Ogni tanto qualcuno tira fuori il paradosso di Berkeley: “Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, non fa rumore”. Bisogna mettersi d’accordo su che cosa s’intende per “nessuno”. Se comunicassimo usando gli ultrasuoni, per esempio, è probabile che considereremmo quasi mitiche le capacità musicali dei ratti. Come sostiene David George Haskell nel suo Suoni fragili e selvaggi (Einaudi 2023), in realtà viviamo su un pianeta popolato da canti, musiche e parole per noi inascoltabili, meraviglie sonore provenienti da foreste pluviali, insetti, rane, uccelli delle montagne Rocciose: gli animali cantano, proprio come noi, ma non sempre possiamo sentirli quando sono lì a suonare il ritmo della vita e ad ascoltare la caduta degli alberi della foresta anche quando noi non ci siamo. Le vibrazioni sonore della Terra sono l’eredità della prima musica in assoluto – quella della tettonica delle placche – e a guardarlo fuori da ogni spartito antropocentrico questo nostro mondo è un immenso auditorium per ogni tipo di musica possibile. Musica e linguaggio umano appartengono alla stessa storia evolutiva, e anche quando si tratta delle sinfonie di Mozart o Bellini non c’è niente che ci renda unici, al massimo qualcosa che ci rende diversi. La musica e il suono sono ovunque, e ogni volta che cancelliamo una specie per colpa della nostra cecità o incapacità ecologica stiamo compiendo un abominio non solo morale, ma anche estetico: cancellare le diversità sonore rende il mondo meno creativo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati