L’undicesimo album di Jane Weaver è quello che avrebbe sempre voluto fare, come afferma lei stessa. Una considerazione strana per un’artista che naviga tra i generi, senza farsi condizionare da pressioni commerciali. E quindi cos’è che Weaver desiderava tanto fare? Ascoltando Flock la risposta sembra essere un disco pop, con tutte le attenuanti del caso. Siamo sempre nei territori cari alla musicista di Liverpool: il fantasma dei Broadcast si aggira in Heartlow, il ritmo pulsante di Modern reputation è in debito con il krautrock, i sintetizzatori e la drum machine primitiva di All the things you do hanno più in comune con ristampe esoteriche di elettronica che con qualsiasi cosa sia in classifica ora. Weaver mette in primo piano le melodie che erano già nella sua musica, stavolta appoggiandosi al funk e al glam per piegare il pop al suo volere. Non sarebbe strano sentire Solarised reinterpretata da Kylie Minogue o da Dua Lipa. In questa densa rete di impulsi elettronici sparsi, Weaver riflette con distacco sulla comunicazione online, il patriarcato e la politica, mentre intorno a lei tutto sembra perdere il controllo per abbandonarsi al ritmo. Un risultato esilarante.
Alexis Petridis,
The Guardian