Si parla tanto della guerra nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ma al di là delle dichiarazioni altisonanti nessuno fa qualcosa di concreto per mettere fine al conflitto. Da Parigi a New York, passando per Washington e Bruxelles, si cerca semplicemente di avere la coscienza a posto. La Rdc ha più volte denunciato, con i rapporti delle Nazioni Unite alla mano, che i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) sono sostenuti dal Ruanda. Ma, fatta eccezione per le organizzazioni che difendono i diritti umani, nessun leader internazionale ha ripreso queste accuse. Il presidente ruandese Paul Kagame, protetto dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali, fa così paura? Anche il francese Emmanuel Macron, nel suo ultimo viaggio in Africa centrale, ha evitato accuramente di sollevare la questione. Macron ha preferito parlare della situazione generale, mettendo sullo stesso piano tutte le parti coinvolte nel conflitto nella provincia congolese del Nord Kivu. Non stupisce, quindi, se non è stato rispettato il cessate il fuoco tra i ribelli dell’M23 e l’esercito congolese che doveva entrare in vigore il 7 marzo. Il Ruanda sa che nessuno si azzarderebbe a imporgli delle sanzioni.

Lasciar andare avanti il conflitto nell’est della Rdc comporta dei rischi. Il primo è politico: se la guerra continua, le autorità potrebbero decidere di rinviare le presidenziali, previste per dicembre, finendo per creare una grave incertezza. Un altro rischio potrebbe essere legato ai gruppi terroristici. Si parla già dei legami tra la milizia ribelle delle Forze democratiche alleate, presente in questa parte del paese, con il gruppo Stato islamico. Se la regione dovesse diventare una terra di nessuno, altre milizie potrebbero approfittarne. Non si può continuare a giocare con il fuoco. Anche se questo significa scontentare il presidente ruandese Kagame. ◆ fsi

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Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati