“Penso che Gérard Depardieu non farà mai più del cinema”. Non è con gioia che Patrice Leconte, il 2 gennaio, è andato negli studi di Lci, il canale d’informazione di Tf1, per pentirsi della sua adesione all’ormai famoso articolo di sostegno a Depardieu pubblicato il 25 dicembre sul Figaro.

Come altri firmatari di quel testo prima di lui, il regista che aveva fatto recitare l’attore nel ruolo del commissario Maigret nel 2022, si dice “pentito di averlo firmato”, obbligato a ritrattare a causa delle pressioni ricevute in seguito a un’accesa discussione pubblica. “È una reazione sensata, Depardieu non è un angelo”, ammette Leconte.

Che vi aspettavate?

Ma cosa si aspettavano i 56 nomi del mondo della cultura firmando un manifesto che chiedeva di “non cancellare” Gérard Depardieu, attualmente al centro di tre inchieste per aggressione o violenza sessuale? Soprattutto dopo l’ennesimo duro colpo subìto dalla sua immagine il 7 dicembre, dopo la trasmissione del programma Complément d’enquête, dove si vede “l’ultimo mostro sacro del cinema” parlare in termini sessuali molto crudi di una bambina nordcoreana.

Il 1 gennaio è stata la volta di Jacques Weber a ritrattare. “Ogni giorno che passa mi rendo conto del mio errore”, ha scritto l’attore su Mediapart. “Ho firmato per amicizia, dimenticando le vittime e la sorte di migliaia di donne in tutto il mondo”. Il suo nome si aggiunge a quello di altri pentiti. “Questo testo non riflette il mio sostegno a tutte le vittime di aggressione sessuale”, aveva affermato due giorni prima Pierre Richard su X. Una ritrattazione che ha coinvolto anche Charles Berling su Instagram: “Mi dispiace per la mancanza di toni più sfumati e per le affermazioni troppo perentorie di questo testo e mi rendo conto dell’indignazione che suscita”. O ancora Nadine Trintignant: un “grave errore”, ha affermato su Le Point.

Per altri, come Gérard Darmon o Carole Bouquet, il problema è invece l’ideatore dell’operazione, Yannis Ezziadi, vicino a personaggi dell’estrema destra e lui stesso accusato da giovani attrici di molestie, come ha rivelato Libération. “Dargli visibilità attraverso Gérard mi mette, come potete immaginare, molto a disagio”, ha affermato l’ex compagna dell’attore su Instagram. Un sentimento condiviso anche dal produttore ed ex agente Domi­nique Besnehard, che sul suo account Facebook ha scritto: “Anch’io sono imbarazzato. Sono stato uno stupido”.

Manifestazione a Tolosa, maggio 2023. (Charly Triballeau, Afp/Getty)

Questa lunga serie di pentimenti è stata accompagnata sui mezzi d’informazione da un fiume di articoli indignati, che hanno trasformato il caso Depardieu in un dibattito sociale sull’era del post-MeToo. “Non vogliamo criticare l’arte che amiamo, al contrario vogliamo proteggerla”, affermano su Libération più di 150 personalità del mondo della cultura tra cui Muriel Robin, Monia Chokri o Swann Arlaud, in risposta a coloro che temono la “compromissione artistica” della Francia a causa dell’attore. Il 29 dicembre un altro articolo firmato da più di 600 artisti, fra cui l’attrice Judith Chemla e le cantanti Angéle e Pomme, chiede di “rompere la legge del silenzio”.

Di fronte a tutto questo, Emmanuel Macron ha scelto di andare controcorrente e il 20 dicembre ha denunciato nella trasmissione C à vous su France 5 una “caccia all’uomo” contro un attore che “rende orgogliosa la Francia”, arrivando a sconfessare la sua ministra della cultura Rima Abdul-Malak, che aveva annunciato una procedura per valutare il possibile ritiro della legion d’onore attribuita a Depardieu. Di fatto il ministero ha avviato la procedura, come ha rivelato Le Parisien il 2 gennaio.

Le affermazioni del presidente della repubblica hanno provocato le reazioni del mondo femminista. L’associazione #MeTooMedia ha pubblicato su Le Monde una lettera aperta in cui spiega quanto le sue affermazioni danneggino la “grande causa” dei suoi mandati presidenziali, negando “a tutte le donne vittime di violenza il diritto di essere ascoltate”. “Sembra di assistere a un secondo MeToo”, afferma su Libération Emmanuelle Dancourt, presidente dell’associazione. “Si parla di un fenomeno sociale, bisogna passare dal MeToo al WeToo”.

Il 28 dicembre è stata la volta di Sophie Marceau a ricordare su Paris Match il comportamento da “predatore” di Depardieu, che l’attrice aveva denunciato senza successo nel 1984 durante le riprese di Police di Maurice Pialat. Il 29 Isabelle Carré ha scritto su Elle: “È arrivato il momento di mettere fine al sessismo”. Nel frattempo l’attrice Vahina Giocante ha raccontato su Facebook di aver visto Depardieu mettere la mano “negli slip di una comparsa durante una ripresa”.

Nuovi strumenti

Ma anche se ora comincia a rompere il silenzio, “nel mondo del cinema francese il MeToo non ha mai realmente attecchito”, osserva Geneviève Sellier, docente di cinema all’università Montaigne di Bordeaux e fondatrice del sito di critica femminista Le Genre et l’Écran. “Malgrado il gesto di Adèle Haenel, che nel 2020 abbandonò la cerimonia dei Césars per protestare sul premio dato a Roman Polanski, il rapporto di forza rimane immutato perché nessuno rinuncia a una posizione privilegiata se non è costretto”. Nel maggio 2023, Haenel, 34 anni, ha detto di voler rinunciare alla sua carriera per denunciare la compiacenza con i predatori sessuali nell’ambiente cinematografico. Sellier vede in questa rinuncia il segno di una contraddizione che sembra insuperabile. “La cultura della violenza e dell’omertà che regna sul set è intrinsecamente legata alla natura di questo cinema. Hollywood ha imposto un’asimmetria fra l’elemento maschile, associato all’azione, allo sguardo e al potere, e quello femminile feticizzato, di volta in volta fonte di minaccia o di attrazione. Un dominio maschile che esiste nella società, ma che Hollywood ha rafforzato erotizzandolo. Di fatto questo ha portato direttamente a una sorta di ius primae noctis esercitato sulle attrici meno famose”.

Geneviève Sellier distingue questo sistema di rappresentazione, accompagnato dal mito francese di un genio creatore al di sopra della legge, dalle disuguaglianze strutturali tra donne e uomini in materia di parità o di stipendi, e di cui il collettivo 50/50, nato sulla scia del MeToo nel 2018, ha fatto il principale terreno di lotta. “Speriamo che questa guerra di petizioni porti alla creazione di nuovi strumenti più stabili per stimare in modo quantitativo le pratiche predatorie così come si stimano le disuguaglianze salariali”. E che permetta di superare, una volta per tutte, la fase della polemica giornalistica. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati