Non molti riderebbero del fatto di essere scampati a un attentato che ha lasciato ferite a entrambe le gambe. Ma è proprio quello che fa Imran Khan quando lo incontro una sera del novembre 2022, nella sua casa di famiglia a Lahore, in Pakistan. “Mentre i proiettili filavano sopra la testa, ho abbassato lo sguardo”, dice sorridendo, anche se sono passati appena cinque giorni dall’attacco. “Il mio primo pensiero è stato: mi hanno colpito da qualche altra parte?”.

La stanza in cui ci troviamo è piena di decorazioni dorate e opere d’arte moderna, senza però i volti o le figure femminili così frequenti nelle altre case eleganti del quartiere. All’interno delle cornici dorate si vedono forme astratte ed esempi di calligrafia islamica. In un Pakistan ogni giorno più moralista, non esporre immagini di figure umane è un segno di religiosità, che allo stesso tempo impressiona i devoti e irrita i progressisti.

Anche se indossa un pigiama da ospedale e ha una gamba fasciata, Khan non si ferma. Pubblica video per i suoi milioni di follower. Registra interviste con la stampa straniera. I suoi avvocati gli gironzolano intorno, buttando giù appunti per quando potranno parlare con lui, Khan sahab, come molti lo chiamano in segno di rispetto. L’ex primo ministro non prevede di fare pause.

Il 3 novembre 2022 stava partecipando a una manifestazione contro il governo in una città della provincia del Punjab quando un uomo armato gli ha sparato quattro volte, uccidendo un suo sostenitore e ferendo diverse persone.

“Il proiettile ha mancato l’arteria per una frazione di millimetro”, spiega. Usa un tono distaccato, oggettivo, come se stessimo parlando del tempo. Poi chiama qualcuno perché gli porti un “caffè locale”, una specie di cappuccino molto dolce e cremoso chiamato dalgona che si serviva negli uffici e nelle case pachistane da ben prima che TikTok lo rendesse molto popolare durante il lockdown.

Khan non fa convenevoli e non mi offre il caffè. In un paese famoso per la sua ospitalità, l’ex premier non si distingue per le buone maniere. L’ultima volta che l’ho intervistato a casa sua, nel 2013, aveva fatto colazione tutto il tempo, gesticolando con un pane puri fritto in mano, senza neanche offrirmi da bere.

“Ai tempi di Jemima c’era abbondanza di tutto”, mi ha detto una volta un suo amico, riferendosi al periodo in cui Khan era sposato con la giornalista Jemima Khan, che oggi fa la sceneggiatrice. “Lei era una perfetta padrona di casa. Ma Imran non sa cucinare neanche un uovo sodo. Non ti offre nemmeno un bicchiere d’acqua. È fatto così”. È una prova del suo essere poco socievole, più che della sua parsimonia, ma è una caratteristica strana in una cultura in cui i politici offrono di tutto ai giornalisti, dal tè con i biscotti alle buste piene di denaro.

A un certo punto Khan perde la pazienza con gli avvocati: “Hanno cercato di ammazzarmi, per amor di Dio!”. I legali devono inviare un rapporto sull’attentato alla polizia, e lui vuole fare dei nomi, tra cui quello del primo ministro Shehbaz Sharif e di un alto ufficiale ancora in servizio, che avrebbero complottato per ucciderlo. Gli avvocati temono ripercussioni. Lui non teme nulla.

Mentre Khan si sposta lentamente verso il salotto per l’intervista, noto le conseguenze dell’attentato. Non ha più l’andatura da atleta. Tiene le spalle curve e si appoggia a un deambulatore per non caricare il peso sulla gamba ferita. Per la prima volta dimostra la sua età: settant’anni. Non ha nessuna intenzione, però, di lasciarsi sfuggire l’opportunità di rafforzare il racconto che ha galvanizzato i suoi sostenitori: i vertici delle forze armate pachistane, forse con l’aiuto degli Stati Uniti, avevano orchestrato la sua caduta da primo ministro e ora hanno cercato di ucciderlo.

Il primo compito

Il Pakistan è guidato dai generali. Oltre a comandare uno dei più grandi eserciti del mondo, alcuni di loro s’immischiano nella politica, insediano governi e manipolano elezioni. Dettano la strategia nucleare ed estera del paese, e in gran parte anche quella interna. Per i primi ministri eletti c’è un compito più importante di tutti gli altri: far contento l’esercito. I politici, con la loro smania di successo e di arricchimento, sono spesso fin troppo pronti a stringere accordi per restare al potere, e questa è una debolezza preoccupante, e cronica, in un sistema all’apparenza democratico.

Khan non si tira indietro quando parla di “chi comanda”. Accusa l’esercito di avergli messo i bastoni tra le ruote quando era primo ministro. “Non sono riuscito a fare niente contro la corruzione delle élite”, dice. Sostiene che il comandante in capo dell’esercito, il generale Qamar Javed Bajwa (andato in pensione il 29 novembre 2022), ha praticamente dettato tutte le nomine politiche nel Punjab, la provincia più popolosa del paese, dove vincere le elezioni è il primo passo verso la conquista del potere centrale. Khan rimprovera ai militari di aver ostacolato gli sforzi per introdurre le macchine per il voto elettronico, che secondo lui avrebbero reso più difficili i brogli.

È interessante vederlo lanciare queste accuse. Non perché siano false, ma perché molti in Pakistan credono che sia stato proprio l’esercito ad aiutare la sua ascesa al potere.

Prima del 2018, i vertici militari avevano cercato a lungo un’alternativa alle due grandi dinastie politiche del Pakistan: i Bhutto, aristocratici, e gli Sharif, commercianti di successo. Dal punto di vista delle forze armate, entrambe le famiglie erano diventate difficili da controllare.

Probabilmente fantasticavano sull’uomo più famoso del paese. All’apice della sua carriera, Khan era un campione di cric­ket molto amato, un benefattore, il testimonial di marchi noti in patria e all’estero. In un paese ossessionato dal cricket, l’atleta che aveva studiato a Oxford, nel Regno Unito, rispondeva all’immagine di un “nuovo Pakistan”, in cui i politici feudali e corrotti sarebbero finiti in disparte o in prigione. Khan aveva vinto la coppa del mondo di cricket nel 1992, finanziato un ospedale all’avanguardia e un’università a Lahore: era uno che poteva farcela. Aveva anche ambizioni politiche, visto che nel 1996 aveva fondato il Movimento per la giustizia pachistano (Pti). Ma non aveva ancora raggiunto i suoi obiettivi e avrebbe fatto di tutto per conquistare il potere.

Il suo nazionalismo e il suo populismo islamico avevano convinto gli uomini in divisa. Parlando in urdu e in inglese, Khan esortava gli elettori a sognare un Pakistan che trattava ricchi e poveri allo stesso modo e che non sarebbe stato “schiavo” dei “padroni” occidentali. Descriveva Medina, la casa del profeta Maometto, come un esempio di società giusta. Invocava il jihad per convincere i cittadini a pagare le tasse. Diceva di voler combattere per la sovranità nazionale e sfidava gli Stati Uniti sulla guerra al terrorismo. Prometteva di rendere il paese così solido dal punto di vista economico che dall’estero la gente sarebbe “venuta a cercare lavoro qui”. Per raggiungere questo scopo avrebbe obbligato i politici disonesti a rispondere dei loro crimini, tassato gli straricchi e creato uno stato sociale.

“Per vent’anni le forze armate pachistane hanno ripetuto all’opinione pubblica che i due principali partiti, il Partito popolare pachistano e la Lega musulmana pachistana-Nawaz, erano corrotti fino al midollo”, spiega l’opinionista Cyril Almeida. “Hanno piantato i semi dell’odio verso la classe politica. In Imran Khan hanno trovato un candidato che poteva piacere”.

Khan nega di aver avuto l’appoggio dei militari, ma in pochi gli credono. Subito dopo il suo insediamento come primo ministro, nell’agosto 2018, alcuni suoi avversari sono stati arrestati o dichiarati non eleggibili. I ricchi “eleggibili” hanno cambiato schieramento per allearsi con lui. I mezzi d’informazione – sempre molto attenti all’umore dei militari – hanno pubblicato articoli e servizi favorevoli a Khan. Gli editori che non si adeguavano erano censurati o costretti a chiudere.

Nonostante le denunce di brogli, il Pti di Khan ha ottenuto 115 dei 270 seggi da attribuire all’assemblea nazionale. Con 22 in più avrebbe formato il governo da solo. Ma la situazione era quella che volevano i militari: senza una maggioranza assoluta, Khan avrebbe avuto bisogno del loro appoggio. Sembrava un matrimonio perfetto: Khan apparentemente sosteneva le politiche dell’esercito, dava ai generali in pensione importanti incarichi di governo e consultava quelli ancora in servizio sulle questioni amministrative.

Tuttavia, quattro anni dopo, nell’aprile 2022, il pupillo dell’esercito è stato rimosso dall’incarico, come altri diciassette primi ministri prima di lui.

Scoppia la crisi costituzionale

Cos’era andato storto? Molti sostengono che Khan non fosse riuscito a realizzare le promesse fatte in campagna elettorale e avesse aggravato il debito del paese. L’esercito, forse, si era reso conto che un leader incompetente era intollerabile quanto uno corrotto. Ma c’era anche altro: Khan, da sempre un uomo estremamente sicuro di sé, stava sviluppando opinioni indipendenti. “Cominciava a sentirsi a suo agio nel ruolo di primo ministro”, osserva Almeida. “Dopo aver collaborato con i militari per tre anni, voleva farli diventare i suoi soci di minoranza”.

L’opposizione aveva minacciato per mesi di rimuovere Khan, ma aspettava il momento giusto. A Islamabad circolava voce che i suoi rivali fossero in trattativa con i generali. Poi i partiti vicini ai militari con cui Khan aveva formato un governo l’hanno scaricato. Il primo ministro doveva cavarsela da solo.

Invece di accettare la sconfitta, l’ex atle­ta – che spesso si vantava di giocare “fino all’ultima palla” – aveva sfidato l’opposizione a presentare una mozione di sfiducia. Convinto forse che i generali gli avrebbero lanciato una ciambella di salvataggio, aveva cominciato ad accusare prima Washing­ton e poi i militari di aver orchestrato la sua caduta.

Il giorno del voto di sfiducia, Khan aveva detto al vicepresidente dell’assemblea generale di respingere la mozione. Sempre su consiglio di Khan, il presidente pachistano Arif Alvi aveva sciolto il parlamento, scatenando una crisi costituzionale. Quando era diventato evidente che i militari gli avevano voltato le spalle, Khan aveva riposto le sue speranze nella corte suprema, che ha una sua storia d’interferenze nell’attività degli altri organi dello stato. Ma l’aiuto non era arrivato.

Sostenitori di Imran Khan assistono a un suo comizio dalla cima di un albero, Lahore, 26 marzo 2023  (K.M. Chaudary, Ap/Lapresse)

Persa la carica, Khan ha insultato i generali schernendoli per la loro “neutralità”. “Allah non ci permette di restare neutrali”, ha dichiarato provocatoriamente a una folla riunita a Timergara, nella provincia conservatrice del Khyber Pakhtunkhwa, “solo gli animali sono neutrali”. Ha attaccato i militari con tanta forza che il capo dell’esercito ha costretto il capo della Inter-services intelligence (Isi, il più importante tra i rami dei servizi di sicurezza pachistani) a rispondere pubblicamente alle accuse. Per molti politici questa sarebbe stata la fine della carriera. Ma Khan era indistruttibile e la sua popolarità è schizzata alle stelle.

Dopo il voto di sfiducia, ho parlato con un militare in servizio per capire cosa pensassero i suoi colleghi della trasformazione di Khan da complice ad acerrimo nemico. “Crede che non abbiamo gli audio e i video di Khan sahab?”, ha risposto seccamente prima di chiudere la telefonata.

L’ufficiale alludeva all’arma finale dell’Isi, un’arma che era già stata usata contro molti politici pachistani: registrazioni dal contenuto sessuale. Considerato lo stile di vita di Khan, molti pensavano che ci fosse materiale a sufficienza per distruggerlo. Su internet sono usciti dei presunti audio di lui che faceva sesso telefonico. Il partito di Khan li ha definiti dei falsi. In ogni caso la mossa si è ritorta contro l’esercito. È vero che il Pakistan è una società di musulmani devoti, ma è anche fortemente patriarcale, e la vita sessuale degli uomini è fonte di invidia e ammirazione. Insomma, non è che queste registrazioni “abbiano fatto perdere il sonno a Khan”, mi dice uno dei suoi consiglieri.

È incredibile quanto sia aumentata la popolarità di Khan dopo le dimissioni, considerata anche la distanza tra ciò che aveva promesso e quello che ha davvero ottenuto. Quando è arrivato al potere, il problema principale del Pakistan era il calo delle riserve di valuta straniera. Khan ha detto che sarebbe morto “piuttosto che chiedere un prestito all’Fmi”. Nove mesi dopo ne ha ottenuto uno. L’economia si è rimessa in moto, ma proprio quando l’economia cominciava a ingranare è riapparso il deficit. Le riserve di valuta straniera sono crollate. L’esercito e Khan si sono rivolti all’Arabia Saudita per un prestito d’emergenza da tre miliardi di dollari.

“Questo è successo in gran parte a causa di pessime decisioni. Khan ha fatto pressioni sulla banca centrale pachistana perché mantenesse i tassi d’interesse negativi più a lungo del necessario. Ha incoraggiato l’emissione di nuova moneta e l’inflazione è divampata”, dice Khurram Husain, un giornalista esperto di economia. Ma ai fan di Khan tutto questo non importava. “Lavorava dieci ore al giorno, non ha mai preso un giorno di riposo. Ha ottenuto risultati migliori di tutti i governi precedenti, però aveva i mezzi d’informazione contro”, spiega un suo ammiratore.

“Aveva una visione chiara, e seguiva gli esempi del profeta Maometto”, dice un altro. “Nessuno avrebbe mai dato al proprio figlio il nome di Nawaz Sharif o di Asif Ali Zardari. Ma quello di Imran Khan sì”.

Anime gemelle

Nel salotto di Khan, mi chiedo dove sia la sua terza moglie. Bushra Bibi è nata in una famiglia conservatrice di proprietari terrieri a Pakpattan, nel Punjab, dove sorgono i santuari sufi. Nell’ultimo decennio è diventata famosa come pirni, un titolo attribuito ai maestri spirituali della tradizione sufi. In un paese dove ancora in molti credono nei presagi e nel malocchio, la donna, che ha 48 anni, è celebre perché aiuta le anime tormentate con la preghiera, ma anche con pratiche meno convenzionali.

Quando mi rivolgo a Khan per sapere dov’è sua moglie, lui ignora la domanda. Lo sollecito a dirmi di più sulla loro relazione. La sua risposta mi sorprende. “Sono sposato ora, contenta? Cos’altro vuoi sapere?”, dice arrossendo. Gli chiedo come vanno le cose tra loro, visti i suoi difficili trascorsi sentimentali. Nel 2014, dieci anni dopo la fine del primo matrimonio, Khan è stato sposato per un breve periodo con Reham Khan, un’ex presentatrice del meteo britannico-pachistana che poi ha pubblicato un libro sulle relazioni sessuali di Khan e i suoi festini a base di droga a Islamabad (tutte accuse che Khan e il suo partito hanno respinto come propaganda degli avversari politici).

“Per farla semplice”, dice Khan, “non ho mai creduto veramente nell’anima gemella, ma ora so cos’è”. Poi mi racconta di quando, nel 1997, il presidente sudafricano Nelson Mandela lo invitò a partecipare insieme alla moglie a un viaggio di raccolta fondi sul Blue train (una linea ferroviaria sudafricana che era stata recentemente rinnovata). “Vidi Mandela e sua moglie Graça Machel seduti vicini. Tra loro c’era un’intesa perfetta… Mi chiesi se anch’io avrei mai trovato un’anima gemella. Ora ce l’ho”.

Le sue parole mi colpiscono. Bushra Bibi, o Pinky (il suo soprannome), è il contrario di quello che tutti s’immaginavano per lui. I mezzi d’informazione hanno scoperto la loro relazione quando Khan ha cominciato a farle visita “in segreto” per avere la sua guida spirituale, forse credendo che potesse aiutarlo a diventare primo ministro. Alla fine Bibi ha divorziato dal marito, il padre dei suoi cinque figli, e nel 2018 ha sposato Khan.

A quel punto a Islamabad circolavano voci incontrollate e prive di fondamento. Si diceva che Bibi l’avesse stregato. I familiari di lei “dicono che è una specie di medium, che può sentire le voci”, racconta un suo conoscente. “Erano tutte sciocchezze. La verità è che è stata intelligente”.

Prima di diventare capo del governo, Khan indossava sempre un anello con una gemma verde al dito mignolo per tenere lontani i pericoli. Poi molti hanno notato che aveva smesso di partecipare ai funerali, perfino quelli degli amici più stretti. Sospettavano, senza averne le prove, che si fosse convinto che trovarsi nella stessa stanza di un morto portasse sfortuna. Nel 2021 ci sono state delle polemiche quando ha rifiutato d’incontrare i familiari di alcuni minatori hazara (un’etnia minoritaria) uccisi dal gruppo Stato islamico in Belucistan, finché i morti non fossero stati sepolti.

La presunta superstizione di Khan potrebbe aver creato altre situazioni imbarazzanti. Una delle prime crepe nel rapporto con i militari è derivata dal ritardo con cui ha nominato il capo dei servizi di sicurezza, uno degli incarichi più importanti del paese. Secondo un ministro la moglie gli aveva detto di fare l’annuncio solo quando fosse arrivato il momento propizio.

Un’atmosfera gelida

Pochi politici avrebbero considerato propizio trovarsi in Russia alla vigilia dell’evento che ha cambiato il mondo di oggi. Il 23 febbraio 2022, poche ore prima che il presidente russo Vladimir Putin ordinasse l’invasione l’Ucraina, Khan è sceso dall’aereo in una Mosca gelida.

La sua crescente popolarità non è una buona notizia per la democrazia del Pakistan. Khan vuole governare con il pugno di ferro

“In che momento sono arrivato… Quanta emozione!”, ha detto Khan a Igor Morgulov, il viceministro degli esteri russo che era andato all’aeroporto ad accoglierlo. Il suo entusiasmo in quel difficile frangente è stato ripreso dalle videocamere. A detta di molti in Pakistan, ha fatto una figura pessima.

Khan non poteva sapere che dodici ore dopo il suo arrivo Putin avrebbe annunciato l’invasione. Tuttavia, quando era partito da Islamabad con la speranza di concludere accordi commerciali, sapeva che le tensioni tra Mosca e Kiev erano al culmine. Quella settimana l’intelligence statunitense aveva avvertito che il presidente russo stava spostando le truppe vicino alla frontiera con l’Ucraina e che i soldati avevano ricevuto l’ordine di invadere. Un funzionario dell’agenzia per la sicurezza nazionale statunitense aveva chiamato un collega pachistano per raccomandare prudenza.

Dal punto di vista di Putin, è stato un colpo da maestro. “Una pubblicità perfetta”, commenta un giornalista di Mosca. “Tu invadi un paese e poco dopo appari completamente rilassato mentre incontri il primo ministro pachistano, come se nulla fosse”. Da subito è apparso evidente che non c’erano accordi commerciali significativi da discutere in quel viaggio. Khan si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Ma come ci era finito? “Sono dieci o quindici anni che il Pakistan corteggia la Russia”, dice Kamal Alam, un analista del centro studi statunitense Atlantic council, che ha lavorato a stretto contatto con i militari pachistani. “Tutti sanno che le relazioni tra Washington e Islamabad hanno alti e bassi… I russi non contano molto sul Pakistan e considerano i suoi generali troppo filoccidentali. In Imran Khan, però, hanno visto un leader di cui ci si poteva fidare e che ragiona in modo poco ortodosso. Lo aspettavano da vent’anni”.

Lo scorso ottobre, in un discorso alla Oxford union (un’associazione studentesca della prestigiosa università britannica), Khan ha spiegato di essere andato in Russia per “l’interesse nazionale”. “La Russia ci avrebbe venduto petrolio a un buon prezzo”, ha detto. Ha aggiunto di non essere “antiamericano”, ma di aver sospettato che l’amministrazione Biden preferisse “una marionetta più facile da manovrare”.

Questa sua convinzione ha fatto nascere in Pakistan la “controversia sul messaggio cifrato”. La tesi sostenuta da Khan per mesi era che Washington avesse complottato per destituirlo, perché lui ha “una mentalità troppo indipendente” e non è disposto a diventare lo “schiavo” dei “padroni occidentali”.

Pochi giorni dopo la sua rimozione dall’incarico di primo ministro, Khan ha dichiarato di avere le prove: un dispaccio diplomatico che avrebbe dimostrato come gli statunitensi avevano appoggiato “un cambio di regime”. L’accusa – che Khan ha finito per ritrattare – non l’ha protetto dalla mozione di sfiducia. Però è servita a un altro scopo. I sostenitori di Khan sono scesi in piazza in tutte le grandi città del paese per protestare. Quella mossa l’ha reso un martire politico.

L’auto di Khan arriva all’alta corte di Lahore, 21 marzo 2023 (Akhtar Soomro, Reuters/Contrasto)

Doppio standard

Questi eventi mi fanno ricordare una delle mie prime interviste a Khan, una decina d’anni fa a Karachi. Stavamo andando in macchina all’aeroporto, e lui indossava un salwar kameez bianco e fresco e un paio di occhiali da sole di marca Ferrari. Parlava con concitazione di come la “cultura dei vip” e i capricci delle élite causassero sofferenze ai comuni cittadini. Poi siamo rimasti bloccati in un ingorgo. Sembrava proprio che non avrebbe fatto in tempo a prendere il volo.

Mentre gli facevo le domande, lui teneva d’occhio l’orologio. A un certo punto si è rivolto all’autista: “Conosci qualcuno alla AirBlue? Chiedigli di far aspettare il volo, devo prenderlo a tutti i costi”.

Non sembrava rendersi conto del doppio standard: denunciava la cultura dei vip, ma si aspettava di essere trattato come uno di loro. Attaccava gli avversari perché spendevano troppo per i viaggi, ma in campagna elettorale andava da una città all’altra su un jet privato di un amico. Si rendeva conto che per vincere le elezioni servivano soldi, influenza e compromessi, ma criticava gli avversari per le stesse cose.

Khan conta di vincere di nuovo, con la vittoria più grande di sempre. “Andrò al governo solo se avrò la maggioranza assoluta”, dice. “Nelle coalizioni l’esercito finisce per prevalere”.

Non è chiaro quando il Pakistan organizzerà il voto. Il governo teme la popolarità di Khan – il suo partito ha stravinto in 27 delle 36 elezioni suppletive che si sono svolte dal 2018 – e cerca di prendere tempo. Ma anche se i suoi rivali annaspano con la crisi del costo della vita e del debito estero, la strada per Khan è tutt’altro che spianata. L’ex campione di cricket ha perso il favore dell’esercito ed è odiato dagli avversari. Deve affrontare una serie di processi e rischia l’esclusione dalla competizione elettorale. Senza il suo carisma, il suo partito andrebbe in pezzi.

Per la fragile democrazia del Pakistan, la crescente popolarità di Khan non è necessariamente una buona notizia. L’ex primo ministro vuole governare con il pugno di ferro e sogna un sistema politico ispirato a quello cinese.

Quand’era al governo, durante una visita a Pechino, ha detto che “nelle democrazie occidentali è difficile fare cambiamenti, per i vincoli di norme e regolamenti. Senza democrazia, il Partito comunista cinese ha ottenuto molto di più”.

Durante il suo mandato, si è rifiutato di negoziare con l’opposizione perfino su riforme cruciali.

La libertà di stampa non sembra stargli troppo a cuore: nel 2021 l’ong Reporter senza frontiere l’ha inserito nell’elenco dei 37 peggiori leader al mondo. Ma lui non si lascia intimorire. “Se fossimo stati davvero così potenti, non ci avrebbe criticato nessuno”, dice. Nonostante gli attacchi all’esercito, sembra comunque ammirare alcuni aspetti dell’influenza militare. Dice che lavorare con i generali ha un lato “pragmatico” e che l’idea di allontanarli del tutto dalla politica è “utopistica”. Rispetta il potere e le capacità organizzative dei militari, e dice che gli concederebbe di operare al di fuori del mandato costituzionale per raggiungere i suoi scopi.

Sui diritti delle donne Khan è, nel migliore dei casi, indifferente. In un paese con più di cento milioni di cittadine e dove il movimento per i diritti femminili si sta rafforzando, le sue posizioni sono offensive. Quando gli è stato chiesto di esprimersi sulla violenza sessuale, ha dichiarato che lo stupro di solito è la conseguenza di “tentazioni” e “frustrazioni” e che gli abusi sui bambini sono un problema più grave.

Ma la peggior delusione è che Khan, pronto a predicare la tolleranza del sufismo, sembra aver incoraggiato i fondamentalisti religiosi, facendo vedere che non è tanto diverso dai suoi predecessori. Appena diventato primo ministro, aveva nominato Atif Mian, stimato economista e docente dell’università statunitense di Princeton, tra i suoi più stretti consulenti economici. Mian è di fede ahmadi, una minoranza religiosa a lungo perseguitata. Quando alcuni gruppi estremisti hanno fatto pressione, Khan l’ha scaricato in un baleno, assestando un primo colpo al suo racconto del “nuovo Pakistan”.

“Purtroppo il governo non ha saputo resistere alle pressioni che venivano da dentro e fuori il partito a causa della mia religione”, commenta Mian.

L’ex consigliere ribadisce quello che molti dei più attenti sostenitori di Khan hanno intuito fin dall’inizio. “Khan era il volto nuovo al potere, e per questo molti speravano che avrebbe innescato dei cambiamenti positivi”, dice. “Ma i veri cambiamenti richiedono una visione chiara della direzione in cui si deve muovere il paese, e questa visione dev’essere sostenuta dal coraggio di prendere decisioni difficili. Purtroppo, durante il suo mandato non ci sono stati né visione né coraggio. Il paese si ritrova nei soliti guai, solo che ora sono più grossi”. ◆ gc

Atika Rehman è una giornalista pachistana, corrispondente del quotidiano Dawn dal Regno Unito. È la vicedirettrice del sito d’informazione ambientale The Third Pole.

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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati