Cultura Schermi
Kneecap
Móglaí Bap, Mo Chara, Dj Próvaí, Michael Fassbender
Irlanda 2024, 105’. In sala
Kneecap (dr)

A questo punto chiunque ha una sua opinione sui Kneecap, anche senza averne ascoltato una singola canzone. Tutti parlano di questo trio hip-hop nordirlandese, nato nel 2017 a West Belfast, che rappa in gaelico. Se ne parla per la sua musica, per la sua eccezione idiomatica (che ha causato un’esplosione di corsi di lingua gaelica), per le loro tante provocazioni e anche per questa finta biografia che, uscita nel 2024, ha incassato due milioni di sterline al botteghino e ha vinto il Bafta come migliore opera prima. La cosa potrebbe sembrare piacevolmente esotica se il trio non avesse raggiunto una risonanza internazionale al festival statunitense di Coachella, dove ha denunciato apertamente il “genocidio del popolo palestinese” reso possibile da un “governo statunitense che arma e finanzia Israele”. In più il film arriva in un momento in cui la band deve rispondere dell’accusa di terrorismo ed è reduce da un’intensa campagna di boicottaggi, insulti e minacce che hanno portato alla cancellazione dei loro concerti in vari festival europei. Tutto questo rende ancora più elettrica la visione di questo film che si diverte con una storia collaudata (l’ennesima scalata al successo della musica di una band di buoni a nulla), mischiando alla realtà invenzioni più o meno ispirate. Il padre di uno dei rapper diventa un attivista radicale (Michael Fassbender) che ha inscenato la sua morte per sfuggire alle autorità; il dj del gruppo diventa un insegnante di musica di mezza età che prende in simpatia due soggetti poco raccomandabili; e tutti si ritrovano alle prese con un capo della polizia irascibile e una milizia antidroga repubblicana. A completare il tutto, il dibattito sulla lingua gaelica che regolarmente scuote l’Irlanda del Nord. Il film evoca in modo brillante come il gruppo riesce a tracciare un percorso verso il successo facendo solo quello che gli pare. Questo è l’aspetto più emozionante del film, che sprigiona tutta la sua potenza nei momenti musicali (fondamentalmente concerti e registrazioni in studio). Un modo per ricordarci che, al di là delle polemiche e delle provocazioni, è lì che sta tutto.
Lelo Jimmy Batista, Libération

À son image
Victoire Du Bois, Alexis Manenti, Antonia Buresi
Francia 2024, 110’. In sala
Enzo (dr)

Thierry de Peretti, uomo di teatro passato al cinema, nato ad Ajaccio nel 1970, dopo una parentesi poliziesca (Undercover. L’infiltrato) si rivolge di nuovo alla saga corsa che ha caratterizzato i suoi primi due film. Ispirato all’omonimo romanzo di Jérôme Ferrari, À son image rivisita il periodo tra gli anni ottanta e novanta (già descritto in Una vita violenta,del 2017), raccontando la deriva dei movimenti indipendentisti corsi nella lotta armata, nelle vendette e nella criminalità organizzata, aggiungendo un contrappunto femminile che prende forma nel viaggio (incerto e imbronciato) della compagna di un attivista (Clara-Maria Laredo) travolta dai tumulti per amore. Nella ricostruzione della storia politica di un’isola in lotta c’è qualcosa di obliquo. Un lento processo che ci porta a comprendere pienamente quello a cui abbiamo assistito quando ormai è troppo tardi. Qui stanno la malinconia e la verità più profonda del film.
Mathieu Macheret, Le Monde

Enzo
Eloy Pohu, Pierfrancesco Favino
Francia 2025, 102’. In sala

Enzo, sedici anni, figlio di un’ingegnera e di un professore, decide di lasciare gli studi e dedicarsi a un lavoro concreto, manuale, utile. Così ogni mattina lascia la confortevole villa di famiglia per andare in un cantiere dove può imparare il mestiere di muratore. L’emozione suscitata dall’ultimo film di Laurent Cantet (morto nell’aprile 2024) è dovuta alla sua forza intrinseca e a quella di un giovane a disagio. Ma anche alla sua genesi. Scritto da Cantet insieme all’amico e collaboratore Robin Campillo, che alla fine l’ha realizzato e firmato, Enzo, in esilio nel suo mondo, si avvicina a un operaio ucraino per il quale prova un profondo desiderio: è una dimensione assente nell’opera di Cantet ma onnipresente in quella di Campillo. Si ha alla fine la sensazione di assistere alla fusione di due mondi, uno riflessivo e uno sensuale, nel segno dell’impossibile. Louis Guichard, Télérama

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1629 - 29 agosto 2025
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