Elegante ibrido tra racconto di una storia vera e lento thriller d’autore, il secondo lungometraggio del regista serbo Miroslav Terzić prende uno spunto familiare (la crociata di una persona contro il sistema corrotto, alla ricerca della verità) per offrire uno studio psicologico insolitamente approfondito e avvincente. Ana (Snežana Bogdanović) ha un piccolo laboratorio di sartoria alla periferia di Belgrado, ed è convinta che diciott’anni prima le autorità ospedaliere le abbiano mentito quando le hanno detto che il suo bambino era nato morto. Ana ha un rapporto estraniato con la figlia adolescente (Jovana Stojiljković) e il marito (Marko Baćović), e forse anche con la realtà. La trama, lentamente ma inesorabilmente, conduce alla verità. E proprio in quel momento lo studio psicologico del personaggio si spinge oltre, anche grazie alla convincente intepretazione di Snežana Bogdanović. Jessica Kiang, Variety
Serbia / Slovenia / Croazia / Bosnia Erzegovina 2019, 98’. In sala
Francia 2019, 106’. In sala
Gloria mundi di Robert Guédiguian fornisce una visione molto cupa del mondo in cui viviamo, della sua capacità di schiacciare e umiliare gli individui fino al punto di spingerli alla violenza. Daniel (Gérard Meylan) esce di prigione dopo una lunga condanna e non si trova a suo agio nella quotidianità, anche se ha l’opportunità di rendersi utile alla famiglia allargata di cui fa parte. Ritroviamo la disillusione che era già presente in La casa sul mare, ma ancora più amara. A questo si aggiunge una rappresentazione terribile dei giovani: i ritratti dei trentenni sono forse eccessivi, ma non c’è un intento moralistico, più la testimonianza di una profonda inquietudine, diretta e sincera come la malinconia con cui il regista osserva i personaggi della sua generazione. Nella cupezza generale del film, perfino Marsiglia, filmata tante volte dal regista francese, diventa praticamente irriconoscibile, così grigia e fredda, terribilmente contemporanea. Marcos Uzal, Libération
Spagna 2020, 30’. In sala
Una donna è spinta al limite da un ex recalcitrante. In quello che potrebbe essere il loro ultimo scambio, lei parla con lui al telefono. Lei insiste, finge indifferenza, sogghigna, rinuncia. La situazione trascende. Sembra proprio un film di Pedro Almodóvar. Lo è stato, lo è di nuovo. Questo film, che dura solo trenta minuti, ma è completo come tutti gli altri film del regista spagnolo, è un adattamento, libero ma perfetto, di La voce umana di Jean Cocteau, una magnifica “aria” per attrice. Nel 1988 Almodóvar ne prese in prestito gli elementi narrativi per il suo Donne sull’orlo di una crisi di nervi, il film che l’avrebbe definitivamente consacrato. Da tempo il regista pensava a un film in inglese e l’ha finalmente realizzato insieme all’attrice britannica Tilda Swinton: sembrano fatti l’uno per l’altra? Lo sono. Il senso estetico di Almodóvar – con la scenografia che riproduce un appartamento di lusso messa a nudo dalla finzione cinematografica – si accorda alla perfezione con la performance di Tilda Swinton, che proietta emozioni contrastanti con la precisione di un cronografo svizzero. Magnifico. Glenn Kenny, The New York Times
Australia 2019, 118’. In sala
Il primo lungometraggio di Shannon Murphy, tratto dal dramma teatrale di Rita Kalnejais, autrice anche della sceneggiatura, è ben realizzato e ben recitato. Milla (eccellente Eliza Scanlen) ha 16 anni e ha un cancro. Soffre il rapporto con i genitori, anche loro con qualche problema, nonostante le buone intenzioni. Sono iperprotettivi con Milla e vanno nel panico quando lei s’innamora di Moses, un ragazzo di vent’anni, fuggito di casa e tossicodipendente. Ma forse Moses è l’unico che può dare a Milla quello di cui lei ha bisogno nel tempo che le rimane da vivere. Nel complesso Babyteeth è piacevole da guardare ed emotivamente schietto, anche se ha un’idea abbastanza pittoresca di come può essere morire di cancro da adolescenti. Peter Bradshaw, The Guardian
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