Il 1983 in Albania fu piuttosto tranquillo e l’estate sonnolenta. Con il senno di poi, però, la rapidità e la profondità con cui il paese sarebbe cambiato solo pochi anni dopo furono forse preannunciate una tarda mattinata di quel giugno, quando un giovane sfrecciò con un’auto del governo lungo il viale principale del mio quartiere, Myslym Shyri. Schivò i marciapiedi a destra e a sinistra, mentre le ruote stridevano, e alla fine si schiantò contro un platano accanto all’edicola di Rriku, in fondo alla strada.

A metà della corsa, proprio davanti al cinema, la Fiat di fabbricazione polacca travolse il carretto del nostro gega, il gelataio ambulante del quartiere, facendolo cadere. Le sue quattro vaschette di gelato si schiantarono a terra con un colpo secco. I curiosi si accalcarono. Poi arrivarono le sirene, la polizia e l’ambulanza, che scortò il gega all’ospedale.

Era la Tirana di quarant’anni fa: le poche auto in circolazione erano a disposizione dei capi del partito e dei funzionari governativi, quindi la voce che un’auto fuori controllo avesse investito il gega si diffuse a macchia d’olio nel quartiere.

Chissà se quel lontano ricordo sarebbe mai riaffiorato se tre anni fa non avessi visto una foto di quel gelataio su una di quelle pagine Facebook che trasudano nostalgia. Era dedicata all’Albania tardo-comunista e si chiamava Na ishte dikur, “c’era una volta” in albanese.

Nella foto, il gega era ritratto mentre spingeva il carretto nella piazza centrale di Tirana e una ragazza gli andava incontro con un cono gelato in mano. Sullo sfondo si stagliava un mastodontico ritratto del presidente Enver Hoxha, appeso alle colonne del Palazzo della cultura. Sembrava una messa in scena patinata per le riviste di propaganda dell’epoca.

Metà delle centinaia di commenti sotto quel post su Facebook erano di odio per il dittatore e metà di ricordo del gelataio. Il post stesso era stato condiviso circa duecento volte. Hoxha e il gega erano stati due dei protagonisti della mia infanzia, quindi l’avevo condiviso anch’io.

“Ti ricordi quando quell’auto l’ha investito?”, mi ha scritto un vicino quando ha visto che avevo condiviso il post. Non ricordavo. Non sapevo nemmeno che fosse successo. Ma quando il mio vicino ne ha parlato, ho cominciato a ricostruire la storia e il mondo da cui proveniva. Cos’è successo al gega, mi sono chiesto? Chi era? Aveva anche un nome? Queste persone avevano un nome?

Tre o quattro generazioni di bambini lo avevano conosciuto come il gega alto, il ghego alto, per distinguerlo da Ali, il gelataio basso e tarchiato con cui aveva condiviso il territorio. In città ce n’erano parecchi, li chiamavamo gega perché venivano dal nord. Gli albanesi si dividono tra toschi a sud e gheghi a nord, ma da Tirana in giù, fino al sud del paese, quando dicevamo gega non ci riferivamo alla provenienza. Era diventato il nome generico che i bambini davano ai gelatai e ai venditori di dolciumi.

Inoltre, il dialetto ghego – l’albanese del Kosovo, dell’Albania settentrionale, del Montenegro e della Macedonia settentrionale – con le sue “r” morbide e le vocali nasali che si mangiano la fine dei participi, non era quello che usavano, almeno la maggior parte di loro. I participi del nostro gelataio erano completi e il suo richiamo baritonale “A-ku-llo-RREY!”, gelati!, arrotava le r e rimbombava per le strade.

La maggior parte dei gega non era nata in famiglie di lingua albanese. Erano gorani, una comunità di slavi musulmani provenienti dagli altipiani e dalle valli remote ai confini dell’attuale Albania, del Kosovo e della Macedonia settentrionale. Parliamo di ventinove villaggi, qualche decina di migliaia di persone, in un’area dei monti di Šarr tra Kukës, Prizren e Tetovo.

La loro lingua – che chiamano našinski, cioè “nostra” o “nostra lingua” – è più vicina ai dialetti macedoni occidentali, ma con caratteristiche grammaticali diverse e condita con parole serbe, albanesi e arcaici termini turchi. Durante il periodo ottomano erano una comunità di pastori che per l’inverno conduceva il gregge fino alle pianure della Tessaglia. Secondo la tradizione, il brigantaggio spinse alcuni di loro ad abbandonare la pastorizia e a trasferirsi nelle aree urbane, dove praticavano la lotta libera e vendevano boza, noci arrostite o halva, dei dolci, al mercato.

Ma potrebbe essere stata semplicemente la sovrappopolazione a costringere molti gorani a vagare nell’orbita ottomana in cerca di lavoro. “La loro era una migrazione stagionale”, mi ha detto Thomas Schmidinger, un etnologo austriaco. Gli uomini celebravano la loro partenza intorno al giorno di san Demetrio, in ottobre, assicurandosi di essere a casa per il Djuren, il giorno di san Giorgio, in tarda primavera. L’estate era il tempo dell’aratura della terra, del commercio del bestiame, dei matrimoni e delle feste per la circoncisione accompagnate da esibizioni di lotta libera.

Durante questa migrazione stagionale, che chiamavano con il termine turco gurbet, vendevano cibo come ambulanti: ceci tostati, trippa alla griglia, cubetti di fegato di vitello e kebab. Con il tempo aggiunsero bevande, gelati e dolci.

È forse a Prizren – città che si trova ai piedi dei monti Šarr ed è un centro regionale del commercio – che i gorani si sono affermati per la prima volta nel campo dei dolci e delle bibite, come mi ha raccontato Jeton Jagxhiu, che fa ricerca sull’alimentazione. Fino agli anni cinquanta, prima dei frigoriferi, una famiglia di pasticcieri doveva avere in cortile una buca per la neve, essenziale per la produzione di gelati e bibite fresche in estate. Non molto tempo fa, la città contava circa una decina di pasticcerie gorane.

All’epoca della prima guerra mondiale un censimento mostrava che nove su dieci dei circa 1.800 gorani erano pasticcieri. Tre famiglie si erano spinte fino ad Alessandria d’Egitto e, se si vuole credere alle favole, i gorani avevano raggiunto Xanadu: si dice che furono visti vendere cibo in Cina. “Erano la cosa più vicina ai marinai in quelle terre senza sbocco”, dice Jagxhiu. “Viaggiavano lontano e tornavano sempre con qualche storia”.

Portavano con sé anche qualche trovata, aggiunge Andrea Pieroni, etnobotanico italiano. Prendiamo l’halva, la pasta di farina, zucchero e semi di sesamo o pistacchi macinati, mescolata con olio e cotta. Oggi in Albania è servita soprattutto ai funerali, ma all’epoca era il dolce per eccellenza.

Fino agli anni cinquanta, prima dei frigoriferi, i pasticcieri dovevano avere in cortile una buca per la neve, essenziale per la produzione di gelati e bibite fresche in estate

È una ricetta semplice che massimizza l’apporto di carboidrati, grassi e proteine, e si conserva facilmente. Se non trattato, l’olio colerebbe via durante la cottura, trasformando l’halva in una mattonella secca. Per trattenerlo, a Levante si aggiungono estratti di piante mediorientali, in turco chiamate çöğen. Ma i gorani hanno sostituito le piante lontane con una proveniente dai loro pascoli, che oggi chiamano chuen.

Sarebbero stati sempre i gorani a trovare il modo di rendere analcolico la boza, cosa difficile per questa bevanda a base di cereali fermentati. Si dice che la famiglia Vefa, che gestisce il negozio di boza più famoso di Istanbul, abbia origini gorane.

I venditori ambulanti di cibo si trovavano in tutti i Balcani ottomani, dalla Bosnia a Costanza, sul Mar Nero, da Sofia fino alla vecchia Salonicco levantina. In effetti, il posto dove andare a comprare tulumba e kataifi nell’odierna Salonicco è Chatzis, fondato nel 1908 dai discendenti di un venditore stagionale di boza arrivato dl villaggio di Brod, in Bosnia Erzegovina.

A Belgrado è possibile visitare un negozio aperto a metà dell’ottocento gestito dalla famiglia del fondatore gorano, che veniva dal villaggio di Zli Potok. La famiglia e il negozio condividono lo stesso nome, Pelivan, che in turco significa lottatore. La leggenda narra che il fondatore vinse una grossa somma di denaro in un incontro di lotta libera e la usò per aprire il negozio, così popolare che pelivan diventò sinonimo di banco dei gelati. Decine di pasticcerie gorane hanno usato quel nome in altre parti dell’ex Jugoslavia. Prizren aveva il suo pelivan. Mitrovica, Niš e Subotica hanno ancora il loro. Skopje ne aveva due.

Così come le città jugoslave avevano i loro pelivan, quasi ogni città in Albania aveva i suoi gega. Alcuni si potevano vedere con i vassoi in testa lungo le strade dei bazar di Argirocastro. Altri aprivano laboratori di pasticceria a Tepelena o a Durazzo, dopo aver venduto cibo di strada a Ioannina o a Scutari. Certi vendevano halva fuori dalle fabbriche e dalle scuole di Valona o ai tifosi di calcio a Tirana. Gega è diventato un nomignolo diffuso: Qemal Bala, un gorani che negli anni cinquanta portò una primitiva macchina per gelati nella città mercato di Delvina, sulla punta meridionale dell’Albania, era conosciuto da tutti in città come Qemal gega.

Tirana cominciò a crescere quando diventò la capitale dell’Albania neo-indipendente all’inizio del novecento, e quando la sua popolazione aumentò dopo la seconda guerra mondiale arrivarono tanti gega. La maggior parte proveniva dai due principali villaggi gorani in Albania: Borje e Shishtavec.

Alcuni avevano il loro negozio. Uno aveva portato con sé anni di esperienza da Sarajevo, un altro aveva una gelatiera: un vaso con una piastra di miscelazione incastonata all’interno di un vaso più grande e riempito d’acqua di raffreddamento salata. Nelle loro piccole case in affitto fermentavano la boza, cucinavano l’halva o caramellavano gli zuccheri in una stanza e dormivano nell’altra. La mattina dopo uscivano a vendere in strada.

Se non erano sposati, uno dei motivi del loro ritorno estivo a Gora era la ricerca di una moglie. Un altro motivo era quello di procurarsi le radici di chuen per la loro halva. Ma poi, dopo la seconda guerra mondiale, tornavano sempre meno nei loro villaggi. In occasione del Djuren, spesso si limitavano a fare un picnic sulle colline che circondano Tirana.

Un pomeriggio alla settimana si riunivano a casa degli altri, più spesso a casa di Sabir Sula, il primo gorano ad aprire un negozio in città. Aveva una casa con un cortile più grande in cui le famiglie potevano riunirsi: i bambini giocavano, sua moglie Sabirica e le altre donne preparavano il cibo per tutti, gli uomini chiacchieravano, bevevano e cantavano.

Quando alla fine degli anni sessanta le piccole aziende furono nazionalizzate – cancellando con un colpo di spugna la ricca tradizione degli artigiani dei bazar e delle loro sale da caffè – i lavoratori furono impiegati in quelle statali. I venditori ambulanti di halva e di boza finirono nelle linee centralizzate di produzione e distribuzione di dolciumi. Alcuni di loro contribuirono a fondare la principale fabbrica di pasticceria. Certe famiglie, come i Fetishaj di Shishtavec, avevano rappresentanti in tutto il settore: uno produceva torte di pasta sfoglia, un altro lavorava nella fabbrica di gelati aperta negli anni sessanta, in cui il gelato era prodotto in grandi vasche con blocchi di ghiaccio trasportati da camion. Alcuni gorani lavoravano nei negozi di dolci del quartiere. Gli altri usavano carrelli per biciclette per vendere in strada pasticcini e gelati.

Erano i gega della mia infanzia. Avevano grembiuli e cappelli come le infermiere di un ospedale. Vendevano dolci e caramelle di ogni tipo: i galletti di zucchero tostato e le mele caramellate; le palline di popcorn al caramello, che una volta si chiamavano fiori di Istanbul; il sandwich di biscotto ripieno di marmellata e glassato al cioccolato chiamato testa di moro; o le semplici ingranazhe, biscotti a forma di ruota dentata. In inverno, offrivano coni guarniti di meringa, una sorta di gelato finto. Ma sapevano che noi bambini volevamo quello vero. D’estate, i loro carretti scendevano per le strade gridando “A-ku-llo-RREY!”.

I bambini di Tirana furono spartiti in piccoli feudi. Nurçe, l’uomo che aveva portato la macchina per lavorare l’halva dalla Romania e la sua esperienza da Sarajevo, vendeva gelati a est della città. Sade copriva il centro. Vajde aveva la zona a nord della stazione ferroviaria e odiava che tutti lo chiamassero Cuca, “nasone”. Il nordovest apparteneva al grassoccio Ali, di etnia albanese ma fuggito dalla Macedonia jugoslava negli anni sessanta. Il termine gega finì per essere usato anche per altri gelatai come Reshat lo zingaro e Loukas il greco, i cui territori erano i quartieri industriali all’estremo est e all’estremo ovest della città.

La zona ovest della città, al confine con il territorio del grassoccio Ali, apparteneva a Ziqo, il nostro gega. Ogni giorno, d’estate, riempiva le vaschette nel magazzino vicino alla piazza principale della città, poi camminava oltre il grande viale, dal disegno fascista, fino ai palazzi costruiti negli anni sessanta. Attraversava il fiume Lana vicino al capannone di lamiera ondulata che serviva come centro espositivo statale e si chiamava Albania Oggi.

Spingeva poi il carretto lungo la strada Myslym Shyri, un tratto di un chilometro fiancheggiato da alberi, marciapiedi e palazzi. La strada collega il centro della città con il lato occidentale della circonvallazione e separa i nuovi edifici a sud dalle case più antiche con i loro vicoli serpeggianti a nord.

I pochi negozi statali lungo la strada portavano i nomi di chi ci lavorava. Le code per il latte in bottiglia davanti a quello di latticini di Xhemile evaporavano quando passava Ziqo. C’erano Tim Pallaveshi, il venditore di verdure, e Lili lo zoppo, il droghiere che finì in carcere per mercato nero. I giovani perditempo stazionavano davanti al calzolaio Murat, mentre un gruppo di donne appena sopra tesseva tappeti.

Francesca Ghermandi

C’erano Shati, il barbiere, e Sati, che gestiva il cinema e a volte ci lasciava dare un’occhiata ai film dalla sala di proiezione. Avevamo perfino fatto dei buchi nella porta del cinema per poter sbirciare lo schermo senza entrare, anche se durante i processi pubblici i buchi si rivelarono inutili, perché l’intero perimetro dello stabile era presidiato dai poliziotti. Quello era il mio quartiere.

Ziqo si assicurava di essere alla scuola elementare in fondo alla strada per la pausa delle dieci e mezzo, in modo da poter fare quella delle undici nella vicina fabbrica di abbigliamento, in cui lavorava sua figlia. Poi ricominciava da capo.

Il suo nome completo era Zeqir Kamberi. Aveva cinque figli e viveva in una piccola baracca a un piano nella periferia orientale della città. Era anche l’unico gega della mia infanzia, l’uomo la cui foto ha fatto il giro di Facebook nel 2019.

In estate, il gega incontrava Nasrudin, che veniva in città con il suo asino per vendere legna da ardere. Nasrudin comprava due coni gelato, uno per sé e uno per l’asino. Arben “Danoç” Cullhaj, che è cresciuto nel quartiere, mi ha raccontato che i bambini sorridevano e chiedevano: “Ma Nasrudin, perché dai il gelato all’asino?”. E Nasrudin rispondeva: “Be’, anche lui soffre il caldo”. E l’asino dava una leccata al gelato.

Poi il gega gridava: “A-ku-llo-RREY!”. I bambini uscivano di corsa dalle case e dalle scale dei condomini per accalcarsi intorno al carretto. “Portate pazienza”, diceva il gega, “ce n’è per tutti”. Cercavano di salire sul carretto per sbirciare nei contenitori, ma lui li scacciava. E poi si spostava nell’isolato successivo.

I Kamberi si erano trasferiti a Tirana dal loro villaggio all’inizio degli anni cinquanta: suo padre, Ziqo e un suo fratello maggiore. Una o due generazioni prima, la famiglia vendeva merci in Romania. Durante la prima guerra mondiale il nonno di Ziqo e i suoi fratelli erano stati arrestati come stranieri sospetti e portati a Sebastopoli, in Crimea, dove lavorarono come stivatori. Si dice anche che riuscirono a salire con l’inganno su una nave diretta a Istanbul e rimasero in Turchia fino a poco prima della seconda guerra mondiale, quando tornarono a Gora.

Arrivato a Tirana, in un primo momento Ziqo non lavorò nella pasticceria del padre. Fece il servizio militare nel sud dell’Albania, cosa che diede l’accento tosco al suo albanese, poi svolse qualche saltuario lavoretto nell’edilizia. Ma quando si sposò con una donna del villaggio e l’economia domestica si fece più pressante, entrò nell’azienda di famiglia.

Negli anni sessanta, i Kamberi affittarono un negozio incastonato tra un macellaio e un barbiere e gestirono una piccola gelateria. La moglie e la madre rimasero a casa e, come molte gorane che si univano ai mariti nella gurbet, non impararono la lingua più diffusa, anche se i loro figli crebbero parlando soprattutto albanese.

Quando nel 1967 il governo nazionalizzò le piccole aziende, lui e suo fratello furono impiegati come gelatai in quella statale.

Vendere gelati per strada è un’attività faticosa, ma durante il comunismo non era un brutto lavoro per un migrante che veniva dalle campagne. Si riceveva un piccolo stipendio e un extra per ogni vendita. Un gega astuto poteva guadagnare il doppio o il triplo del suo stipendio mettendo un po’ meno gelato in ogni cono, guadagnando così più soldi di un agente di polizia o di un ingegnere.

Etleva Qinami ricorda che il gega le insegnava nuove parole. Aveva appena dieci anni alla fine degli anni settanta quando, sentendo il suo richiamo, lei si precipitò in strada solo per scoprire che non aveva i cinque lek per il gelato. “Puoi darmi un cono da quattro?”, supplicò. “Ho perso un lek per strada”.

“Sei proprio una furbacchiona, vero?”, aveva risposto il gega. Poi le aveva fatto l’occhiolino e le aveva dato il gelato. A casa, la bambina chiese a suo padre cosa avesse voluto dire il gega chiamandola “asina”.

Il gelataio terminava la giornata nel pomeriggio. A volte regalava un po’ del gelato rimasto o lo mandava ai negozi di dolciumi perché lo riciclassero, se non era andato a male.

Ziqo stava servendo un padre con suo figlio quando, nel giugno 1983, fu investito dalla Fiat polacca. L’ambulanza lo riportò a casa dall’ospedale la sera stessa. Aveva l’addome e le braccia fasciate. La figlia Fatbardha ricordava che gli ci volle un po’ di tempo per raccontare alla famiglia quello che era successo.

Era stato fortunato a cavarsela solo con qualche contusione. Il ragazzo che lo aveva investito aveva preso la Fiat da uno dei ministeri vicino al centro della città dopo essersi vantato con gli amici in un bar perché poteva aprirla con la chiave del lucchetto della bicicletta. Si scoprì che lui, o sua sorella, al liceo erano stati compagni di classe di una delle figlie di Ziqo. A un certo punto il ragazzo andò a trovarlo a casa per scusarsi. Aveva detto di essere ubriaco, di non sapere cosa stesse facendo. Il gega si riprese rapidamente e al processo lo perdonò. Ad agosto, anche se ancora fasciato, era tornato al lavoro.

Francesca Ghermandi

Dei due uomini nella foto su Facebook che hanno dato il via a questa esplorazione, il diabete si è portato via Hoxha nel 1985 e il gega è andato in pensione tre anni dopo, all’età di sessanta anni. La generazione che ha sbattuto il gelataio sull’asfalto ha rovesciato anche il sistema nel 1990 e si è impegnata a cambiare il paese o a lasciarlo del tutto. I figli dei gelatai non erano interessati ai lavori dei padri.

Il conflitto generazionale ha sconvolto anche quelli che hanno tentato di rimanere nell’azienda di famiglia. Prendiamo i Fetishaj, che producevano gelati e torte per la città. Negli anni novanta avevano tentato di avviare un’attività di vendita di caramelle, ma quando Arif Fetishaj aveva visto suo figlio dietro il bancone con una vistosa maglietta attillata e occhiali da sole scuri, si era scoraggiato. “No”, aveva detto, “non puoi vendere dolci conciato così!”.

Il figlio maggiore di Ziqo, Gëzim, meccanico, partì presto per la Grecia. La famiglia rifiutò di raggiungerlo, ma Ziqo chiese una macchina per gelati abbastanza grande da permettergli di vendere coni nel quartiere. “Quella, e tutti i gusti che riesci a trovare”, gli disse.

Ha venduto gelati su un carretto nella scuola vicino a casa sua per sei o sette anni, e si è ritirato per davvero nel 2000, quando le forze lo stavano abbandonando.

Il figlio è tornato in Albania dalla Grecia molto raramente. Anche quello più giovane è partito.

Il nostro gega è morto nel 2007, cinque anni prima che il figlio minore perdesse la vita in un incidente stradale nell’Italia del nord.

Oggi un furgone Mercedes bianco immatricolato nel Regno Unito collega Manchester e alcune città inglesi intermedie come Woolwich, e Londra a Shishtavec. Il furgone porta in Albania prodotti occidentali e nel Regno Unito quelli nostrani. A volte i pacchi di formaggio kashkaval fatto in casa e di salumi che i genitori gorani mandano ai loro figli in Inghilterra, oppure forme di kashkaval e salumi dai supermercati del Regno Unito per i genitori albanesi che non possono permetterseli a casa.

Quando sono passato per la prima volta dalla parte albanese di Gora, più di vent’anni fa, a Shishtavec c’erano solo pochi anziani. Ora molte case sono state ristrutturate e ogni estate gli emigrati tornano a casa con denaro ed energia. Molti arrivano con voli economici, mentre il furgone Mercedes porta i bagagli. Si fermano abbastanza a lungo per la stagione dei matrimoni e delle circoncisioni, e c’è chi arriva sufficientemente presto per essere lì il giorno di san Giorgio, quando comincia il caldo.

La maggior parte dei gorani ora emigra verso ovest. Durante la stagione del ritorno a casa, le auto con targa italiana riempiono i vicoli di Restelica, nel distretto di Prizren. Negli anni ottanta hanno cominciato ad andare a Monteroni d’Arbia, una piccola città vicino a Siena, in Italia. Un altro villaggio, Kruševo, ha stabilito una presenza a Mulhouse, città industriale francese. Anni dopo l’apertura delle frontiere albanesi, gli abitanti di Borje hanno cominciato a puntare gli occhi sulla Germania.

Non vanno lì per vendere halva o ceci tostati. “È un’attività che permette di guadagnarsi da vivere, ma non si fanno molti soldi”, dice Musa Qingji, lo storico non ufficiale della zona.

Ciò che ha plasmato e poi posto fine alla professione dei gega reca l’impronta del novecento. Gli imperi sono crollati, ridisegnando i confini e l’accesso ai mercati. Il comunismo ha spazzato via le aziende a conduzione familiare. Quando poi il comunismo è crollato, l’emigrazione verso i posti di lavoro in occidente è diventata la norma: impieghi nell’edilizia, negli autolavaggi, nella vendita al dettaglio, nelle pulizie domestiche e nella distribuzione di antenne paraboliche, nel commercio all’ingrosso, nella piccola o grande criminalità. Lavori con cui si guadagnava meglio rispetto a vendere l’halva.

Nell’ex Jugoslavia, e perfino in Turchia, esistono ancora alcune pasticcerie gorane, ma il loro numero si sta assottigliando. A Prizren ne sono rimaste solo tre o quattro, e non c’è più il pelivan. La gente ha trovato modi migliori per guadagnarsi da vivere.

Quest’estate ho visitato la casa del nostro gega in quella che trent’anni fa era la periferia sudorientale di Tirana, ma che è stata rapidamente occupata da nuovi condomini residenziali. La porta della casa, cadente e con la vernice scrostata, si apriva su uno stretto corridoio con due stanze sulla sinistra. In quella accanto alla porta c’era un mucchio di mattoni e calcinacci su cui era stata buttata una poltrona.

L’altra stanza, in cui vivono due delle figlie del gega, era a malapena arredata. Alla fine del corridoio c’era uno spazio coperto da una tenda di garza. Lì, negli anni novanta, si produceva il gelato. Un gallo saltava nel cortile. “Ci tiene compagnia”, ha detto Fatbardha, la figlia più giovane, che oggi ha 58 anni.

Seli Fetishaj, figlio di Arif che preparava dolci di pasta sfoglia, e nipote di Ramadan, che produceva gelato nella Tirana comunista, ha trovato impiego nella distribuzione farmaceutica. Nel 2007, insieme al fratello, ha abbattuto la baracca di un piano in cui vivevano per costruire la nuova casa di famiglia di tre piani. L’angolo in cui il padre preparava i dolci non c’è più. I suoi attrezzi e le sue vaschette sono spariti.

“Negli ultimi anni, papà si svegliava al mattino e usciva in cortile”, racconta Seli. “Guardava incredulo l’angolo in cui prima c’era il laboratorio, come sperando che ricomparisse. Restava lì così, come se fosse paralizzato, per ore”.

Qualche anno fa, un uomo alto e anziano di carnagione scura stava vendendo fiori di Istanbul – ricordate? Sono le palline di popcorn caramellate – ai turisti lungo la spiaggia di Durazzo. Gli ha detto che il prezzo per due dozzine era di diecimila vecchi lek, cioè mille lek di oggi, circa dieci euro.

È la classica truffa al turista in Albania. Anche se il governo ha rivalutato il lek decenni fa, oggi è ancora comune dire diecimila lek ma intenderne mille. I turisti non lo sapevano e non conoscevano il tasso di conversione per i loro lek. Così per dieci euro di palline di popcorn ne hanno pagati cento.

Nevruz Mehmeti, insegnante e scrittore di Borje, aveva visto tutto e non aveva potuto fare a meno di esclamare: “Li ha proprio fregati di brutto!”.

Il venditore di fiori di Istanbul aveva alzato la testa. “Da dove vieni?”, aveva chiesto a Nevruz.

“Da Borje”.

“Anch’io!”. Un momento dopo, si resero conto che le loro case nel villaggio erano una accanto all’altra.

“E come ti chiami?”, aveva chiesto Nevruz.

“Jashar!”, aveva risposto. “Vivo a Tirana e ho fatto sempre questo mestiere. Mi conoscono tutti”.

Alcuni turisti si stavano avvicinando a loro. Jashar si era spaventato, pensando che fossero quelli di prima e che volessero indietro i loro soldi.

Prendi le palline di mais, per oggi ho guadagnato abbastanza. Saluta tutti a Borje da parte mia”.

E se n’era andato.

Il nome completo dell’anziano era Jashar Berisha. Negli anni settanta e ottanta aveva lavorato in una pasticceria nell’area industriale a ovest della città e guadagnava qualcosa vendendo halva. Era un donnaiolo e gli piaceva fare fotografie. È morto l’anno scorso. Probabilmente era l’ultimo gega ancora in vita, ma quella parola ormai non la usa più nes­suno. ◆ svb

Altin Raxhimi è un giornalista albanese. Vive a Montréal, in Canada. Questo articolo è uscito su Kosovo 2.0, giornale online indipendente di Pristina, con il titolo Fundi i Gegëve si zanat.

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Questo articolo è uscito sul numero 1510 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati