Il porto di Anversa, in Belgio, è uno dei più grandi al mondo. Un tempo le navi approdavano alle banchine del centro storico, le Scheldekaaien, ma ora la città se n’è sbarazzata. Chi non ci lavora non ci ha perso nulla.

Oggi gli abitanti di Anversa entrano in contatto con il porto marittimo solo per caso. Per esempio salendo sulla terrazza del Museum aan de Stroom. Guardando verso nord si ha un’idea della dimensione del porto. Secondo i dati dell’autorità portuale, nel 2019, l’anno prima della pandemia di covid-19, qui sono arrivate 238 milioni di tonnellate di merci, a bordo di 14.391 navi, un dato sorprendente. Questo significa che circa una su sei delle novantamila navi cargo che girano il mondo è passata da Anversa.

“Guardati intorno. Il novanta per cento di quello che vedi è stato trasportato su delle navi”, hanno sottolineato diverse persone intervistate per questo articolo. Si tratta di un’ovvietà messa in discussione solo in casi straordinari. Come quando, in piena pandemia, la nave container Ever Given ha bloccato il canale di Suez e all’improvviso nessuno sapeva più quando sarebbe arrivato il pacco tanto atteso dalla Cina. Oppure il 21 aprile 2023, quando ad Anversa è arrivata la Msc Tessa, un mastodonte lungo quasi quattrocento metri, la nave più grande che sia mai entrata nel porto. I giornali locali e nazionali non hanno parlato d’altro.

Eppure, proprio come nel caso della Ever Given, nessun giornale ha detto una parola a proposito del suo equipaggio. Come se fossero navi fantasma che navigano da un porto fantasma all’altro.

Sia nel caso della Msc Tessa sia in quello della Ever Given, l’equipaggio entra comodamente in un autobus di linea: è composto da appena venticinque persone. Chi vuole sapere qualcosa di come vivono si scontra subito con un muro. Da che parte bisogna cominciare? Proprio come Anversa si è sbarazzata del suo vecchio porto, per le vie della città i marinai sono praticamente assenti.

Controlli di routine

Andare da soli a curiosare al porto è impossibile, tenendo conto di tutte le misure di sicurezza. E se si inviano email alle varie compagnie di navigazione, chiedendo di poter dare un’occhiata a bordo, non si ottiene nulla.

Non c’è niente da fare: chi vuole avere informazioni sulla vita dei marinai deve trovare un altro modo. Il mio biglietto d’ingresso per accedere agli equipaggi e al loro mondo è Marc Van Noten. Quest’uomo fa parte di una vera dinastia portuale. Fin da adolescente ha cominciato a lavorare al porto, come suo padre e suo nonno, e non se n’è mai andato. È un sindacalista e parla con passione della solidarietà tra i lavoratori di tutto il mondo.

Da qualche anno Van Noten è ispettore alla International transport workers’ federation (Itf), un’organizzazione che riunisce 677 sindacati di centocinquanta paesi. Il suo compito è controllare le condizioni di lavoro e sicurezza sulle navi che fanno scalo al porto. “Spesso i marinai ci contattano per un problema mentre sono in mare. Può trattarsi di questioni legate alla sicurezza, al cibo di bordo, agli stipendi non pagati, e così via”, racconta Van Noten nella sede del Sindacato dei trasporti belga (Btb) in Paardenmarkt, ad Anversa. “Quelle richieste hanno la precedenza, naturalmente”.

Oggi, in mancanza di chiamate d’emergenza, sono in programma dei controlli di routine. Van Noten mi propone di accompagnarlo nel suo giro di ispezione, aggirando i canali di comunicazione ufficiali delle compagnie di navigazione (è il motivo per cui ho usato degli pseudonimi per i marinai intervistati e non sono state scattate fotografie).

Una volta superato il ponte Londenbrug, ci troviamo nel territorio di Van Noten. Ci muoviamo svelti nell’immensa zona portuale di Anversa. Qui si produce, si trasporta e si lavora a ritmo serrato. Arriviamo al molo 363, superiamo la carcassa di un elicottero e scendiamo dall’auto. Davanti a noi si staglia una cattedrale d’acciaio: la Sti Lobelia, un gigante del mare di circa duecento metri.

La cabina di una vecchia nave portacontainer. Anversa, 30 marzo 2023 (Arne Gillis)

Si comincia subito male: la scala che dovrebbe permetterci di salire a bordo non arriva fino a terra, gli ultimi due o tre metri sono costituiti da una serie di pioli improvvisati. La situazione lascia Van Noten sbalordito. “Pericolosissimo!”, è il suo verdetto. Non ha dubbi: chi cade tra la nave e il molo è spacciato.

Ed ecco i marinai. Vediamo affacciarsi dalla nave delle teste e dei walkie-talkie e poi improvvisamente qualcuno di loro compare al nostro fianco. Due occhi spuntano da una giacca a vento arancione tirata su fino al mento e un caschetto dello stesso colore. L’equipaggio ci assicura che il problema della scala sarà risolto al più presto. Sa che ci sono guai in vista: se Van Noten telefona all’ente competente, il Port state control, la nave sarà sicuramente messa sotto sequestro, proprio come la petroliera algerina ferma qui accanto.

Proseguiamo fino alla nave successiva. La scala della Garnet Eternity arriva fino a terra e noi, con le gambe che ci tremano, raggiungiamo il ponte. L’equipaggio ci mostra le cabine, la cambusa in cui un cuoco si sta dando da fare con un paio di polli e la sala macchine. La sensazione di claustrofobia nel ventre d’acciaio dell’imbarcazione se ne va solo quando raggiungiamo il ponte, dove ci accoglie il capitano. All’improvviso dominiamo il porto dall’alto.

La nave è arrivata da Danzica, in Polonia, e sta facendo sosta ad Anversa prima di proseguire il viaggio verso il porto messicano di Veracruz, carica d’acciaio e malto. È una struttura pulita e nuova, consegnata nel 2020. Non ci sono molti problemi a bordo. Van Noten segna solo qualche osservazione su una palestra poco attrezzata e sulle bombole d’ossigeno sistemate male in infermeria. Inoltre, nel 2023 i salari non sono stati adeguati al tasso d’inflazione: l’equipaggio è ancora pagato in base alle tariffe del 2022. Questo è pane per i denti di un esperto ispettore dell’Itf. Poco dopo arriva un messaggio su WhatsApp con la correzione dell’armatore.

Sulla terza nave la situazione è più problematica. La Project A è stata costruita nel 1997 e naviga sulla rotta Iran-Anversa, trasportando strutture in acciaio. Da novembre l’imbarcazione è sotto sequestro, e il motivo è evidente: è una bagnarola arrugginita. Negli ultimi mesi sono migliorate diverse cose, racconta Van Noten, ma c’è ancora molto da fare.

L’equipaggio si sta impegnando per fare in modo che la nave superi l’ispezione. Ci mostrano le cabine: sono tuguri di quattro metri quadrati, asfissianti e impregnati di fumo. “A misura di cinese”, scherza uno controvoglia.

Non c’è tempo di chiacchierare sulle condizioni di lavoro. Van Noten è qui per raggiungere un accordo che dovrebbe migliorare le condizioni di vita e di lavoro dell’equipaggio egiziano.

Il fondo del barile

Non sono solo le navi mercantili a girare il mondo, ma anche tutta la burocrazia che c’è dietro. La Garnet Eternity batte bandiera delle Isole Marshall, un piccolo stato nell’oceano Pacifico. La proprietà è registrata a Singapore e l’assicurazione è stata stipulata a Hong Kong, mentre i contratti di lavoro dell’equipaggio filippino sono appena stati rinnovati a El Salvador.

Anche la Project A navigava con la bandiera di uno stato insulare dei Caraibi, le Barbados. Ricevere la comunicazione che non poteva più partire per motivi di sicurezza è stato un colpo duro. Le navi sotto sequestro, infatti, rappresentano un danno alla reputazione.

Le Barbados hanno subito ritirato la nazionalità concessa alla nave. La Project A ha dovuto cercare in tutta fretta un nuovo paese disposto a concedergliela. Ha trovato il Togo, in Africa occidentale.

Tutta questa globalizzazione fa girare la testa. Chi è responsabile se qualcosa va storto in mare? Quale legislazione si applica all’equipaggio? Inoltre, entrambe le navi non hanno nulla a che fare né con le Isole Marshall né con il Togo. Perché, allora, è così facile per loro registrarsi lì?

Lo è grazie al sistema delle cosiddette flags of convenience (Foc), le bandiere di comodo o di convenienza. Per sfuggire alla sempre più severa legislazione dei paesi occidentali, gli armatori registrano le loro navi con le bandiere di altri stati, le bandiere di comodo. La nave deve rispettare le leggi del paese in cui è registrata. Lo stato di bandiera è responsabile di controllare le convenzioni e le norme internazionali.

Nella pratica, ovviamente, gli armatori registrano le loro navi nei paesi che non prendono troppo sul serio i diritti dei lavoratori.

Fin da quando esistono navi che vanno per mare, ci sono paesi disposti a registrarle. Oggi gran parte delle imbarcazioni di tutto il mondo batte bandiera panamense. Ma anche Liberia, Antigua e Barbuda, e perfino la Bolivia, che non ha neanche uno sbocco sul mare, sono paesi che mettono a disposizione bandiere di comodo.

Questo sistema è una spina nel fianco per l’Itf, proprio perché è usato per raschiare il fondo del barile.

L’Itf nacque nel 1898 grazie alla solidarietà tra i lavoratori portuali e i marinai. “Dal 1948 lotta contro il sistema delle Foc”, afferma Jacques Kerkhof, segretario della marina mercantile della Btb, una delle associazioni fondatrici dell’Itf. “Lo scopo è fare in modo che le navi battano bandiera del paese degli armatori, e che le condizioni lavorative e i salari siano dignitosi, basandosi su un contratto standard redatto dall’Itf”. L’obiettivo è paragonabile a un contratto di lavoro collettivo: l’armatore s’impegna ad attenersi a una retribuzione e a condizioni lavorative precise.

Ma perché un armatore dovrebbe vincolarsi a un simile accordo? Lo spiega Van Noten: “Se continuano a opporsi, i marinai potrebbero smettere di lavorare e i portuali potrebbero rifiutarsi di scaricare le merci. È una questione di solidarietà”.

In settantacinque anni di lotte sociali sono successe molte cose. L’Itf è diventata nota per la tutela dei diritti dei marinai. Van Noten assicura che ogni lavoratore marittimo ha il numero della federazione salvato sul telefono. L’Itf non è l’unica realtà a offrire protezione internazionale in questo settore incredibilmente globalizzato. Nel 2006 grazie all’Organizzazione internazionale del lavoro è nata la convenzione sul lavoro marittimo. Il documento stabilisce le condizioni minime per il lavoro dei marinai, dagli orari di attività e di riposo ai salari, fino alle condizioni per il rimpatrio e alla sicurezza. Gli stati che forniscono il maggior numero di bandiere di comodo come Panama, la Liberia e le Isole Marshall hanno ratificato la convenzione.

Il luogo perfetto per conversare più comodamente con i marinai è l’albergo Antwerp harbour, che si trova sulla Noorderlaan. Lloyd, Noylan, Roberto e Jobito sono appena arrivati dalle Filippine. Domani spariranno per nove mesi a bordo della nave di un armatore norvegese. È una vita dura, affermano tutti senza mezzi termini. “Devi affrontare mari in tempesta, a bordo non hai quasi mai un attimo di pace, è un lavoro molto solitario”, dicono, trasmettendo in modo diverso lo stesso messaggio. Il meccanico Roberto, che si occupa della manutenzione del motore, durante i mesi di navigazione non vede praticamente mai la luce del sole.

“Tutti i giorni è lunedì”, afferma Lloyd. Lui e i suoi colleghi rispondono all’unisono quando gli chiediamo perché lo fanno: “Per i soldi. Qualsiasi altro lavoro nelle Filippine è pagato minimo tre volte meno”. Nel suo ruolo di quarto ingegnere, Lloyd è pagato 3.500 dollari (3.200 euro) al mese, un salario da sogno per gli standard filippini. Anche a Roberto non va male come meccanico: 1.300 dollari (quasi 1.200 euro) al mese. In un’altra vita sarebbero poliziotti, saldatori o insegnanti, dicono, guadagnando molto di meno. Tutti e quattro hanno una famiglia nelle Filippine. Tra nove mesi torneranno a casa per una vacanza. Non retribuita. Eppure, sanno già come si sentiranno: “Vittoriosi”.

Nello stesso edificio c’è l’ufficio di Jacques D’Havé, il presidente della sezione di Anversa della Stella Maris, un’organizzazione con sedi in tutto il mondo, che sostiene e aiuta i marinai. D’Havé ammette che sulle navi ci sono delle irregolarità ma sostiene che, tutto sommato, sono piuttosto contenute. “Le anomalie si verificano sul 2 per cento delle navi, più o meno”, calcola. “E quel 2 per cento non naviga in acque europee, altrimenti sarebbe subito messo sotto sequestro”.

D’Havé sottolinea anche il fatto che i marinai impiegati nel restante 98 per cento delle navi non sono dei poveracci. “È un lavoro duro, ma sia chiaro: queste persone possono scegliere. Non sono pagate male per quello che fanno. Inoltre, l’Itf, la Stella Maris e le convenzioni marittime internazionali offrono una rete di protezione contro le irregolarità”.

È difficile considerare Lloyd, Roberto, Noylan e Jobito vittime della globalizzazione, eppure non si possono neanche definire dei vincenti. Il primo premio va agli armatori: nel 2022 la Msc è diventata il più grande armatore del mondo, una posizione che era stata occupata per decenni dalla Maersk. Secondo Business Insider, nel 2022 la Maersk ha registrato un profitto vertiginoso, pari a 30,9 miliardi di dollari (28 miliardi di euro). ◆ oa

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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati