risalirebbero almeno al tardo paleolitico superiore, tra 20.000 e 10.000 anni fa, anche se è improbabile trovare testimonianze archeologiche dei giocattoli più comuni, come le bambole fatte di bastoncini e le piccole lance di legno. Dall’età del bronzo in poi, cioè dal terzo millennio aC, i giocattoli compaiono frequentemente, e il più delle volte all’interno di tombe e altri ambienti che testimoniano la loro relazione intima con l’infanzia e il suo significato. Un’anfora attica del quinto secolo aC conservata al Metropolitan museum of art di New York raffigura un bambino che si appresta ad attraversare lo Stige per entrare nel mondo dei morti; tende una mano verso la madre, che non può afferrarla, e nell’altra stringe il manico di un carretto giocattolo.

Anche se la funzione esplicitamente didattica dei giocattoli è un fenomeno relativamente recente, i giochi sono sempre stati visti come un appiglio nella scalata verso la maturità. Un giocattolo da traino a forma di ariete che risale al terzo millennio aC, proveniente dall’antica città sumerica di Eshnunna (l’odierna Tell Asmar, in Iraq), fu probabilmente usato da un bambino per imparare a gattonare e poi a muovere i primi passi. Nel deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, archi e frecce in miniatura servono ancora oggi a preparare i bambini del popolo san al loro futuro ruolo nella caccia. Dopo la diffusione del capitalismo e dell’etica protestante dal cinquecento in poi, in gran parte del mondo occidentale il gioco era disapprovato, a meno che non fosse inteso come una forma di lavoro fisicamente, mentalmente e moralmente produttivo. I giocattoli educativi come quelli della stanza dei giochi di mio figlio sono il frutto più o meno diretto di questo zelo industrioso e moralizzatore.

A metà del novecento questo zelo ha trovato una dubbia giustificazione neuroscientifica. A partire dagli anni sessanta, studiando in laboratorio topi, gatti e macachi rhesus, i ricercatori scoprirono che nei primi anni di vita i mammiferi avevano bisogno di una serie di stimoli mirati per sviluppare facoltà cruciali come la vista. Gli esemplari giovani, inoltre, avevano una sovrabbondanza di connessioni sinaptiche, che tendevano drasticamente a “cadere” durante lo sviluppo. Se allevati in ambienti in cui potevano interagire con giocattoli e altri animali della loro specie avevano più sinapsi di quelli cresciuti in isolamento.

Erano intuizioni rivoluzionarie nel campo che oggi conosciamo come neuroplasticità, il modo in cui il cervello si modifica nel tempo. Tuttavia, questi risultati furono troppo presto estrapolati e associati agli esseri umani, senza sufficienti basi scientifiche. Nei trent’anni successivi si radicò la convinzione che la mente del bambino va stimolata con giocattoli, bilinguismo e passaggi intrauterini di Bach, per far sì che il cervello formi e conservi il massimo numero possibile di sinapsi e che il bambino raggiunga il suo pieno potenziale, evitando la fatica, la miseria e magari anche il crimine. Alla fine degli anni novanta l’esperto di neuroscienze e finanziatore della ricerca John T. Bruer lo definì “il mito dei primi tre anni”.

I riferimenti alle sinapsi diedero una parvenza di fondamento biologico alla dottrina già molto diffusa del “determinismo infantile”, l’idea cioè che le prime esperienze influenzino in modo irreversibile il comportamento e le capacità di una persona. Quest’idea era già presente in molti sistemi psicologici, dal freudianesimo alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby fino ai quattro stadi dello sviluppo postulati da Jean Piaget. Nel 1996 uno psichiatra infantile di Harvard spiegava al giornalista Ronald Kotulak: “C’è un processo di formazione che parte all’inizio dello sviluppo; alla fine di questo processo, all’età di due, tre o quattro anni, sostanzialmente abbiamo progettato un cervello che con ogni probabilità non cambierà molto”. Bisogna usare i giocattoli per stimolare subito l’apprendimento, questo era il ragionamento, altrimenti la finestra per il massimo sviluppo si chiude e sarà troppo tardi.

I migliori giocattoli nuovi sono quelli vecchi: bastoncini, cubi, bambole e sabbia, che non seguono procedure programmate

È senz’altro vero che forti traumi e privazioni estreme possono causare danni duraturi e a volte insuperabili nei bambini piccoli. Ed è anche appurato che esperienze positive nei primi anni di vita – per esempio l’accudimento – possono mitigare questi danni. Tuttavia, nonostante gli sforzi di milioni di genitori premurosi, è molto improbabile che bambini di tre anni diventino dei geni regalandogli un ukulele di plastica o facendogli imparare le scale al violino. Anzi, il rischio è favorire nei bambini un perfezionismo paralizzante e un profondo senso di inadeguatezza. Per lo stesso motivo, non serve crescere con centinaia di giocattoli o parlare tre lingue per diventare straordinariamente brillanti: infatti, si possono imparare lingue straniere a ottimi livelli anche nella tarda infanzia e oltre.

Non sempre i genitori colgono queste sfumature. Già a metà degli anni ottanta Brian Sutton-Smith, probabilmente il più prolifico studioso del gioco di sempre, scriveva: “Ci sono scarse prove di un legame tra i giocattoli, presi di per sé, e il raggiungimento dei risultati”. Alla fine degli anni novanta, quando il mito dei primi tre anni pervadeva ancora la cultura statunitense, il comparto dei giocattoli educativi è cresciuto più di qualsiasi altro segmento del settore, a un tasso più che doppio rispetto a quello dell’economia statunitense in generale. Comprare giocattoli educativi è diventata “una sorta di magia rituale a cui ci si affida per assicurare uno sviluppo ottimale al terreno fecondo del cervello infantile”, scriveva all’inizio degli anni duemila la studiosa di comunicazione Majia Nadesan.

Tracciamento oculare

Alla sede centrale della Fisher-Price è difficile allontanare la sensazione che si sprechi una straordinaria quantità di tempo, fatica e batterie alcaline – senza contare le sinapsi – per costruire complicatissime macchine per le canzoni dell’alfabeto. Durante la mia visita, un ricercatore ha sistemato un dispositivo di tracciamento oculare sulla testa di un bambino di diciotto mesi. Eravamo nel PlayLab, una sezione dove gli esperti di educazione della prima infanzia usano nuove tecnologie, come i software di “lettura delle espressioni facciali”, che analizzano le emozioni per progettare giocattoli capaci di rispondere alle “necessità di sviluppo fisico, cognitivo, sociale ed emotivo” dei più piccoli. Una volta sistemato il dispositivo di tracciamento oculare, il bambino era pronto per incontrare lo Smooth move sloth, il bradipo dai movimenti fluidi, un pupazzo di venti centimetri che produce luci e suoni, sempre della linea dei Linkimals. Progettato per catturare l’attenzione del bambino con i suoi occhi grandi, vuoti e sorridenti e la testa che ondeggia in modo ipnotico, il bradipo ha le sembianze di un maestro d’asilo felicemente lobotomizzato. Uno stagista ha acceso il bradipo premendo un tasto su una zampa e quello si è messo in moto. “Ehi, come va?”, ha chiesto la creatura, con l’inflessione di un universitario californiano strafatto che è stato trascinato a parlare di fronte alla classe. “Ahahaha. Cantiamo!”.

Il bambino ha fatto un’espressione allarmata e si è allontanato dal giocattolo, senza togliergli gli occhi di dosso. Questi atteggiamenti sono tipici dei giovani mammiferi quando incontrano oggetti sconosciuti nel loro ambiente: devono valutare la loro pericolosità prima di decidere se giocarci o no. Una delle cose cercate dagli studiosi del PlayLab è un distinto “pattern di gioco”, un’espressione del settore che indica il modo in cui il giocattolo coinvolge il bambino: lo incoraggia a gattonare sul pavimento? Gli fa riconoscere delle forme o mettere dei cubi in pila? La Fisher-Price sostiene che il bradipo “rafforza le connessioni di apprendimento veloce” e insegna “l’alfabeto, i numeri e il gioco dei contrari”. Il bimbo si è avvicinato al bradipo e poi si è allontanato un’altra volta, curioso ma vigile. Forse stava imparando qualcosa, ma, almeno per il momento, non era l’alfabeto.

L’idea che servano dei giochi elettronici per insegnare ai bambini a riconoscere i colori o a contare fino a dieci è smentita da alcuni secoli di storia umana. Ma siccome la scuola è sempre stata la metafora dominante dell’apprendimento, i bambini che non vanno ancora a scuola spesso sono stati considerati poco più che contenitori vuoti in attesa di essere riempiti. “L’idea più diffusa sui bambini fino a cinque anni era che nelle loro menti succedesse poco e niente”, dice la psicologa evolutiva Gopnik. “Senti ancora gente dire: ‘I bambini non sanno distinguere tra fantasia e realtà’. Oppure: ‘Non sanno pensare in maniera logica’, o cose del genere”.

Negli anni settanta e ottanta Gopnik e i suoi colleghi dell’università di Berkeley, insieme ad altri ricercatori, cominciarono a mettere a punto tecniche migliori per valutare come funziona il cervello durante lo sviluppo. Si concentrarono non su quello che dicevano i bambini, ma su quello che facevano in situazioni creative e in cui avrebbero dovuto risolvere un problema. “Abbiamo riscontrato che anche i bambini più piccoli sanno di più, e imparano di più di quello che pensiamo”, dice Gopnik. “Sono estremamente razionali e sotto certi aspetti sono molto più bravi nell’apprendimento inferenziale (la capacità di usare informazioni frammentarie per arrivare a conclusioni accurate) di qualsiasi altra creatura a noi nota”.

Uno dei paradossi di tanti cosiddetti giocattoli educativi è che non permettono ai bambini di fare o di capire le cose da soli. Giri la freccia, tiri il cordoncino e il maiale grugnisce, fine della storia. “Io dico sempre che i migliori giocattoli sono al 90 per cento bambino e al 10 per cento giocattolo”, dice Kathy Hirsh-Pasek, psicologa della Temple university, che ha coordinato alcune delle ricerche più citate sugli effetti del gioco nello sviluppo infantile. “Se il giocattolo è il 90 per cento e il bambino il 10 è un problema”.

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Invece d’intrattenersi con giocattoli educativi che dispensano informazioni come una bancarella del luna park dispensa zucchero filato, i bambini potrebbero esplorare l’affascinante complessità del mondo. Potrebbero passare il tempo a capire i fondamenti della meccanica newtoniana e le dinamiche interpersonali, prima ancora di riuscire a verbalizzare le loro intuizioni. Nel primo programma di ricerca di questo tipo, il Center for early childhood education della Eastern Connecticut state university ha studiato le tipologie di gioco stimolate dai vari giocattoli. “Nel 2010, quando abbiamo cominciato, non c’erano molti studi su questo”, dice Julia DeLapp, che oggi dirige il centro. Dopo aver osservato i bambini alle prese con più di cento tipi di giocattoli, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che oggetti semplici, non legati a un risultato preciso, non realistici e con più parti, come un assortimento casuale di Lego, sono quelli che stimolano il gioco migliore. Quando sono impegnati in questi giochi, i bambini “tendono a essere più creativi, a risolvere i problemi, a interagire con i loro coetanei e a usare il linguaggio”, scrivono i ricercatori. I giocattoli elettronici, invece, tendono a limitare il gioco: “Durante il nostro studio, un semplice registratore di cassa in legno ha stimolato una serie di conversazioni sul vendere e comprare, mentre uno di plastica che emetteva dei suoni quando si premevano i bottoni ha spinto i bambini solo a premere ripetutamente i pulsanti”.

Alla luce di questa ricerca è ormai generalmente riconosciuto che i migliori giocattoli nuovi sono quelli vecchi: bastoncini, cubi, bambole e sabbia, che non seguono procedure programmate e non richiedono comportamenti predeterminati. “Non credo che i giocattoli elettronici siano il male, ma spesso nel nostro settore tendiamo a esagerare, appropriandoci dell’esperienza dei bambini”, dice Hirsh-Pasek. “Dopo che i bambini ci giocano un paio di volte, sono più interessati alla scatola”.

Eppure molti politici, aziende e genitori continuano a sottovalutare drammaticamente le capacità cognitive dei bambini. Solo tre anni fa l’American academy of pediatrics ha sentito il bisogno richiamare l’attenzione contro “la proliferazione di giocattoli elettronici, sensoriali, pieni di rumori e lucine che possono essere percepiti dai genitori come necessari per lo sviluppo nonostante la mancanza di prove scientifiche”.

Inondati di sole

Il PlayLab dell’Ideo, situato in un’ex fabbrica di sciroppo a San Francisco, può essere considerato il cugino della Fisher-Price. L’Ideo è un’azienda di design e di consulenza famosa per aver cercato di reinventare qualsiasi cosa, dal carrello per la spesa alla morte, ma da più di trent’anni ha anche una sezione giocattoli. “Ci piace dire che il gioco fa parte del dna dell’Ideo”, dice Michelle Lee, una delle responsabili del PlayLab. Tra gli uffici open space inondati dal sole, gli ultimi insegnamenti della scienza dello sviluppo qui sembrano germogliare. A differenza di quanto succede alla Fisher-Price, le famiglie per cui il PlayLab dell’Ideo fa ricerche di mercato sono meno interessate a giocattoli che insegnano l’alfabeto e i numeri. Oggi le parole d’ordine sono il gioco a finalità aperta e la creatività. “L’idea che nei negozi di giocattoli ci siano intere corsie dedicate a convincere i genitori che i loro figli debbano imparare a leggere prima del tempo è una follia”, dice Adam Skaates, un altro dei responsabili dell’Ideo PlayLab. Tra l’altro, osserva, questa tipologia di giochi è stata spazzata via dalle nuove tecnologie: “I tablet possono offrire la stessa esperienza in modo molto più efficiente”.

Non mi è chiaro quanto sia davvero “a finalità aperta o creativa” l’esperienza con alcuni dei giocattoli più venduti dell’Ideo – molte delle loro idee vengono comprate dai grandi produttori come Fisher-Price, Mattel e Hasbro – ma i designer hanno un modo molto sofisticato di parlare dei pattern di gioco dei loro prodotti. Le costruzioni servono per giocare a costruire e distruggere, le piste delle biglie per giocare con la fisica. Sono tutti particolarmente fieri di un coniglietto di plastica dalle orecchie morbide e pelose che sgranocchia frammenti di cartoncini con le verdure disegnate sopra e poi fa la cacca a pezzetti. Dicono che questo delizioso trita-documenti è un ottimo esempio di “gioco di accudimento”, e quasi mi convincono. È sicuramente un ottimo esempio della loro inventiva.

Da sapere
Crescita costante
Valore del mercato mondiale dei giocattoli, miliardi di dollari (fonte: the npd group)

I progettisti dell’Ideo hanno capito che il gioco non è sempre una questione di traguardi da raggiungere. Vlasta Komorous-King, un inventore di giocattoli che lavora per l’azienda da quindici anni, mi racconta di una volta che ha osservato una bambina giocare con una bambola. “Quando la bambola si arrabbiava le dava un pupazzo per calmarla”, dice Komorous-King. “Aveva capito quanto fosse importante un oggetto in quel momento”. Sembra il risvolto positivo di un aneddoto meno edificante che ho letto da qualche parte sugli effetti dei giocattoli elettronici sulla psiche: un bambino che non riusciva a fare la cacca seduto sul water ha detto alla madre, sconsolato: “Mi sa che devo cambiare le batterie”.

Pur lasciando intendere che l’attività ludica potrebbe significare anche altro, per molti versi l’Ideo sposa l’antica etica della produttività del gioco. “Troppo spesso vediamo il gioco e il lavoro in antitesi tra loro, ma noi otteniamo i risultati migliori quando facciamo convivere le due cose”, dice Lee. Oltre a inventare giocattoli, l’Ideo PlayLab sta cercando di vendere alle aziende di qualsiasi settore l’idea che il gioco è uno strumento per migliorare i profitti. Ho la triste sensazione che tutto sia stato assorbito in un’unica logica, cioè che i giocattoli, il gioco e l’infanzia siano stati completamente cooptati e siano diventati territorio di conquista della “lavorizzazione”.

Da sapere
Più costruzioni e peluche
Andamento delle vendite di giocattoli negli Stati Uniti nel 2021, percentuale (fonte: the npd group)

Mandarino e scacchi

Quando mio figlio ha cominciato la scuola primaria, nella stanza dei giochi sono rimasti pochissimi giocattoli. Il suo tempo libero è diminuito molto. Sono arrivati i compiti, gli allenamenti di tennis e di calcio e novanta minuti di lezioni alla sede locale della scuola russa di matematica. Come una lampadina impazzita, io e mia moglie oscilliamo tra la paura di sovraccaricarlo e l’ansia di iscriverlo ai corsi di mandarino e di scacchi. Ogni tanto propongo di allestire una piccola falegnameria in garage o di portare lui e i suoi amici nel bosco per fargli provare il divertimento di perdersi e arrampicarsi sugli alberi.

Perfino in questa visione bucolica di angioletti spettinati che vagabondano tra fortini improvvisati in boschi di 40 ettari si nascondono le aspirazioni e le ansie che infestavano la nostra stanza dei giochi: come preparare i bambini a un mondo che sembra ogni giorno più incerto, più iniquo e più insicuro, un mondo in cui l’intelligenza e la creatività sembrano le maggiori garanzie di sicurezza e autonomia. Il giocattolo che non prevede un risultato preciso, alla fine, è solo un altro modo per provare a fare entrare mio figlio di sei anni ad Harvard. Anche la nuova scienza dello sviluppo sembra guardare i più piccoli in termini che si adattano fin troppo al mercato. Nei tempi morti tra la scuola e le attività pomeridiane, a volte mio figlio gioca a fare il proprietario di un piccolo banco dei gelati che un amico di famiglia gli ha regalato lo scorso Natale, servendo palline di legno di cioccolato e vaniglia con una paletta a misura di bambino. In quei momenti penso che alla fine la logica dei giocattoli è la logica del supplente: tenere gli alunni abbastanza impegnati da impedirgli di disturbare o rompere qualcosa, e magari sfruttare l’occasione per insegnargli i primi rudimenti dell’alfabeto, della fisica o del neoliberismo. “La storia dei giocattoli è la storia di come abbiamo insegnato ai bambini a tenersi occupati in modo utile stando da soli”, ha scritto nel 2015 Sutton-Smith. Una volta spogliati delle aspirazioni sociali ed educative che incarnano, osserva, i giocattoli sono regali con un paradossale duplice messaggio: “Ti dono questo giocattolo per legarti a me, ora va’ e giocaci da solo”.

Il giorno prima della visita alla Fisher-Price sono andato allo Strong national museum of play di Rochester. Oltre agli archivi di Sutton-Smith, il museo ospita la più grande collezione di materiali collegati al gioco, tra cui circa mezzo milione di bambole, giochi da tavolo e altri giocattoli. Girare tra le pile di oggetti è come trovarsi nelle viscere di un’arca di Noè di un mondo antidiluviano popolato di cavalli a dondolo e Mr e Mrs Potato. La visita mi ha fatto capire che se c’è una cosa che abbiamo insegnato ai nostri figli attraverso i giocattoli è il vizio dell’accumulazione materiale.

Il museo Strong è anche la sede della National toy hall of fame, di cui dal 1998 fanno parte alcuni dei giocattoli più popolari e intramontabili d’America, come la consolle Atari e la Barbie. Alcuni di questi giocattoli erano nati esplicitamente per stimolare la creatività e lo sviluppo intellettivo, altri erano stati concepiti per puro divertimento o vedevano la perdita di tempo con rinfrescante disincanto (le bolle di sapone o la palla magica 8). Durante la mia visita ho parlato con Christopher Bensch, vicepresidente della sezione collezioni. Prima di trasferirsi a Rochester, Bensch lavorava a Utica, nello stato di New York, in un museo d’arte che si trova accanto a una residenza storica. “Nell’ottocento era la casa della famiglia più ricca della città”, mi ha raccontato. “Ogni Natale le due figlie cresciute nella casa tenevano un diario, in cui scrivevano tutti i regali che avevano ricevuto per le feste”.

“Utica era una città industriale in pieno boom e quella famiglia era piena di soldi. Un anno le bambine ricevettero in regalo una casa delle bambole”, ha continuato Bensch, evocando immagini lontane di festività natalizie in un New England immerso nella neve. “Gli anni successivi, però, ebbero solo un’arancia, un libro o un mobile per la casa delle bambole. Non gli arrivarono le montagne di regali che oggi tutti i bambini si aspettano a Natale o al compleanno, magari perché i genitori pensano: ‘Se non gli regalo il mondo sono un delinquente’”.

C’è qualcosa di raro e prezioso nella bellezza e nella semplicità di questa storia: una casa delle bambole in una stanza ordinata, tenuta con cura e arredata pezzo per pezzo nel corso degli anni, un armadio in miniatura alla volta. Vorrei per mio figlio un po’ della frugalità e della pace che ebbero quelle due bambine. Ma d’altra parte, loro sono cresciute in un altro mondo. ◆ fas

Alex Blasdel è un giornalista freelance che vive a Londra, nel Regno Unito.

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Questo articolo è uscito sul numero 1491 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati