Radu Jude ha cominciato la sua carriera dirigendo satire cupe perfettamente in linea con il registro realistico della new wave rumena. Ma recentemente ha scelto una strada più complicata, abbracciando invenzioni formali selvagge e il confronto politico più diretto. Bad luck banging – Orso d’oro a Berlino – è uno spietato ritratto del triste stato del suo paese, sfrenato nel gettare ogni decoro nella spazzatura per rivelare l’ipocrisia del potere come la somma forma di volgarità. L’insegnante Emi (Katia Pascariu) finisce nell’occhio del ciclone quando il marito, contro la sua volontà, divulga in rete un video in cui fanno sesso che diventa virale. Mentre si aggira in una Bucarest in piena pandemia, cercando di reagire alla situazione, vediamo cittadini sull’orlo di una crisi di nervi, sempre pronti a scagliarsi l’uno contro l’altro al minimo pretesto. Il video ci è mostrato esplicitamente all’inizio del film e quindi anche noi siamo portati a prendere posizione: è giusto giudicare un’insegnante per le sue faccende private? Nella seconda parte del film Jude ci mette di fronte a un’orripilante parata d’ingiustizie che dovrebbe farci interrogare su quali sono i veri orrori della nostra società. Nella parte finale c’è un bizzarro tribunale di fronte al quale Emi è costretta a difendersi e che rende davvero impossibile allo spettatore guardare da un’altra parte. Carmen Gray, Sight & Sound
Romania 2021, 106’. Miocinema.it
Stati Uniti / Regno Unito 2020, 118’. A noleggio
Sulla carta Locked down sembra qualcosa di piacevole: un dolcetto cinematografico che arriva in un momento in cui i dolcetti cinematografici sono molto apprezzati. Si tratta di un film su una rapina in epoca di pandemia, diretto da Doug Liman (Edge of tomorrow), con due interpreti carismatici (Chiwetel Ejiofor e Anne Hathaway) e con comparsate via Zoom di Ben Stiller, Ben Kingsley, Claes Bang e altre star. È stato realizzato durante la pandemia nell’arco di quattro mesi. Forse un po’ troppo asciutto e tortuoso per divertire pienamente, ma abbastanza delirante per rendere l’umore del periodo. Anne Hathaway è la dirigente di un’importante casa di moda che decide di farla pagare ai suoi datori di lavoro per averle chiesto di licenziare tutti suoi collaboratori. Il marito è un corriere incaricato dalla stessa azienda di trasportare un diamante da Londra a New York. Sono separati ma costretti a convivere per le misure anticovid. E si rendono conto che possono fare il colpo grosso. La sceneggiatura di Stephen Knight (Locke) ha i suoi momenti felici e il cast è solido. Ma è chiaro che il film è stato realizzato di gran carriera e in tempi normali avrebbe potuto essere più raffinato. Però non si può negare che Locked down colga l’attimo.
Clarisse Loughrey, Independent
Stati Uniti 2020, 115’. In sala
Il minari è una pianta, conosciuta anche come sedano d’acqua o prezzemolo giapponese, molto usata nella cucina coreana. Nel nuovo bel film di Lee Isaac Chung cresce nel letto di un torrente dell’Arkansas fornendo il titolo, un dettaglio importante e forse anche una metafora. Proprio come il minari, Jacob, Monica e i loro due figli sono trapiantati. Nel 1980 compiono una migrazione al contrario lasciando la California per stabilirsi nell’Arkansas rurale. Lavorano in un’azienda di allevamento di pollame, ma Jacob vuole coltivare ortaggi e verdure asiatiche per rispondere alla domanda di tanti migranti che arrivano numerosi da tutto l’estremo oriente. In parte Minari è la storia di quanto è difficile fare affari con il lavoro della terra. L’ambientazione e il ritmo hanno molto a che vedere con la vita contadina. Ma è anche la storia di una famiglia in cerca della felicità. Con l’arrivo della nonna dalla Corea il film si arricchisce di toni da dramma intergenerazionale e da commedia familiare. Succederanno molte cose, alcune prevedibili, altre meno. La trama può non sembrare originale. Ma ogni famiglia – e a dire la verità ognuno dei suoi componenti – ha i suoi ricordi e le sue esperienze. E quello che rende Minari commovente e rivelatore è la fedeltà gentile e premurosa a quei ricordi e a quelle esperienze. A.O. Scott, The New York Times
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