Dall’agosto 2020 all’inizio di ottobre abbiamo assistito a ben cinque colpi di stato in Africa occidentale: due in Mali, due in Burkina Faso e uno in Guinea. È sicuramente preoccupante, soprattutto considerando il progressivo deterioramento della situazione della sicurezza. Ma forse non è questa la peggior minaccia per la regione: il flagello a cui dovremmo mettere fine è la tendenza a giustificare i colpi di stato con il pretesto del “fallimento della politica”. Ormai qualsiasi soldato si ritiene autorizzato a rovesciare il potere costituito. Ma i militari – più pronti a scacciare i presidenti dai palazzi che a dare la caccia ai jihadisti – sono anche loro responsabili. E, peggio ancora, si sottraggono alle sfide che dovrebbero raccogliere.

Il colpo di stato in Burkina Faso, guidato dal capitano Ibrahim Traoré, che il 30 settembre ha messo fine al breve “regno” del colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, è un nuovo esempio di questa tendenza. E in effetti cosa dovremmo aspettarci da un capitano che invoca la situazione di pericolo diffuso nel suo paese per giustificare di aver preso il potere, ma che subito dopo ammette di non poter far nulla senza un aiuto esterno? Questo modo di pensare è preoccupante e il suo effetto sui nostri eserciti è un imborghesimento degli ufficiali. I soldati sono ormai così abituati alle stanze climatizzate e alle poltrone da non farsi più vedere al fronte.

Fino a poco tempo fa i presidenti democraticamente eletti affidavano la lotta contro il terrorismo all’esercito. Quando questo non è riuscito a portare a termine la missione, ha astutamente dato la colpa ai leader politici e poi li ha rovesciati. Comportandosi come politici, i militari hanno strumentalizzato il caos e la paura della popolazione per guadagnare legittimità. E ora che sono al potere i problemi non accennano a sparire. Quindi, come una preda braccata e seguendo la moda del momento, si affrettano a mandare una richiesta di aiuto alla Russia, vista come un contrappeso alla Francia.

Né Parigi né Mosca

Ma non dovremmo illuderci: la soluzione ai problemi africani non si trova né a Parigi né a Mosca. Il presidente russo Vladimir Putin non ha a cuore le sorti del continente africano più del francese Emmanuel Macron. Entrambi usano gli africani come pedine in un conflitto che li vede contrapposti. Come ai tempi della guerra fredda, l’Africa si divide per seguire l’uno o l’altro. Per questo non dovremmo fidarci dei militari che si proclamano rivoluzionari, ma continuano a ragionare con questa logica binaria sclerotizzata.

La divisione dei compiti è chiara: i soldati dovrebbero darsi da fare per restituire l’integrità a territori che continuano a essere frammentati dall’avanzata terrorista. Dovrebbero uscire dai palazzi e lasciare le città, per andare al fronte a misurarsi con i gruppi jihadisti. Dovrebbero liberarci da questa minaccia e restituirci l’atmosfera festosa dei villaggi. Garantire ai contadini le condizioni per riprendere le attività agricole. Rassicurare gli allevatori, che non sanno più dove portare a pascolare le loro mandrie.

Ecco cosa dovrebbero fare i nostri soldati. Il resto è solo una strumentalizzazione che non fa onore a nessuno. Soprattutto quando si finisce per subappaltare un settore strategico come quello della sicurezza a possibili rivali. ◆ gim

Boubacar Sanso Barry è un giornalista guineano, direttore del sito Ledjely.com.

Da sapere
Senza controllo

Burkina Faso

◆ Il 2 ottobre 2022 in Burkina Faso il capo della giunta militare Paul-Henri Sandaogo Damiba ha ceduto il potere al capitano Ibrahim Traoré. A gennaio Damiba aveva organizzato un colpo di stato contro il presidente Roch Marc Christian Kaboré. Sempre il 2 ottobre a Ouagadougou i manifestanti hanno attaccato l’ambasciata e l’istituto culturale francesi, mentre si vedevano sventolare bandiere russe per le strade. Il 30 settembre Traoré aveva rimosso Damiba dal potere, accusandolo di non essere riuscito a contenere la minaccia jihadista. Si stima che il 40 per cento del territorio sfugga al controllo dello stato. Al Jazeera, Wakat Séra


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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati