Cultura Suoni
Spare ribs
Sleaford Mods (Simon Parfrement)

Ho scoperto gli Sleaford Mods grazie al programma televisivo di Jools Holland sei anni fa. Vidi un tipo che faceva partire una base rozza dal suo portatile con una birra in mano, mentre l’altro cantava del suo essere disoccupato. Nel frattempo il duo britannico è cresciuto molto, cambiando poco. Il tono di Spare ribs è familiare: semplice, tagliente, spiritoso. Jason Williamson e Andrew Fearn sono sempre più frustrati dal governo conservatore britannico (“We’re all so Tory-tired”, canta Williamson in The new brick). In Elocution ci sono anche melodie orecchiabili, ma qua e là è tutta un’invettiva contro i politici, accusati di vivere nel lusso mentre il popolo scivola verso la povertà. È l’essenza di quello che fanno gli Sleaford Mods. Questo è il loro disco più musicale fino ad ora, con un uso più avventuroso degli strumenti. Le voci di Amy Taylor degli Amyl and the Sniffers e dell’emergente Billy Nomates aggiungono entusiasmo a quello che è già un album brillante.
Jo Higgs, Loud and Quiet

Greenfields. The Gibb brothers’ songbook, vol. 1

I Bee Gees erano famosi per padroneggiare diversi generi, dal pop barocco alla disco, ma non il country. In _Greenflelds _Barry Gibb, l’ultimo rimasto dei tre fratelli fondatori della band, rimette mano ad alcuni successi e ad altri pezzi meno noti della band a Nashville insieme al produttore country Dave Cobb. È facile capire perché Gibb si sia entusiasmato: basta vedere il livello degli ospiti. Tutti, da Keith Urban a Dolly Parton, dimostrano amore e rispetto per il catalogo dei Bee Gees. Eppure oggi ammettere che i fratelli Gibb siano stati tra i più grandi autori della loro generazione sembra ancora una trasgressione. E sicuramente è più edificante sentire Brandi Carlile o Dolly Parton cantare le loro canzoni che star del pop come Steps, Boyzone o, per carità, Paris Hilton. Gli arrangiamenti sono ben fatti: quasi sempre basati su piano o chitarra acustica e più orientati sul country pop che sul country classico. Chissà cosa sarebbe successo se Gibb e Cobb avessero deciso di osare e di fare una cosa ancora più spoglia.
A. Petridis, The Guardian

Ruff dog
Mica Levi (Dave Benett, Getty Images)

Nelle colonne sonore di Mica Levi non c’è spazio per l’imperfezione. A chi la conosce solo per queste produzioni, Ruff dog sembrerà uno scherzo. L’album comincia con un latrato canino e prosegue in una distorsione sfrenata, eccessiva perfino per gli standard della compositrice britannica. Levi spinge le sue tendenze musicali al limite, a volte rendendo incomprensibili contrappunti e cambi di accordi. Nei suoi momenti migliori, Ruff dog prende in giro la classica struttura pop. È un disco dove un grunge spento e un dream pop soporifero sono tenuti insieme da un approccio lo-fi che non ti aspetti da perfezioniste come Levi. Le scale discendenti di One tear suonano come Doolittle dei Pixies sotto morfina, con le parole che restano incomprensibili. Purtroppo l’album suona troppo dimesso, anche se è realizzato da una compositrice premiata grazie al suo lavoro meticoloso per il grande schermo. Considerato anche il contributo al mixaggio di Marta Salogni, ecco due stelle della scena alternativa britannica per un lavoro che potrebbe essere stato registrato con un iPhone. Forse l’obiettivo di Mica Levi era proprio quello di creare delle ottime melodie, lasciando il loro potenziale volutamente inespresso. Arielle Gordon, Pitchfork

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1392 - 15 gennaio 2021
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