Di solito in Italia le notizie sono raccontate da giornalisti bianchi. Su ogni mezzo d’informazione: radio, tv, siti internet. Ma è difficile dimostrarlo perché ci sono pochi dati sullo stato della professione. Ed è un problema che non riguarda solo l’Italia. Nel 2022 nel Regno Unito i giornalisti non bianchi erano l’8 per cento. In Canada, tra novembre del 2020 e luglio del 2021, quasi il 75 per cento delle redazioni era composto solo da giornalisti bianchi. Nel 2019 negli Stati Uniti solo il 21,9 per cento dei dipendenti nel settore dell’informazione era non bianco, e il 6,5 per cento nero.

Carenza di dati

La differenza con l’Italia è che negli altri paesi c’è un dibattito sul tema. La scarsa pluralità di voci influenza la linea editoriale. Negli Stati Uniti la questione è affrontata dal 1972, quando nei giornali solo il 4,2 per cento dei dipendenti era nero, percentuale che scendeva all’1,5 per cento tra i giornalisti. Vuol dire che sulla carta stampata la battaglia per i diritti civili fu raccontata sopratutto da giornalisti bianchi.

In Italia si discute poco dell’assenza di diversità nel settore. Inoltre, in mancanza di dati è difficile dimostrare l’assenza di italiani di seconda generazione nelle redazioni. Secondo l’Istituto nazionale di statistica (Istat) nel 2019 gli stranieri residenti in Italia erano l’8,7 per cento della popolazione: poco più di cinque milioni di persone su un totale di sessanta milioni di abitanti.

Questo dipende in parte dalla legge italiana sulla cittadinanza, che si basa sul principio dello ius sanguinis (diritto di sangue) e riconosce più diritti ai nipoti e ai pronipoti di italiani nati e cresciuti all’estero che ai figli degli immigrati nati e cresciuti in Italia. I pochi dati disponibili si devono al lavoro dell’Associazione Carta di Roma, fondata nel 2011 “per dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato dal consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e dalla federazione nazionale della stampa italiana nel giugno del 2008”. In un rapporto del 2020, l’associazione sottolineava che le persone di origine straniera erano intervenute nei programmi d’informazione trasmessi in prima serata solo nell’1 per cento dei casi. Inoltre, il Global media monitoring project (un importante studio internazionale sul genere nei mezzi d’informazione) ha rivelato che nel 2020 il 90 per cento dei notiziari erano stati presentati da uomini.

Anche in Italia l’informazione è monopolizzata da uomini bianchi che raccontano e interpretano il mondo – dal dibattito sui migranti alle leggi sulla cittadinanza – influenzando il dibattito politico e alimentando paure. Come ha sottolineato la giornalista Silvia Godano, sul sito Voci Globali, non è facile stabilire quanti giornalisti italiani di seconda generazione lavorino nel paese: “Quando si parla di diversità nei mezzi d’informazione italiani si parla soprattutto di parità di genere e disabilità. Sia la Rai sia i gruppi editoriali privati sembrano non sapere come valorizzare la diversità, in termini di assunzione, formazione e programmazione”.

“C’è una questione generazionale, ma c’è anche un problema di genere e classe”

Abolire l’ordine dei giornalisti

Di solito i giornalisti italiani di seconda o terza generazione, pur avendo percorsi accademici e lavorativi molto vari, sono invitati a intervenire sui giornali e in tv solo per parlare del loro paese d’origine. Limitando la loro partecipazione a temi come la migrazione, la riforma della cittadinanza o il movimento Black lives matter.

Secondo Oiza Q. Obasuyi, ricercatrice della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, che collabora con vari giornali italiani, “uno dei problemi fondamentali riguarda le redazioni. Non possiamo parlare di diversità e inclusione ignorando il fatto che le redazioni sono ‘bianche’ e che spesso, quando discutiamo temi che riguardano migranti, rifugiati o italiani di origini straniere, queste stesse persone sono escluse dal dibattito e dalla scrittura degli articoli. Quindi se si vogliono cambiare i mezzi d’informazione dobbiamo coinvolgerle almeno sui social network”.

Il problema è che gli ostacoli sono tanti. Uno di questi è il difficile accesso alla professione, che in Italia è gestito dall’ordine dei giornalisti, una sorta di guardiano che tiene fuori molte persone. “Siamo l’unico paese europeo ad avere l’ordine dei giornalisti. Per entrare a farne parte, come professionista o pubblicista, bisogna fare molti sacrifici”, spiega Leila Belhadj Mohamed, giornalista freelance e autrice di podcast. “Per diventare professionista devi completare un percorso di studi che i migranti o i figli dei migranti non si possono permettere a livello economico”. Tra i sacrifici elencati dalla giornalista c’è anche quello di essere pagati dopo mesi e poco. “Spesso abbiamo criticato il fatto che alcuni contesti e comunità sono raccontati con superficialità. Inoltre, tra le difficoltà d’accesso al mondo dell’informazione per chi ha una famiglia con storie di migrazioni c’è anche il classismo”.

“C’è una questione generazionale, perché nelle redazioni non c’è avvicendamento, ma c’è anche un problema di genere e classe. Prima o poi tutto questo porterà all’abolizione dell’ordine dei giornalisti, che ha creato una lobby dell’informazione trasformando il giornalismo in un’occupazione per ricchi. È inaccettabile”, aggiunge Belhadj Mohamed.

La pensa così anche Adil Mauro, giornalista freelance e autore di podcast: “Credo che il problema della diversità nell’informazione italiana sia soprattutto un problema di classe. Parliamo di persone che hanno frequentato le stesse scuole e le stesse università, che si conoscono e che provengono dalla media o alta borghesia. Fare il giornalista è un lusso che pochi possono permettersi. Per le seconde e le terze generazioni questo lusso è ancora più inaccessibile”.

“Il giornalismo ha un ruolo sociale e politico enorme”, prosegue Mauro, “e l’idea che sia aperto a poche persone mi ferisce. Chi ha un punto di vista non bianco non trova spazio ed è raccontato in modo sbagliato da chi non sa e non s’informa”.

Un numero crescente di voci non bianche sta cercando di avere spazi sui mezzi d’informazione o di crearne di nuovi. L’ultima di queste nuove voci è Dotz, una testata indipendente fondata dalla giornalista Sara Lemlem, che ha conosciuto parte dei suoi colleghi durante la campagna #CambieRai, in cui si accusava la tv pubblica di consentire l’uso di termini razzisti nei suoi programmi. “La parola negro era stata usata in diretta tv e l’azienda non si era nemmeno scusata. Un fatto che ha provocato un’indignazione che non avevo mai visto in Italia”, racconta Lemlem. L’idea di Dotz è nata sulla scia di quella campagna. Oggi Lemlem sottolinea che la redazione può concentrarsi interamente sul lavoro giornalistico grazie al finanziamento della European cultural foundation. “Siamo donne che non possono permettersi di lavorare senza essere pagate, quindi questo sostegno è fondamentale”, spiega Lemlem.

“Penso a progetti editoriali come Dotz, Colory (altre testate da citare sono Griot Mag, Afroitalian Souls, e We Africans United), fondati da persone provenienti da contesti diversi e nati per offrire un’informazione aderente alla realtà italiana, che nonostante quello che affermano le testate tradizionali non è tutta bianca”, spiega Obasuyi. “I ragazzi italiani hanno esperienze diverse e non si sentono rappresentati dai mezzi d’informazione tradizionali. Se vogliamo modificare le cose, bisogna valorizzare le iniziative editoriali di chi è sistematicamente escluso dai dibattiti che lo riguardano”.

Ci sono molte storie promettenti di cambiamento nei mezzi d’informazione, ma non hanno ancora un impatto significativo.“Dobbiamo fare di più per incoraggiare e sostenere le comunità che si avvicinano al giornalismo. Bisogna promuovere le alternative, favorire l’accesso anche ai non laureati e spingere i datori di lavoro ad attingere a questo serbatoio di talenti”, ha affermato Joanne Butcher, che nel Regno Unito dirige il consiglio nazionale per la formazione dei giornalisti. L’ha fatto in occasione della pubblicazione, nel 2021, del rapporto Diversity in journalism (Diversità nel giornalismo): “I tirocini, i corsi di base e le iniziative come il progetto community news stanno diventando sempre più importanti”. Comunità, classe, genere, età: la battaglia delle voci non bianche all’interno dell’informazione in Italia è assolutamente intersezionale. Di sicuro oggi esiste una strada per creare nuovi spazi e affermare prospettive diverse, e sono in molti a seguirla. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati