Solo quando ho preso in mano Rifiuto di Tony Tulathimutte mi sono resa conto di quanto possa essere divertente leggere un libro su un gruppo di perdenti del cazzo. Per loro le cose vanno da schifo: sono degli inetti, soli, ossessionati da se stessi, moralisti e prigionieri delle proprie convinzioni. Ma per noi perversi è un piacere e Tulathimutte, che è il nostro re incontrastato, trasforma la condizione del perdente in uno squallido carnevale tutto suo. Tulathimutte espone il progetto – il suo e quello dei suoi personag-gi – con una precisione diagnostica e iper-analitica; mentre osservi la sua parata di fallimenti e patologie personali, lui è dieci passi avanti rispetto a qualunque reazione tu possa avere. Così non ti resta che abbandonarti al piacere malato di guardare persone già squallide umiliarsi da sole, come quando un tipo sudaticcio e sedicente “alleato femminista” viene respinto da una ragazza e sbotta con un “Grrr… Sono finito di nuovo nella friend zone!”, agitando i pugni verso il soffitto, per poi creare un profilo su un sito di incontri con la frase: “Serissimo, senza compromessi, sul consenso. Fan numero uno dell’aborto”. I personaggi di Rifiuto hanno perso il contatto con il progetto fondamentale dell’essere vivi, lo stesso che si manifesta in ogni pagina di questa raccolta: hanno dimenticato quanto possa essere gratificante, spaventoso e straordinario cercare di comprendere un’altra persona.
Jia Tolentino, The New Yorker
Nella carne racconta la vita di István che conosciamo come un adolescente psicologicamente isolato e taciturno e seguiamo fino a quando diventa un uomo di mezza età, ancora psicologicamente isolato e taciturno. István viene trascinato dalle correnti della vita: una relazione con una vicina più anziana che si conclude in tragedia e violenza, un periodo nell’esercito, il trasferimento dall’Ungheria a Londra, una vertiginosa scalata attraverso le classi sociali britanniche e, infine, un ritorno stoico e malinconico nella città dove è cresciuto. Fondamentale è che nel percorso di István non c’è assolutamente nulla dell’eroe alla ricerca di sé. Szalay tratteggia un uomo sbattuto qua e là da forze fuori del suo controllo, che si tratti dei desideri erotici o materiali di chi lo circonda, delle fluttuazioni dell’economia globale o delle politiche estere interventiste e razzializzate dell’Unione europea. István, così passivo e fatalista, ha qualcosa del viandante esistenziale, un incrocio tra il Meursault dello Straniero di Camus e Forrest Gump. Dal punto di vista stilistico Nella carne è tutto osso. Szalay è sempre stato un maestro della frase scarna e tagliente ma in questo romanzo ha spinto il suo minimalismo ancora oltre. Su circa 330 pagine, l’effetto complessivo è quello di un’austerità controllata. Questo romanzo non parla solo di ciò che non viene detto: parla anche di ciò che è fondamentalmente indicibile, delle cose ineffabili che stanno al centro di ogni vita.
Keiran Goddard, The Guardian
Contadini e signori fu pubblicato per la prima volta nel 1973. La storia comincia nel 1941, con l’occupazione nazista di un piccolo villaggio del Peloponneso chiamato Ialos, un corrispettivo del paese in cui nacque lo stesso autore nel 1938. Contadini e signori non è l’unica opera in cui Kallifatides si occupa di questo fatto storico, ma per quanto il libro possa sembrare un memoir è importante ricordare che al momento dell’occupazione l’autore aveva solo tre anni e quindi la sua memoria degli eventi è in realtà un’eredità raccolta da racconti altrui. Il romanzo s’inserisce in quel sottogenere che racconta l’occupazione nazista in Europa, ma la visione offerta qui è molto particolare. Gli abitanti di Ialos hanno una concezione del mondo tutta loro in cui molti di noi mediterranei potrebbero identificarsi, soprattutto se provenienti da piccoli paesi. La storia comincia il 22 giugno 1941. La voce che i tedeschi stanno per occupare il villaggio spinge tutti gli abitanti a radunarsi all’ingresso del paese. A partire da questo episodio, Kallifatides adotta un tono digressivo per raccontarci le usanze del luogo, le persone che lo abitano, le loro vite e le loro storie. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante dell’opera. L’occupazione nazista rimane sullo sfondo, una presenza il cui ruolo è quasi sotterraneo.
Juan Gaitán, La Nueva España
All’inizio c’è un brano inquietante che anticipa il resto del libro come il fruscìo delle foglie prima di un uragano: “Fece scattare la leva della serratura e premette le mani contro il vetro, lasciando impronte che presto non avrebbero più avuto un corrispettivo vivente”. Per Pamela Schumacher, l’uragano è un serial killer che fa irruzione nella casa della sua confraternita studentesca a Tallahassee, in Florida, nel 1978. Quattro sorelle vengono aggredite. Due sopravvivono, due muoiono. Pamela è l’unica che vede in faccia l’assassino e, quarant’anni dopo, è ancora tormentata da lui e in lutto per le amiche a cui è stata strappata la vita. Il romanzo è pieno di momenti in cui si percepisce quanto il mondo trami contro qualsiasi donna, giovane o meno, che osi essere “brillante” (bright, appunto). C’è sempre qualcosa nell’ombra che maledice ciò che brilla. Jessica Knoll non rende facile il percorso di Pamela (né tantomeno il nostro), ma lo conclude con un urlo catartico, rimasto troppo a lungo soffocato.
Patton Oswalt, The New York Times
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