L’ultimo album di John Grant sembra fuori dal tempo. I ricordi della sua infanzia in Michigan, l’adolescenza a Denver e le riflessioni su un sogno americano ormai infranto sono proiettati in un futuro industriale e inquietante. Grant ha conquistato il ruolo di crooner che piace anche agli amanti dell’elettronica, e questa dualità segna anche il suono di Boy from Michigan. Prodotto insieme all’amica e collega Cate Le Bon, il disco si apre con una traccia epica di otto minuti introdotta da synth futuristici, seguiti poi dalle percussioni che ci trascinano nel ritmo incalzante dettato dal basso e dal sassofono. Grant si lancia in una delle sue narrazioni più ricche e intricate, che si rivelano lentamente tra buoni e cattivi, in cui il più cattivo di tutti è Donald Trump. Il disco richiede un ascolto intenso e attento, punteggiato da momenti bizzarri e giocosi. Grant tira fuori senza abusarne tutto l’arsenale: la voce versatile, bagliori di cosmic pop, riferimenti agli anni ottanta, flauti e assoli di sax. Una varietà di trame e atmosfere si uniscono per creare qualcosa che riesce a essere allo stesso tempo calmo, arrabbiato, claustrofobico, arioso e nostalgico. Lauren Down, The Line Of Best Fit
Con una popolazione in forte espansione e molto giovane, è solo una questione di tempo prima che l’Africa occidentale produca una pop star globale come Beyoncé o Prince. Quando succederà, quella star avrà un grosso debito con la beninese Angé-lique Kidjo, una pioniera della musica del continente. In Mother nature Kidjo torna a casa, collaborando con una serie di giovani voci in un album esuberante rivestito di rnb e hip hop contemporanei, ma intriso di sapori tradizionali. Dignity, cantata insieme alla nigeriana Yemi Alade, chiede la fine della brutalità della polizia, mentre la title track affronta la crisi climatica. Free & equal, con Sampa The Great, richiama i principi della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. L’eccezionale Angélique Kidjo è diventata la leader di una nuova generazione. Neil Spencer,The Observer
Cosa intendiamo quando diciamo che un musicista è sperimentale? Di solito ci riferiamo al fatto che i suoi brani esplorano i confini di un genere. Ma come definiamo qualcuno che crea un puzzle di tutti i generi in un solo disco? Questo è quello che succede con il compositore, batterista, fotografo e viaggiatore Jeremy Gustin e i suoi collaboratori (come Dias Gomes, che ha suonato tra gli altri con Caetano Veloso) nel disco d’esordio del suo progetto Blurry The Explorer, dove compaiono anche musicisti come Brian Eno e i Tenniscoats. E la parola blurry, sfocato, si riferisce proprio ai labili confini tra i generi. Senza sedersi su un piedistallo, il gruppo rimescola elementi già noti per creare nuovi sentieri. Nell’apertura, Limited by jelly, è come se gli Stereolab approfondissero le loro radici krautrock, Historia da sua vida è Caetano Veloso diventato elettronico e Teşekkürler ricorda l’età dell’oro del rock turco. E sono solo i primi tre pezzi. Ljubinko Zivkovic, Echoes and Dust
Questo album ha una nobile ambizione: mostrare come Telemann scoprì lo “stile polacco”. Prima con le danze (polon, polonié, polonesie, polonoise e altre), delle quali lodava la “bellezza barbarica”, poi con le sue stesse opere. Il programma, di straordinaria varietà, lascia un solo rimpianto a chi ascolta: che, con i suoi 67 minuti, sia troppo corto. Perché, come disse lo stesso Telemann dopo un viaggio giovanile in Polonia, “se sentite quel che si suona da queste parti per appena una settimana, vi verranno abbastanza idee per una vita intera”. I sette musicisti dello Holland Baroque illuminano ogni attimo di queste musiche fantasiose, luminose , divertentissime e a volte commoventi. Simon Corley, Diapason
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