Negli ultimi due anni il fenomeno delle democrazie che si trasformano in qualcosa di irriconoscibile, ma con echi spaventosamente familiari, è stato aggravato dalla pandemia di covid-19 e dall’invasione russa dell’Ucraina. E si è fatta più severa anche la sorveglianza sulla parola in modi allo stesso tempo vecchi e molto nuovi, al punto che l’aria stessa si è trasformata in una sorta di macchina punitiva per dare la caccia all’eresia. Sembra che ci stiamo avvicinando rapidamente a uno stallo intellettuale.

Parlando del fallimento della democrazia parlerò soprattutto dell’India, non perché sia considerata la più grande democrazia del mondo, ma perché è il luogo che amo, il luogo che conosco e in cui vivo, il luogo che mi spezza il cuore ogni giorno. E lo guarisce, anche. Le mie parole non sono un’invocazione di aiuto, perché in India sappiamo benissimo che non arriverà nessun aiuto. Non può arrivare. Parlo per raccontarvi di un paese che, per quanto malato, un tempo era pieno di straordinarie possibilità, un paese che offriva una comprensione radicalmente diversa del significato di felicità, realizzazione, tolleranza, diversità e sostenibilità rispetto a quella del mondo occidentale. E tutto questo oggi viene soffocato, spiritualmente spento.

La democrazia indiana è sistematicamente smantellata. Restano solo i rituali. L’anno prossimo sentirete sicuramente parlare molto delle nostre elezioni, chiassose e colorate. Quello che non sarà visibile è che il gioco alla pari – essenziale per elezioni eque – in realtà è una ripida parete rocciosa dove praticamente tutti i soldi, i dati, i mezzi d’informazione, la gestione del voto e l’apparato di sicurezza sono nelle mani del partito al governo. L’istituto svedese V-dem, che misura lo stato di salute delle democrazie, ha classificato l’India tra le “autocrazie elettorale” insieme a El Salvador, Turchia e Ungheria, e prevede che le cose possano peggiorare. Stiamo parlando di 1,4 miliardi di persone che si allontaneranno dalla democrazia per cadere in un regime autoritario. O peggio.

Il processo di smantellamento della democrazia è cominciato molto prima che Narendra Modi e l’Rss (un’organizzazione suprematista indù di estrema destra fondata nel 1925 e creata a immagine delle camicie nere, l’ala paramilitare “di soli volontari” del Partito nazionale fascista di Mussolini) arrivassero al governo. Quattordici anni fa scrissi un saggio che s’intitolava “La luce della democrazia sta svanendo”. All’epoca era al potere il partito del Congress, una forza politica formata da vecchie élite feudali e tecnocrati che aveva sposato con entusiasmo il libero mercato.

Eravamo nel 2009. Cinque anni dopo, nel 2014, Modi fu eletto primo ministro. Nei nove anni successivi, l’India è diventata irriconoscibile. La “repubblica laica e socialista” voluta dalla costituzione quasi non esiste più. Le grandi lotte per la giustizia sociale e i movimenti ambientalisti, caparbi e lungimiranti, sono stati soffocati. Ora parliamo raramente di fiumi che muoiono, falde acquifere che si prosciugano, foreste che scompaiono o ghiacciai che si sciolgono. Perché a questi timori è subentrata una paura più immediata. O un’euforia, dipende da che lato della barricata ideologica vi trovate.

L’India è diventata a tutti gli effetti uno stato indù teocratico, aziendale, altamente sorvegliato, uno stato che fa paura. Le istituzioni svuotate dal regime precedente, in particolare i principali mezzi d’informazione, ora ribollono di fervore suprematista indù. Contemporaneamente, il libero mercato ha fatto quello che fa il libero mercato. In breve, secondo il rapporto Oxfam del 2023, l’1 per cento più ricco della popolazione indiana possiede più del 40 per cento della ricchezza totale del paese, mentre il 50 per cento più povero (700 milioni di persone) ha circa il 3 per cento della ricchezza totale. Siamo un paese ricchissimo di persone poverissime.

Ma la rabbia e il risentimento generati da questa disuguaglianza, invece di essere rivolti contro i possibili responsabili, sono stati indirizzati contro le minoranze. In prima linea quella dei musulmani, 170 milioni di persone che rappresentano il 14 per cento della popolazione. Il pensiero della maggioranza attraversa le barriere di classe e di casta e ha una base enorme anche nella diaspora.

Nel gennaio di quest’anno, la Bbc ha trasmesso un documentario in due parti intitolato India: the Modi question (India: la questione Modi). Ricostruiva il percorso politico di Modi dal suo debutto nel 2001 come governatore dello stato del Gujarat fino ai suoi anni come primo ministro dell’India. Il documentario ha reso pubblico per la prima volta un rapporto interno commissionato dal Foreign office britannico nell’aprile di quell’anno sul pogrom contro i musulmani avvenuto nel Gujarat sotto gli occhi di Modi nel febbraio e marzo 2002. Quel rapporto, tenuto nascosto per tutto questo tempo, non fa che confermare quanto dicono da anni attivisti, giornalisti, avvocati, due alti funzionari di polizia e testimoni oculari degli stupri di massa e dei massacri. Stima che “almeno duemila” persone siano state uccise. Definisce quella violenza un pogrom pianificato, cha aveva “tutte le caratteristiche della pulizia etnica”. Dice che, secondo fonti affidabili, quando cominciò la strage fu ordinato ai poliziotti di farsi da parte. Il rapporto attribuisce apertamente la responsabilità del pogrom a Modi.

In India il film è stato vietato. Twitter e YouTube hanno ricevuto l’ordine di rimuovere tutti i link che rimandavano a quel lavoro e hanno ubbidito immediatamente. Il 21 febbraio gli uffici della Bbc a New Delhi e Mumbai sono stati circondati dalla polizia e messi a soqquadro da funzionari della finanza. Lo stesso è successo agli uffici di Oxfam. E a quelli di Amnesty international. E a molte case e a uffici dei principali politici dell’opposizione. E così quasi tutte le ong che non sono completamente allineate con il governo. Mentre Modi è stato assolto dalla corte suprema per il pogrom del 2002, gli attivisti e i funzionari di polizia che hanno osato accusarlo di complicità basandosi su montagne di prove e testimonianze oculari sono in carcere o devono affrontare processi penali.

Nel frattempo molti degli assassini giudicati colpevoli sono liberi su cauzione o in libertà vigilata. Nell’agosto 2022, per il 75° anniversario dell’indipendenza indiana, undici condannati sono usciti di prigione. Stavano scontando l’ergastolo per aver violentato in gruppo una ragazza musulmana di 19 anni, Bilkis Bano, durante il pogrom del 2002, e aver ucciso 14 persone della sua famiglia, compresa la nipote di appena un giorno e la figlia di tre anni, Saleha, a cui spaccarono la testa con una pietra. Hanno ricevuto un’amnistia speciale. Fuori dalle mura del carcere, gli assassini-stupratori sono stati accolti come eroi, inghirlandati di fiori. Ancora una volta, dietro l’angolo c’era l’elezione per il parlamento dello stato. L’amnistia speciale rientrava nel nostro processo democratico.

Niente di ciò che ho appena scritto deve farvi concludere che in India non ci sia libertà di espressione. C’è libertà di espressione e di azione. Tanta. I conduttori dei principali canali tv possono liberamente mentire, demonizzare e disumanizzare le minoranze in modi che conducono a veri e propri danni fisici o all’incarcerazione. I santoni indù e le folle armate di spada possono invocare il genocidio e lo stupro di massa dei musulmani. Dalit e musulmani possono essere pubblicamente frustati e linciati in pieno giorno e i video possono essere caricati su YouTube. Le chiese possono essere liberamente attaccate, sacerdoti e suore picchiati e umiliati.

Nel Kashmir, l’unica regione indiana a maggioranza musulmana, dove la gente combatte per l’autodeterminazione da quasi trent’anni, dove New Dehli gestisce l’amministrazione militare più ottusa del mondo e dove nessun giornalista straniero è autorizzato ad andare, il governo si è permesso d’impedire, di fatto, la libertà d’espressionee di imprigionare i giornalisti locali. In quella splendida valle coperta di cimiteri, la valle da cui non arrivano notizie, la gente dice: “In Kashmir i morti sono vivi, e i vivi sono solo morti che fingono”. Spesso dicono che in India la democrazia (democracy) è demon-crazy, indemoniata.

L’1 per cento più ricco della popolazione indiana possiede più del 40 per cento della ricchezza totale. Siamo un paese ricchissimo di persone poverissime

Nel 2019, qualche settimana dopo che Modi e il suo partito avevano ottenuto un secondo mandato, lo stato del Jammu e Kashmir è stato unilateralmente abolito e privato della parziale autonomia che gli era riconosciuta dalla costituzione. Subito dopo, il parlamento ha approvato il Citizenship amendment act (Caa), l’emendamento della legge sulla cittadinanza che discrimina apertamente i musulmani, tanto che ora molti temono di perdere la cittadinanza. Il Caa integrerà la creazione di un Registro nazionale dei cittadini (Nrc). Per essere inserite in questo registro, le persone dovranno produrre una serie di documenti approvati dallo stato, un procedimento non diverso da quello che le leggi di Norimberga della Germania nazista imponevano ai tedeschi. Nello stato dell’Assam due milioni di persone sono già state cancellate dall’Nrc e stanno per perdere tutti i loro diritti. Si stanno costruendo enormi centri di detenzione dove i lavori più duri sono fatti dai futuri detenuti, cioè da chi è stato classificato come “straniero dichiarato” o “elettore da verificare”.

La nostra nuova India è un’India di costume e spettacolo. Immaginate uno stadio di cricket ad Ahmedabad, nel Gujarat. Si chiama stadio Narendra Modi e ha 132mila posti. Nel gennaio 2020 era pieno zeppo per l’evento del Namaste Trump, in cui Modi si è congratulato con il presidente statunitense Donald Trump. Salutando la folla, nella città in cui nel 2002 i musulmani furono massacrati in pieno giorno e cacciati di casa a decine di migliaia, e oggi vivono ancora nei ghetti, Trump ha elogiato l’India definendola tollerante e aperta alle differenze. Modi ha chiamato un applauso.

Il giorno dopo Trump è arrivato a New Delhi. Il suo arrivo nella capitale ha coinciso con l’ennesimo massacro. Uno minuscolo, questa volta, un minimassacro rispetto agli standard del Gujarat, in un quartiere operaio a pochi chilometri di distanza dal bell’albergo di Trump e non lontano da dove abito io. Dei vigilanti indù ancora una volta hanno attaccato dei musulmani. Ancora una volta la polizia è rimasta a guardare. La zona era stata teatro di proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza. Sono state uccise 53 persone, per lo più musulmane. Centinaia di negozi, case e moschee sono stati incendiati. Trump non ha detto niente.

Di quei giorni terribili è rimasto impresso nelle menti di alcuni di noi un diverso genere di spettacolo: un giovane musulmano a terra gravemente ferito, su una strada della capitale. I poliziotti lo spingevano, lo picchiavano e lo costringevano a cantare l’inno nazionale indiano. È morto qualche giorno dopo. Si chiamava Faizan. Aveva 23 anni. Nessun provvedimento è stato adottato contro quegli agenti.

Niente di tutto questo deve avere molta importanza per i leader del mondo democratico. Di fatto non ne ha. Perché dopotutto ci sono gli affari a cui pensare. Perché l’India attualmente è il bastione dell’occidente contro una Cina in ascesa (o così si spera). E perché nel libero mercato si può scambiare qualche stupro di massa e qualche linciaggio o un po’ di pulizia etnica o della seria corruzione finanziaria con un generoso ordine di acquisto di aerei da caccia o commerciali. Oppure petrolio comprato dalla Russia, raffinato, privato dello stigma delle sanzioni statunitensi e venduto all’Europa e, così almeno riferiscono i nostri giornali, anche agli Stati Uniti. Sono tutti contenti. E perché no?

Per gli ucraini l’Ucraina è un paese. Per la Russia è una colonia, e per l’Europa occidentale e gli Stati Uniti è una frontiera (come lo erano il Vietnam e l’Afghanistan). Ma per Modi è solo un altro palcoscenico su cui esibirsi. Questa volta per interpretare il ruolo di statista-costruttore di pace e offrire omelie del tipo “questo non è il tempo della guerra”. All’interno di quello che appare un culto, c’è una giurisdizione sofisticata. Ma non c’è uguaglianza davanti alla legge. Le leggi sono applicate selettivamente a seconda della casta, della religione, del genere e della classe. Per esempio, un musulmano non può dire quello che possono dire gli indù, un kashmiro non può dire quello che possono dire tutti gli altri. Ciò rende la solidarietà – prendere le difese l’uno dell’altro – più importante che mai. Ma anche la solidarietà è diventata un’attività pericolosa, ed è questo che intendo quando scrivo che ci stiamo avvicinando a uno stallo. Purtroppo, l’elenco di cose che non si possono dire e di parole che non si devono pronunciare si allunga ogni minuto. C’era un tempo in cui i governi e i grandi mezzi d’informazione tradizionali controllavano le piattaforme che controllavano la narrazione. In occidente lo facevano per lo più i bianchi. In India, i bramini. E poi, naturalmente, ci sono quelli che lanciano le fatwa, per cui censura e omicidio significano la stessa cosa.

Ma oggi la censura si è trasformata in una battaglia di tutti contro tutti. La nobile arte di offendersi è diventata un’industria globale. Il punto è: come si negozia con questa macchina da caccia all’eresia dalla testa d’Idra, molteplici gambe e braccia, gli occhi di falco, sempre sveglia ed eternamente vigile? È davvero possibile farlo o è una marea che deve rifluire prima di poterne anche solo discutere?

In India, come in altri paesi, la trasformazione dell’identità in un’arma come forma di resistenza è diventata la risposta principale alla trasformazione dell’identità in un’arma come forma di oppressione. Noi che storicamente siamo stati oppressi, ridotti in schiavitù, colonizzati, stereotipati, cancellati, inascoltati e invisibili proprio a causa delle nostre identità – di casta, etnia, genere o preferenza sessuale – oggi enfatizziamo provocatoriamente queste identità per affrontare l’oppressione.

È un momento potente, esplosivo della storia, in cui, attivata dai social network, una rabbia selvaggia, incandescente sta demolendo le vecchie idee, i vecchi modelli di comportamento, le convinzioni accreditate che non sono mai state messe in discussione, le parole cariche di implicazioni emotive e una lingua scritta con il pregiudizio e il fanatismo. La sua intensità e repentinità ha sconvolto un mondo autocompiaciuto inducendolo a ripensare, reimmaginare e cercare di trovare un modo migliore di fare e dire le cose. Paradossalmente, quasi misteriosamente, questo fenomeno, questa messa a punto sembra muoversi al passo con il nostro sbandamento nel fascismo.

È un’esplosione che ha aspetti profondi, rivoluzionari, ma anche assurdi e distruttivi. È facile attaccarne gli elementi più estremi e usarli per infangare e rifiutare il dibattito. Per esempio, le donne ora dovrebbero essere chiamate ‘persone con le mestruazioni’? Un’insegnante di arte che negli Stati Uniti parla della ricca varietà dell’islam dovrebbe essere licenziata in tronco perché ha mostrato ai suoi studenti un dipinto del trecento del profeta Maometto, dopo aver detto cosa stava per fare e aver esonerato dalla lezione tutti gli studenti che potevano sentirsi offesi o turbati? Dovrebbe esserci una gerarchia costituita, immutabile della sofferenza storica che tutti devono accettare?

Questo è il combustibile che l’estrema destra usa per consolidarsi. Ma piegarsi, con timore e senza riserve, come fanno molti che si considerano progressisti e di sinistra, significa anche mancare di rispetto a questa trasformazione. Perché nella politica dell’identità troppo spesso c’è un perno importante, un cardine, che quando gira su se stesso comincia a rafforzare, oltre che riprodurre, proprio la cosa a cui vuole resistere. Succede quando l’identità è disaggregata e atomizzata in microcategorie.

Davide Bonazzi

Perfino queste microidentità allora sviluppano una gerarchia di potere e una microélite, di solito localizzata nelle grandi città, nelle grandi università, con un capitale di social network che inevitabilmente mima lo stesso genere di esclusione, cancellazione e gerarchia contestato all’inizio. Se ci rinchiudiamo nelle celle delle etichette e delle identità che ci sono state date da chi ha sempre avuto potere su di noi, possiamo al massimo inscenare una rivolta carceraria. Non una rivoluzione. E subito arriveranno i secondini a restaurare l’ordine. Di fatto, stanno già arrivando. Quando accettiamo una cultura di proscrizione e censura, alla fine è sempre la destra, e di solito lo status quo, a beneficiarne di più. Sigillarsi in comunità, gruppi religiosi e di casta, etnia e genere, ridurre e appiattire le nostre identità e spingerle in dei silos impedisce la solidarietà. Paradossalmente, questo in India era ed è l’obiettivo ultimo del sistema induista delle caste. Dividete un popolo in compartimenti indistruttibili e non una sola comunità riuscirà a sentire il dolore di un’altra, perché sono costantemente in conflitto.

Funziona come una complessa macchina di amministrazione/sorveglianza in cui la società amministra/sorveglia se stessa e nel farlo assicura che le principali strutture di oppressione restino in piedi. Tutti, tranne chi è al vertice e in fondo – e anche queste categorie sono minuziosamente graduate – sono oppressi da qualcuno e hanno qualcuno da opprimere.

Una volta teso questo labirinto di trappole, quasi nessuno supera il test della purezza e della correttezza. Sicuramente, quasi niente di quella che una volta era considerata buona o grande letteratura. Sicuramente non Shakespeare. Non Tolstoj. Lasciate da parte il suo imperialismo russo, immaginate che potesse capire la mente di una donna di nome Anna Karenina. Non Dostoevskij, che parla delle donne più anziane solo come “megere”. In base ai suoi criteri, sicuramente rientrerei nella qualifica di “megera”. Eppure, mi piacerebbe che la gente lo leggesse. O, se preferite, provate a leggere le Opere scelte del mahatma Gandhi. Posso garantirvi che rimarreste inorriditi sotto ogni punto di vista: razza, sesso, casta, classe. Significa che dovrebbe essere vietato? O riscritto? Nemmeno Jane Austen ce la farebbe. Inutile dire che in base a questi parametri nessun libro sacro di nessuna religione risulterebbe accettabile.

Tra il chiasso evidente del discorso pubblico, ci stiamo rapidamente avvicinando a una sorta di stallo intellettuale. La solidarietà non può mai essere immacolata. Dovrebbe essere messa alla prova, analizzata, discussa, calibrata. Impedendola, rafforziamo proprio quello che sosteniamo di voler combattere.

Cosa fa tutto questo alla letteratura? Come autrice di narrativa, poche cose mi allarmano più della parola “appropriazione”, che è uno dei gridi di battaglia della nuova censura. In questo contesto, appropriazione – per dirla in modo grossolano – significa che dei predatori, perfino predatori contriti, cercano di scrivere, rappresentare o di fatto raccontare le storie delle prede a loro nome. È piuttosto squallido, e un principio utile da tenere a mente quando si critica qualcosa. Ma non è una buona ragione per vietare o censurare le cose. Sì, il microfono è stato monopolizzato. Sì, abbiamo sentito troppo da un genere di persone e troppo poco da altri. Ma la rete della vita è fitta e intricata, le sue creature e le loro azioni non possono essere ridotte in termini essenziali e catalogate in modo così semplice e poco intelligente.

In particolare non può esserci narrativa senza appropriazione. Perché anche noi scrittori di narrativa siamo predatori. Se i serial killer sono spietati sociopatici, i romanzieri sono spietati appropriatori. Per costruire i nostri mondi immaginari, ci appropriamo di qualunque cosa attraversi il nostro cammino e mettiamo tutto in gioco. È questo che rende i grandi romanzi pericolosi e rivelatori.

Parlando di me, ho cercato d’imparare il mestiere non solo da scrittori politicamente irreprensibili come Toni Morrison e James Baldwin, ma anche da imperialisti come Kipling, e da fanatici, razzisti, farabutti e mascalzoni che scrivono magnificamente. Dovrebbero essere riscritti per marciare al ritmo di qualche limitato manifesto?

La recente decisione di rivedere le opere di Roald Dahl… Dio mio, chi sarà il prossimo? Nabokov? Lolita scomparirà dagli scaffali? Oppure si trasformerà in un’attivista preadolescente sotto copertura? Gli antichi capolavori saranno ridipinti? Spogliati dello sguardo maschile? È triste già solo doverlo dire. Dove ci porterà? Su una spiaggia senza impronte? In un mondo senza storia?

Se la letteratura sarà immobilizzata da questa ragnatela di migliaia di fili aggrovigliati, si trasformerà in una specie di manifesto rigido e plumbeo. E purtroppo, chi è entusiasticamente coinvolto nell’opera di controllo non sta semplicemente pietrificando gli altri, sta pietrificando anche se stesso. Sta seminando mine, e sa che finirà inevitabilmente per calpestarle. Nelle menti sospettose, diffidenti non può esserci danza. Solo il passo pesante, cauto di questo nuovo linguaggio. La neolingua.

In ogni caso, occultare le cose non le farà scomparire. Se questi dibattiti potessero svolgersi senza il bullismo e lo spirito di vendetta che li accompagnano, sicuramente – accanto al solito guazzabuglio di fanatismo, razzismo e sessismo – ci sarebbero nuove magnifiche voci pronte a raccontare storie che non sono mai state raccontate, coprendo di vergogna gran parte del passato.

Davide Bonazzi

Detto questo, non è mai una cattiva idea fare molta attenzione alle parole. Perché a volte una parola può significare un universo. Per esempio, quando ho pubblicato il mio primo libro, nelle occasioni in cui parlavo fuori dall’India, il più delle volte venivo presentata come “l’autore indiano donna” (in India ero “la prima donna indiana a vincere il Booker Prize”) Ogni volta che succedeva avevo un sussulto interiore e mi stupivo per questo modo di etichettare le persone. Era necessario o era un modo per limitarle e circoscriverle? Dopotutto, era di letteratura che stavamo parlando, non di una richiesta di visto. Sussultavo perché uomini privilegiati e potenti non solo privatamente ma anche sulle prime pagine dei giornali mi davano lezioni su come scrivere, cosa scrivere, che tono avere, quali argomenti erano adatti per un autore (donna) come me. Storie per bambini era il suggerimento che ricorreva più spesso. La narrativa non sembrava preoccuparli tanto quanto i saggi, anche se in linea di principio erano d’accordo con quello che dicevo.

In un’occasione sono stata chiamata a comparire davanti alla corte suprema indiana con l’accusa di oltraggio alla corte per quello che avevo scritto sulle grandi dighe. Durante il processo le loro eccellenze, i fratelli giudici, in aula mi chiamavano “quella donna” mentre esasperati facevano girare il mio saggio. Come se non fossi stata lì, proprio davanti a loro. Quando mi sono rifiutata di chiedere scusa alla corte, mi hanno detto che non mi comportavo da “uomo ragionevole” e mi hanno mandato in prigione per un giorno.

Le cose da allora sono cambiate. Ciascuna parola di quella mia presentazione da schedario – indiano, donna e autore – è diventata l’oggetto di un interrogatorio angoscioso e difficile e di un conflitto quasi inconciliabile. Chi è una donna? O, addirittura, chi è un umano? Che cos’è un paese? Chi è un cittadino? E nell’era di OpenAi e ChatGpt, chi o che cosa è uno scrittore?

Sappiamo ora, anche se molti non vogliono accettarlo, che il confine tra maschile e femminile è fluido e non quello che si dà per scontato che sia. Ma cosa dire del confine tra essere umano e macchina, tra arte e programmazione informatica, tra intelligenza artificiale e coscienza umana? Sono radicati come pensavamo che fossero?

L’era dei bot è già qui, e qualcuno definisce l’intelligenza artificiale la quarta rivoluzione industriale. Scrittori, giornalisti, artisti e compositori saranno eliminati com’è toccato a tessitori, artigiani, operai e agricoltori del vecchio mondo? Forse come gli oggetti e i vestiti “realizzati a mano” e “tessuti a mano”, i romanzi torneranno a essere “scritti a mano” e venduti in edizioni limitate come opere d’arte e non come letteratura. La letteratura sarà prodotta meglio da ChatGpt, Sydney o Bing?

Il grande linguista Noam Chomsky pensa di no. Se ho capito bene, sostiene che un programma di apprendimento automatico può produrre pseudoscienza o pseudoarte elaborando un volume quasi infinito di dati ad alta velocità, ma non può mai sostituire le abilità complesse dell’istinto umano.

C’è molta ansia su cosa potrebbe succedere se OpenAi si facesse strada nel mondo senza regole e senza barriere di protezione. Com’è giusto che sia.

Quando si tratta di letteratura, il mio timore non è tanto che i bot possano sostituire gli scrittori. Forse sono troppo vecchia e troppo vanitosa per questo. O forse, semplicemente, non considero la letteratura un “prodotto”. Il dolore, il piacere e la pura follia del processo sono l’unica ragione per cui scrivo. Il mio timore è che, considerando la quantità di dati e d’informazioni che gli scrittori umani – visto, l’ho detto, ho detto “scrittori umani” – devono elaborare oggi, e considerando il labirinto di trappole che dobbiamo eludere per non commettere errori ed essere politicamente perfetti, il pericolo è che gli scrittori perdano i loro istinti e si trasformino in bot. Forse allora ci sarà un trasferimento di anime. I bot sembreranno Anime Vere e le Anime Vere saranno bot che fingono.

Nel bel mezzo di tutta questa fluidità e porosità, gli unici confini che sembrano irrigidirsi sono quelli tra gli stati nazione. Continuano a essere radicati, pattugliati. Quando sono violati dagli eserciti, la chiamiamo guerra. Quando sono violati dalle persone, la chiamiamo crisi di rifugiati. Quando sono violati dal movimento senza regole di capitali, lo chiamiamo libero mercato. Il moderno stato nazione è sempre lassù con dio, un’idea per cui vale la pena di uccidere o morire. Ma ora, nell’era digitale, ci stiamo dirigendo verso un nuovo tipo di stato? Lo stato elettronico, o quello che viene definito stato in uno smartphone. Uno stato avatar, se preferite.

Finanziato dall’Usaid, l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, e sostenuto dalle grandi aziende tecnologiche – Amazon, Apple, Google, Oracle – lo stato avatar è quasi tra noi. Nel 2019 il governo ucraino ha lanciato Diia, un’app d’identificazione digitale per smartphone. Oltre a fornire più di cento servizi per il cittadino, Diia può contenere passaporti, certificati di vaccinazione e altri documenti d’identità. Diia city è una capitale finanziaria extraterritoriale, una sorta di hub per investimenti ad alto rischio dove i cittadini possono registrarsi e fare affari. Con l’invasione russa Diia, inizialmente concepita come uno strumento burocratico per garantire “trasparenza ed efficienza”, stando alle parole di Samantha Power, amministratrice dell’Usaid, è stata “riconvertita per la guerra”. A detta di tutti, Diia ha reso un servizio straordinario al coraggioso popolo dell’Ucraina. Ora ha un canale di notizie governativo attivo 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana perché i cittadini possano aggiornarsi sull’andamento della guerra. I profughi possono usarlo per registrarsi e presentare domande di risarcimento. Le persone, a quanto si dice, possono usarlo per caricare informazioni sui collaboratori e fotografie dei movimenti delle truppe russe. Una sorta di rete di sicurezza e sorveglianza pubblica in tempo reale gestita da comuni cittadini.

Quando è cominciata la guerra, per tenerli al sicuro, i dati privati degli ucraini su Diia sono stati trasferiti su hard disk di Amazon con una protezione di tipo militare, chiamati AWS Snowballs, trasportati fuori dall’Ucraina e caricati sul cloud. In una guerra devastante come quella che gli ucraini stanno combattendo e sopportando, se un popolo è completamente allineato con il suo governo, allora avere il tuo stato in uno smartphone sicuramente ha vantaggi incredibili. Ma questi vantaggi continueranno anche in tempo di pace? Perché, come sappiamo da Edward Snowden, la sorveglianza è una strada a doppio senso. I nostri telefoni sono i nostri nemici intimi, spiano anche noi.

Per “proteggere il mondo democratico”, l’Usaid progetta di portare Diia o un suo equivalente in altri stati. Paesi come Ecuador, Zambia, Repubblica Dominicana sono in prima fila. La domanda è se, una volta “riadattata” per la guerra, un’app come Diia può essere “dis-adattata” o “de-adattata” per la pace. Una cittadinanza militarizzata può essere smilitarizzata? I dati privatizzati possono essere sprivatizzati?

Anche l’India è molto avanti su questa strada. Durante il primo mandato di Modi a capo del governo, la Reliance Industries, allora la più grande azienda indiana, lanciò Jio, una rete di dati wireless gratuita che veniva fornita insieme a uno smartphone a un prezzo stracciato. Dopo essere riuscita a sbaragliare la concorrenza, ha cominciato a far pagare una tariffa modesta. Jio ha trasformato l’India nel più grande consumatore di dati wireless al mondo, più della Cina e degli Stati Uniti messi insieme.

Nel 2019 c’erano già più di trecento milioni di persone che avevano uno smartphone. Al di là degli innegabili vantaggi di essere collegate a internet, queste persone sono diventate un pubblico bell’e pronto per i messaggi d’odio e socialmente radioattivi, con le notizie false che scorrono incessantemente sui loro telefoni attraverso i social network. È qui che potete vedere l’India senza ornamenti. È qui che quegli appelli al genocidio e allo stupro di massa dei musulmani sono amplificati. Che i video dei vendicatori guerrieri indù che massacrano musulmani, i falsi video di musulmani che uccidono indù, e di fruttivendoli musulmani che di nascosto sputano sulla frutta per diffondere il covid (come gli ebrei della Germania nazista erano accusati di diffondere il tifo) vengono fatti circolare per suscitare nella gente una frenesia di rabbia e odio. I canali social dei suprematisti indù stanno ai mezzi d’informazione tradizionali come una milizia di vigilanti sta a un esercito convenzionale. Le milizie possono fare cose che per un esercito convenzionale sono illegali.

La rivoluzione digitale in India è un esempio perfetto di come gli interessi delle grandi aziende e della supremazia indù coincidano perfettamente. Ora che i cittadini indiani entrano a milioni nell’arena digitale, intere esistenze sono vissute online, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, le aziende, il settore bancario, la distribuzione di razioni alimentari ai poveri. Le aziende proprietarie delle piattaforme devono essere sempre più attente al governo che controlla questa sbalorditiva quota di mercato. Perché quando quel governo è scontento, come spesso accade, può semplicemente chiudere tutto. Aspettiamo la nuova legge Digital India 2023 che darà all’esecutivo poteri impensabili sul mondo online. Già oggi l’India impone più blocchi di internet di ogni altro paese al mondo.

Nel 2019 ai sette milioni di abitanti della valle del Kashmir è stata imposta una sospensione totale delle telecomunicazioni e di internet durata mesi. Niente telefonate, niente messaggi, niente codici di sicurezza, niente navigazione online. Nulla. E non c’era nessuno che gli mettesse a disposizione un satellite Starlink.

Entro il 2026 si prevede che un miliardo di indiani possiederà uno smartphone. Immaginate quel volume di dati in un’app Diia fatta su misura per l’India. Immaginate tutti quei dati nelle mani delle aziende. Oppure immaginateli nelle mani di uno stato fascista e dei suoi sostenitori indottrinati, militarizzati. Per esempio, diciamo che dopo aver approvato una nuova legge sulla cittadinanza il paese x crei milioni di “rifugiati” tra i suoi stessi cittadini. Non può deportarli, non ha i soldi per costruire prigioni per tutti. Ma il paese x non avrà bisogno di un gulag o di campi di concentramento. Può semplicemente spegnerli. Può spegnere lo stato nei loro smartphone. Allora potrebbe avere un’ampia popolazione di servizio, praticamente una sottoclasse di lavoratori senza diritti, senza salario minimo, senza diritto di voto, assistenza sanitaria e da mangiare a sufficienza.

Una popolazione non sarebbe citata nei libri. Questo migliorerebbe enormemente gli indicatori statistici del paese x. Potrebbe essere un’operazione molto efficiente e trasparente. Potrebbe sembrare addirittura una grande democrazia.

Che odore avrebbe uno stato così? O che sapore? Qualcosa di irriconoscibile? O di molto riconoscibile?

Che cos’è un paese? Che cos’è uno stato? E chi o che cosa è uno scrittore? ◆ gc

Arundhati Roy è una scrittrice e attivista indiana che vive a New Delhi. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Azadi. Libertà, fascismo, fiction all’epoca del coronavirus (Guanda 2020). Questo è il testo del suo intervento all’accademia di Svezia il 22 marzo 2023, in occasione della conferenza “Thought and truth under pressure”. È uscito su Literary Hub con il titolo Approaching Gridlock: Arundhati Roy on free speech and failing democracy.

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati