Nei primi mesi di lockdown per il corona­virus, io e mia moglie abbiamo condiviso una dose giornaliera di video di gatti. Per “condiviso” intendo dire che mia moglie girava il telefono e me lo allungava dall’altra parte del tavolo dicendo: “Guarda!”. Per dieci minuti scrollavamo lo schermo: un gatto faceva il bagno in mezzo alla schiuma, uno derubava un pescivendolo, un altro suonava il piano di fronte a un pubblico di due gatti e un cane. Un pomeriggio, appena rientrato a casa, ricoperto di neve, mia moglie mi ha accolto con Cat lawyer, il video di un avvocato del Texas che aveva lasciato impostato il filtro con la faccia di un gattino durante un’udienza su Zoom. La neve sciolta mi colava dal cappello e aveva bagnato tutto lo schermo, ma non riuscivamo a staccare gli occhi dal video.

Cat lawyer è diventato virale nel febbraio 2021, a un anno dall’inizio della pandemia. Da mesi stavamo provando a prendere un gatto per portarlo a casa, nel nord dell’Islanda. I rifugi per gli animali erano tutti vuoti, per la delusione delle centinaia di persone che speravano nel conforto di un amico felino. Gli allevatori islandesi di gatti non rispondevano al telefono e l’autorità veterinaria locale aveva cominciato per la prima volta a sanzionare gli spacciatori illegali di mici. Per i gatti era l’anno migliore dall’invenzione di internet, o almeno così sembrava.

gabriella giandelli

Oggi, mentre gli islandesi riscoprono la libertà, i gatti devono combattere per la loro.

Ad aprile, Akureyri – la più grande municipalità del nord del paese, con una popolazione di diciannovemila abitanti e di due o tremila gatti – ha deciso di vietare ai suoi residenti felini di vagabondare all’aperto di notte. La vicina Húsavík da anni proibisce ai gatti di uscire di notte e di giorno. Altre città islandesi stanno pensando di adottare provvedimenti simili, viste le discussioni sui gatti randagi che imperversano ormai ovunque, dai forum online alla politica locale. Gli argomenti sono in genere di due tipi. Alcuni – quelli che potremmo definire i naimby (no animals in my backyard, niente animali nel mio cortile) – sostengono che i gatti sono un fastidio e che vanno confinati come tutti gli altri animali domestici. Altri invece vanno oltre l’antropocentrismo: i gatti, spiegano, uccidono gli uccelli e distruggono gli ecosistemi.

Raramente i gatti domestici fanno parte di un ecosistema, e nonostante millenni di addomesticamento, preferiscono ancora consumare il cibo a una temperatura di 38 gradi, la stessa del sangue. Il gatto somiglia molto di più al suo antenato, il gatto selvatico africano, di quanto il cane somigli al lupo. Le sue orecchie, che ruotano grazie al movimento di 32 muscoli, sono in grado di captare quasi all’istante suoni acuti come lo squittio di un topo. Gli occhi, enormi in proporzione alla testa, si adattano alla luce come il diaframma di una macchina fotografica. Attraverso i baffi il gatto ha sviluppato un senso tridimensionale, ha artigli retrattili estremamente silenziosi e può saltare in verticale fino a cinque volte più della sua altezza, quasi senza sforzo.

La presenza di questo assassino dalle movenze eleganti in luoghi in cui gli uccelli migratori si sono adattati a un ambiente privo di predatori può provocare danni irreversibili, come testimoniano vari esempi drammatici in tutto il mondo. Il gatto figura tra le cento specie più invasive al mondo nella lista dell’International union for conservation of nature (Iucn). La sua impronta è ovunque. Numerosi studi collegano i gatti all’estinzione di almeno 63 specie animali – quaranta uccelli, 21 mammiferi, due rettili – e alla potenziale estinzione di altre 587 specie. I danni causati dai gatti, soprattutto se randagi, sono particolarmente gravi nelle isole: i gatti isolani sono responsabili di almeno il 14 per cento delle estinzioni degli uccelli, dei mammiferi e dei rettili in tutto il mondo. In Islanda, un paese in cui c’è un solo predatore terrestre autoc­tono, i gatti hanno contribuito al drastico declino degli uccelli marini e hanno cominciato a prendere di mira anche le colonie in mare aperto.

Forse l’affaticamento della pandemia ci aveva confuso le idee, ma in famiglia riuscivamo a vedere solo gli aspetti positivi della presenza di un animale in casa, a cominciare dalla diminuzione dello stress. Grazie a una serie di circostanze fortunate, alla fine abbiamo trovato una gatta soriana e l’abbiamo chiamata Ronja, come l’eroina delle foreste dei libri di Astrid Lindgren. È adorabile ma, onestamente, è anche un pericolo per tutto ciò che vive (oltre che per le mie caviglie: ogni volta che alzo i piedi dal letto, dal divano o dalla sedia, Ronja lo prende come un invito ad attaccare). Lo sterminio è cominciato dall’interno. Prima sono morte le piante. Poi ha divorato le mosche che entravano dalla finestra. Quando si è sciolta la neve ho aperto la finestra. E Ronja è uscita.

In un mondo che si divide tra canari e gattari, l’Islanda è tradizionalmente una terra di gattari. La città di Reykjavík ha messo al bando i cani per buona parte del secolo scorso – fino al 1984 – sulla base del presupposto che fossero animali da fattoria. I gatti della borghesia cittadina sonnecchiano su marciapiedi geotermicamente riscaldati e fanno amicizia con ospiti famosi in tutto il mondo: nel 2011, il New Yorker ha pubblicato La città dei gatti, un racconto di Haruki Murakami probabilmente ispirato da una visita al festival letterario internazionale di Reykjavík, dove lo scrittore ha potuto osservare da vicino la vivace scena felina locale. Ma il vero colpo da maestro dei gatti è stato convincere gli esseri umani a rendere pubblicamente omaggio al loro potere: ogni dicembre, la città espone la gigantesca statua metallica di un gatto in piazza Lækjartorg di fronte all’ufficio del primo ministro per festeggiare il folcloristico Yule Cat, una creatura dalle dimensioni mostruose che – in pieno spirito natalizio! – tormenta i bambini e se li mangia vivi, soprattutto se non indossano i vestiti nuovi per le feste.

Questa fratellanza con i gatti è antica quanto l’Islanda. I norreni che 1.150 anni fa partirono dall’Europa del nord e approdarono su quest’isola sperduta probabilmente trasportavano dei gatti a bordo delle loro navi. Il primo a posare le zampe su queste rive sassose – chiamiamolo Henry, il gatto vichingo – aveva molto spazio per le sue scorribande. L’Islanda, in semplici termini geologici, è una terra di vulcani che è diventata prima una colonia per uccelli e poi un paese. Quando sono arrivati i gatti, insieme al bestiame, l’unico altro mammifero terrestre era la volpe artica, arrivata via mare dalla Groenlandia, la Russia o il Nordamerica.

La fratellanza con i gatti è antica quanto l’Islanda. Il primo a posare le zampe su queste rive sassose – chiamiamolo Henry, il gatto vichingo – aveva molto spazio per le sue scorribande

Pochi animali selvatici scelgono liberamente la vita domestica. Agli albori dell’agricoltura, il gatto ha accettato di uccidere qualche roditore in cambio dei nostri avanzi e (ammesso che i gatti dell’antichità fossero sonnolenti come quelli moderni) di giacigli in cui dormire per dodici-diciotto ore al giorno. Certo, in passato i gatti erano anche animali da compagnia per gli esseri umani – nell’antico Egitto uccidere un gatto era punito con la morte – ma il loro ruolo era fondamentalmente quello di lavorare nelle fattorie. Questo meraviglioso accordo dura più o meno da diecimila anni.

Ora non ci va più bene.

Secondo i sondaggi, il coprifuoco per i gatti incontra il favore degli islandesi soprattutto nelle zone in cui ci sono case e giardini privati. Le ragioni sono prettamente egoistiche: i gatti sono paragonati agli ubriaconi molesti. Per citare alcuni interventi online: “urina di gatto sparsa per tutto il patio”; “ho sfidato a duello un altro gatto alle tre del mattino, mi ha ammazzato tutti i narcisi gialli”; “la settimana scorsa è entrato in casa e la farmacia ha finito i prodotti per l’allergia ai gatti”. I gattari rispondono con argomenti come “fatevi una vita e provate a tollerare il mondo esterno: i gatti sono deliziosi e girano liberi per l’Islanda da quando lo facciamo noi”.

Le conseguenze ecologiche sembrano un fattore politicamente secondario, com’è apparso in tutta evidenza quando Húsavík, famosa per il film Eurovision song contest: la storia dei Fire Saga, è diventata una delle prime città europee a imporre il coprifuoco totale per i gatti. Il dibattito è cominciato nel 2008, quando la popolazione felina locale (addomesticata, ma senza padrone) ha raggiunto il punto di rottura ed è diventata un problema. Le gatte rimangono incinte già a quattro mesi e danno alla luce da uno a sei gattini per cucciolata. Una femmina è in grado di partorire tre volte all’anno. La gang dei gatti randagi di Húsa­vík, sempre più numerosa, ha cominciato a bazzicare una peschiera alla periferia della città, nutrendosi di salmerini da allevamento. Nel frattempo – coincidenza fortunata per i felini – il deflusso delle acque di un progetto di perforazione geotermica ha creato una palude permanente in cui gli uccelli costieri potevano fare il nido. In primavera è cominciata la nidificazione. E sono arrivati i problemi.

Secondo alcuni studi statunitensi, i gatti selvatici sono responsabili del 70 per cento circa della mortalità degli uccelli. La soluzione più ovvia al problema di Húsavík sarebbe stata abbattere i gatti randagi e mettere al bando tutti i felini nelle zone rurali con maggiore presenza di siti di nidificazione. Gli agricoltori, però, erano contrari. Allora la gente del posto, in maggioranza contraria ai gatti di strada, ha colto la palla al balzo per imporre il coprifuoco all’interno dei confini cittadini.

Menja von Schmalensee, esperta di specie invasive del West Iceland nature research centre, dice che la guerra contro i gatti spesso si basa su motivazioni irrazionali e non scientifiche: “Ci sono luoghi in cui i gatti randagi, e forse anche i gatti in generale, vanno assolutamente banditi all’aperto. In altre zone, invece, queste misure sono fin troppo drastiche. Il mio timore è che le comunità comincino a dare retta a chi grida più forte invece di guardare i fatti”.

In tutto il paese si ripete la stessa storia, soprattutto vicino alle scogliere in cui nidificano gli uccelli.

Nel 2007, Yann Kolbeinsson, armato di computer e macchina fotografica montata su un’asta pieghevole, ha condotto uno studio sulle berte Manx a Heimaey, nell’arcipelago delle isole Vestmann. Le berte Manx sono uccelli marini che nidificano a terra su promontori e scogliere, e passano le ore del giorno in mare. Kolbeinsson ha cercato tracce di nidi calando la fotocamera nei cunicoli. Sbirciando attraverso l’inquadratura in bianco e nero, ha messo per iscritto le sue brevi osservazioni. Quasi tutti i giorni l’esito era lo stesso: “vuoto, uovo, vuoto, uccello, uovo, uovo, uovo, uccello, vuoto, vuoto”. Un giorno, però, Kolbeinsson ha preso nota di una novità assoluta: occhi di gatto. Quattro gattini fissavano dritto nell’obiettivo. Una piccola famiglia selvatica si era stabilita in una casa a poco più di un chilometro dal centro abitato dell’isola, in cui vivevano 4.300 persone.

gabriella giandelli

Non era un buon segno.

Sulle quindici isole che formano l’arcipelago delle Vestmann, le berte Manx hanno creato la loro più grande colonia in Islanda. Uno studio del 1990 registrava una popolazione di seimila coppie riproduttive, oggi apparentemente in declino. La popolazione degli uccelli marini è in calo in tutta la regione, ma per i ricercatori il problema principale è il cambiamento della catena alimentare dell’oceano. In molti luoghi, però, i gatti selvatici stanno aggravando la situazione perché attaccano e mangiano i pulcini.

Gli uccelli nidificano in colonie al largo della costa proprio per evitare i predatori terrestri e per difendersi dagli uccelli più grandi. La procellaria, per esempio, rimane in mare durante le ore del giorno per evitare gli attacchi, ma i gatti vedono al buio e sono attivi di notte, soprattutto quelli randagi. Kolbeinsson osserva che debellarli non sempre è una soluzione semplice perché favorisce la proliferazione di topi e ratti, che a loro volta possono attaccare le uova e i pulcini.

Poi c’è la toxoplasmosi, una malattia provocata da un parassita che molti ospitano già nel loro organismo. Negli esseri umani si trasmette soprattutto attraverso la carne cruda, ma possono diffonderla anche i gatti. Quelli che cacciano prede selvatiche (quindi quelli casalinghi sono innocenti) sono gli unici animali in grado di trasmettere il parassita Toxoplasma gondii attraverso le feci. Le persone in buona salute raramente avvertono sintomi, ma il parassita può danneggiare il feto umano se la madre è contagiata durante o poco prima della gravidanza (consiglio per i proprietari di gatti: pulite la lettiera ogni giorno; il parassita diventa contagioso tra uno e cinque giorni dopo il rilascio). Secondo uno studio del 2005, è presente nel 10 per cento degli islandesi.

Malattie a parte, è stata la natura assassina dei gatti selvatici a spingere Ásmundur Pálsson a entrare in azione dopo la scoperta di Kolbeinsson. Pálsson ha cominciato a sparare ai gatti e a piazzare trappole ai piedi delle colonie degli uccelli “per proteggere le nostre berte Manx”, dice.

Il primo anno Pálsson ha ucciso circa quaranta gatti, ma alla fine ha gettato la spugna: in città c’era sempre qualcuno che sabotava i suoi sforzi mettendo dei sassi nelle trappole. Due anni prima, armato di fucile calibro 22, aveva debellato un’altra specie invasiva, i conigli – l’Oryctolagus cuniculus o coniglio europeo, originario di Francia, Spagna e Portogallo –, ma quando è passato ai gatti per gli islandesi la vita degli animali ha prevalso sulle conseguenze ecologiche.

Un gruppo di volontari dell’isola ha allestito un rifugio per i gatti selvatici e randagi, adottando una tecnica nota come Tnr (trap-neuter-release, cattura-sterilizza-rilascia). Ma i gatti sono cacciatori solitari che si spostano su un territorio molto grande: servono tempo e fatica per portare anche un solo animale al rifugio, ed è praticamente impossibile tenere il passo con la crescita della loro popolazione. In più, una volta rilasciato in natura – sterilizzato e ben nutrito – il gatto è lo stesso predatore di prima, e tutti i gatti selvatici vanno a caccia.

Anche la tendenza a vivere in solitudine rende molto difficile contare i gatti: la popolazione mondiale è stimata più o meno tra i cinquecento e i settecento milioni e per questo motivo il calcolo del relativo danno ecologico ha un altissimo margine di errore. Ogni anno i gatti uccidono tra gli 1,3 e i quattro miliardi di uccelli solo negli Stati Uniti (escluse Hawaii e Alaska). Le cifre si basano su metaricerche che citano dati su grande scala tratti da vecchi articoli che stimano il numero dei gatti randagi e il loro appetito per gli uccelli basandosi, per esempio, sull’analisi gastrointestinale. Applicando una formula simile, uno studio canadese stima che i gatti uccidono tra il 2 e il 7 per cento degli uccelli nel Canada meridionale, dove vive la maggior parte della popolazione del paese. Il primo studio in assoluto in Cina, pubblicato nel 2021, attribuisce ai gatti la responsabilità della morte ogni anno di 2,9 miliardi di rettili, quattro miliardi di uccelli e 6,7 miliardi di mammiferi, senza contare il numero incalcolabile di invertebrati, rane e pesci.

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Questi dati individuano nei gatti la principale causa di mortalità antropogenica tra gli uccelli, più delle collisioni con le finestre e gli edifici. Peggio anche delle auto e dei veleni. Ah, quanto sono teneri i nostri micetti…

Già: perché i gatti sono così affettuosi con gli umani? Ci si strusciano sulle gambe, ci leccano il naso, ci fanno la pasta sulla pancia. È come se per loro fossimo gatti anche noi e, secondo una teoria, è esattamente così. John Bradshaw, che studia il comportamento dei gatti, sostiene che ci vedono effettivamente come gatti più grandi. A giudicare da come i gattini si strusciano contro i gatti più grandi quando vivono insieme, probabilmente ci vedono come dei loro simili leggermente superiori ma un po’ goffi, almeno per i loro standard. In L’incredibile intelligenza del gatto (Newton Compton 2016), Bradshaw smentisce l’idea che i gatti portino le loro prede in casa come regalo al padrone. In realtà, spiega, hanno la tendenza a portarle nei luoghi in cui si sentono al sicuro; poi, una volta che gli diamo da mangiare, si ricorda­no: “Ehi, è vero, la carne selvatica è più cattiva delle crocchette a base di pollo che trovo nella ciotola”.

I gatti uccidono molti più uccelli di quanto comunemente s’immagini, e i padroni spesso tendono a negare l’evidenza, come genitori incapaci di accettare che il loro micio sia un assassino. In uno studio del 2013, un gruppo di ricercatori nel sudest degli Stati Uniti gli ha messo delle kitty cam (cineprese da gatto) sul dorso per monitorarli durante la caccia: solo il 23 per cento delle prede è stato portato in casa. Da proprietario di un gatto, pensavo che i sei o sette uccelli che Ronja aveva portato a casa la prima estate fossero tutti quelli che aveva catturato. Ogni volta era uno shock, ma solo quando ho visto un chiurlo agonizzante sul pavimento del soggiorno ho preso atto del problema. Ronja ha la personalità di un serial killer. Attenzione, non sono tutti così: circa un terzo dei gatti casalinghi è più simile a Garfield, quello dei fumetti, che in genere trova la caccia troppo faticosa. Alcune razze sono più pericolose di altre. Ma per la maggior parte dei gatti, l’istinto dell’assassino c’è o non c’è: tra quelli casalinghi, solo due su dieci sono considerati supercacciatori, e sono così specializzati in quello che fanno che è impossibile pensare di tenerne a freno l’ambizione semplicemente mettendogli un campanellino al collo.

Al negozio di animali, il commesso mi ha detto che il campanello serve sostanzialmente a far vedere che il padrone ci sta provando: nella migliore delle ipotesi, un campanello delle dimensioni di una biglia dimezza l’efficacia del gatto come killer, ma diversi studi dicono che l’effetto è praticamente nullo. I campanelli più grandi funzionano meglio ma sono molto rumorosi e girare per casa scampanellando come una mucca svizzera è fonte di stress per un animale dall’udito ipersviluppato.

Il commesso mi ha consigliato di provare insieme al campanello un collare increspato. Il collare, di stoffa colorata e simile a quello di un clown, è l’antitesi del mimetismo e rende il gatto 19 volte meno efficace, almeno in primavera. Quando arriva l’autunno, però, il collare riduce l’efficacia del gatto solo di tre o quattro volte. I collari, inoltre, spesso possono cadere. Un’altra opzione è usare un lungo bavaglino di plastica colorata, una specie di marchingegno “antipuntamento” che impedisce all’animale di abbassare la testa sul terreno. Poi c’è la dieta chetogenica: uno studio con gruppo di controllo del 2021 su 335 gatti in Inghilterra ha riscontrato che quelli che seguono una dieta priva di cereali e ricca di proteine della carne cacciano il 40 per cento di uccelli in meno rispetto a quelli che mangiano cibo secco di bassa qualità.

Nessuna di queste strategie, però, impedisce ai gatti di attaccare i nidi degli uccelli. Alcuni amici ci hanno suggerito di tenere Ronja al guinzaglio quando è in cortile. L’associazione dei veterinari degli Stati Uniti invita i proprietari di gatti a limitarne i movimenti all’aperto tenendoli in spazi recintati o abituandoli al guinzaglio, che però funziona solo se sono addestrati fin da piccoli. I loro colleghi islandesi hanno espresso perplessità sul coprifuoco. “Mentre alcuni gatti, non conoscendo altro, accettano di vivere in casa, ce ne sono altri che non sopportano il confinamento, evidenziando stress e comportamenti aggressivi”, dice un comunicato del 2021 dell’associazione dei veterinari islandese. L’associazione è comunque favorevole al coprifuoco notturno, soprattutto in primavera, quando gli uccelli fanno il nido, perché è il momento in cui i felini cacciano meglio (le ricerche indicano che questo comportamento notturno riguarda soprattutto i gatti di strada).

Abbiamo deciso di tenere Ronja sempre in casa durante la nidificazione e abbiamo smesso di tollerare le sue fughe. Le ho comprato un sacco di squisiti salatini al pesce per merenda e le ho spiegato che alcuni gatti casalinghi vivono quasi quattro volte di più. Per dimostrarci il contrario ha messo su qualche chilo di troppo.

La nostra specie ha sempre amato e detestato i gatti. Il maneki neko – il gatto giapponese che saluta con una zampa alzata – è considerato un portafortuna; il gatto nero di strada, invece, porta notoriamente sfortuna; all’epoca della caccia alle streghe in Europa i preti cattolici bruciavano i gatti vivi; l’islam li ammira per la loro pulizia. Secondo i sondaggi, in alcune parti dell’Islanda il 50 per cento della popolazione vuole che i gatti non escano mai di casa. Il dibattito è relativamente recente. La gente ha sempre accettato di vedere i gatti girare per il quartiere, non ponendosi il problema finché qualcuno non ha cominciato a mettere in discussione la situazione.

Ora l’atteggiamento è diverso. “Il coprifuoco ha cambiato il modo di vedere i gatti”, dice Röðull Reyr, un proprietario di gatti che vive a Húsavík praticamente da sempre. “Quando un adolescente vede un gatto per strada si sente provocato, come se avesse avvistato un ospite indesiderato nel quartiere”.

In Australia, già due municipalità di Melbourne hanno introdotto il coprifuoco per i gatti. Qualche anno fa, nel 2015, il governo si era dato l’obiettivo di sopprimere due milioni di gatti randagi. Dalla metà del 2015 al 2018, l’Australia ha abbattuto 844mila gatti selvatici con il veleno e le trappole. In Europa, due professori di diritto olandesi hanno scritto su una rivista di diritto ambientale che i gatti di strada violano la direttiva sulla natura, la più antica normativa dell’Unione europea in materia ambientale. Citando gli studi sulle conseguenze dei gatti per gli uccelli, gli autori concludono che i proprietari devono gestire i loro animali e che “i gatti randagi e selvatici devono essere rimossi o controllati quando minacciano specie protette”.

In Islanda lo scorso novembre la città di Akureyri ha votato per introdurre il divieto totale dei gatti all’aperto entro il 2025. I gattari del paese, indignati, hanno minacciato di boicottare i famosi prodotti caseari della città in segno di protesta. A maggio, prima delle elezioni locali, un artista del posto ha fatto campagna elettorale per il Partito dei gatti e ha raccolto parecchi consensi, costringendo la maggioranza uscente ad ammorbidire il divieto, limitandolo a un coprifuoco notturno. Il dibattito va avanti, segnato da un fervore irrazionale.

Le agenzie islandesi per la protezione dell’ambiente, per il momento, hanno evitato di partecipare alla discussione, il che spiega perché il tema è ancora poco esplorato. Il numero stimato dei gatti che vagano per il paese resta un punto interrogativo. Ad Akureyri i proprietari di animali domestici hanno registrato, in conformità alle leggi locali, solo duecento gatti, un numero molto basso. Dati più solidi ci aiutano a capire meglio la domanda fondamentale: vietando ai gatti di uscire, la popolazione degli uccelli in Islanda aumenterà? Gli esperti non sanno dare una risposta certa, dato che la maggior parte dei felini è in città e la maggior parte degli uccelli nidifica in campagna. Senza gatti ci saranno più uccelli fuori delle case degli islandesi? È possibile, ed è qui che la questione investe i nostri valori di fondo: un articolo del 2021 di Ecological Economics, basato sui dati di 26mila cittadini europei, dice che la presenza di uccelli nel quartiere rende i residenti felici come se gli avessero dato dei soldi: un aumento del 10 per cento delle specie di uccelli fa crescere la soddisfazione 1,53 volte di più rispetto allo stesso aumento percentuale del reddito. D’altro canto, accarezzando un gatto rilasciamo ossitocina, la sostanza chimica delle coccole, che ci dà la stessa soddisfazione di quando stabiliamo un legame sociale con i nostri simili. Tenere un gatto in casa è anche un modo per aiutare le persone sole, sempre più numerose, ad avere dei contatti.

“Ronja” è stata la terza parola che mio figlio di un anno ha imparato a dire dopo mamma e dudda (ciuccio in islandese). Un giorno, a dicembre, la gatta è sparita ed eravamo tutti affranti: c’era stata una brutta tempesta di neve e avevo chiuso la finestra prima di andare a letto, pensando che stesse dormendo in soggiorno. La mattina seguente c’erano impronte di zampe nella neve che formavano un cerchio sotto la finestra chiusa. Dopo due giorni senza Ronja, ho cominciato a uscire prima dal lavoro e a girare per la città come un detective dei fumetti, seguendo le impronte sulla neve, dentro i giardini privati e nei parchi. Per due volte ho chiesto a degli sconosciuti che avevano lasciato la finestra del seminterrato aperta di scendere per andare a controllare. Ho allertato tutti i gruppi su Facebook e ho chiesto aiuto a dei bambini. Ho cominciato a pensare che fosse morta, e mi preparavo già a elaborare il lutto.

Amo gli uccelli, quindi forse la perdita di Ronja mi avrebbe fatto sentire meno in colpa. Ma amo anche Ronja, e sono impazzito di gioia quando, dopo sei giorni di assenza, verso le due di notte è entrata da una finestra aperta e si è presentata in camera da letto. Ha lasciato che la salutassimo con goffo entusiasmo per poi spostarsi nel suo angolo di letto. Perciò ora, come molti proprietari di gatti, vivo in uno stato di dissonanza cognitiva quando si parla del mio gatto e dell’ambiente. Di notte, però, la tengo dentro. ◆ fas

Egill Bjarnason

è un giornalista islandese. Questo articolo è uscito sul sito canadese Hakai Magazine con il titolo It’s 10 pm. Do you know where your cat is?

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati