Nella prima scena di Quattro figlie, la voce fuori campo della regista Kaouther Ben Hania presenta Olfa Hamrouni insieme alle sue figlie maggiori, Eya e Tayssir, in una tipica casa tunisina. Qualcosa però non quadra.
Il linguaggio nervoso del corpo delle donne va oltre la semplice timidezza. Rahma e Ghofrane, le due figlie maggiori di Olfa, si sono unite al gruppo Stato islamico (Is). Il film ripercorre la storia della famiglia e gli eventi che hanno portato alla fuga delle due ragazze, circa dieci anni fa, attraverso interviste ai protagonisti e la ricostruzione di scene cruciali messe in scena con l’aiuto di attori professionisti, alcune troppo penose da rievocare per Olfa e le sue figlie.
Dietro il fanatismo
Quello di Ben Hania è certamente un progetto ambizioso, che mette al centro il fanatismo religioso, l’indottrinamento e il ciclo di violenza sociale intergenerazionale in Tunisia, interrogandosi al tempo stesso sulla possibilità di redenzione. All’inizio del film si solleva un velo metaforico: la telecamera compie una lenta panoramica su Olfa che si torce le mani, su Eya e Tayssir, tutte e tre rivolte verso un interlocutore che non si vede. Ci stiamo intromettendo. Poi arriva il ciak, che ci ricorda, con un misto di sollievo e timore, che questo è solo un film. L’assenza di Rahma e Ghofrane proietta un’ombra lunga, resa sul piano estetico dal chiaroscuro. Il film riproduce anche il conflitto nel contrasto tra il rosso della bandiera tunisina e il nero di quella del cosiddetto califfato, con il rossetto di Eya e Tayssir e gli abiti scuri che risaltano su un divano rosso, opposti che si svelano mentre nel film si parla di sorellanza, femminilità, mestruazioni e dell’angosciante sublimazione della morte fatta dall’Is.
Quattro figlie affronta un capitolo delicato della storia recente della Tunisia. C’è stato un momento in cui quello tunisino era uno dei più grandi contingenti del gruppo Stato islamico e tra loro c’erano centinaia di “spose dell’Is”. Per le famiglie colpite e per la società in generale sono ancora ferite aperte, perciò Ben Hania torna indietro nel tempo per esplorare i fattori che hanno spinto le due figlie maggiori di Olfa a unirsi all’organizzazione terroristica. Una testimonianza sulle scelte intime e sulla fallibilità umana senza dubbio potente. Il loro percorso verso l’estremismo è in parte attribuito alla violenza transgenerazionale contro le donne, rievocata in un caso attraverso l’intollerabile ricostruzione delle percosse che Olfa infligge a Ghofrane, adolescente. Ben Hania presenta un’unità familiare distrutta, con figure maschili assenti, a volte predatorie, e il desiderio delle ragazze di ribellarsi ed emanciparsi da una madre prepotente e con la mania del controllo.
Nelle interviste e nelle indicazioni fornite all’attrice che la interpreta, Olfa risulta spesso delirante – nel perpetuare le punizioni fisiche in nome del patriarcato mentre ribadisce la sua autorità di madre single – e reazionaria, poiché si aggrappa all’idea di purezza femminile e alla nostalgia dell’era prerivoluzionaria di Ben Ali. Dice di amare troppo le sue figlie, nello stesso modo in cui chi abusa di solito giustifica i suoi comportamenti offensivi. “È una maledizione”, così commenta il proprio comportamento, quando si rende conto di aver inflitto alle figlie ciò che lei stessa aveva vissuto. Attraverso la complessità delle azioni del suo personaggio, il film si chiede se ci possa essere amore senza distruzione e se una donna araba e musulmana possa vivere liberamente senza essere etichettata come “puttana”. Le figlie ci appaiono in bilico tra l’orientamento laico/occidentale e quello islamista. Passando da un’esperienza traumatica all’altra, il film sposa sostanzialmente una narrazione incentrata sul calvario delle donne arabe e musulmane, presentate come vittime indifese che devono essere salvate da se stesse e dalle loro famiglie intrinsecamente violente. Si dà per scontato che la storia delle ragazze debba farci sentire a disagio. Questa stessa storia racconta un ambiente in cui le donne non possono esistere da sole, tanto meno se provengono da un ambiente a basso reddito; in cui le loro vite devono essere determinate dalle loro interazioni con il patriarcato.
Quattro figlie ha collezionato vari premi, vincendo tra l’altro il premio come miglior documentario a Cannes e il César francese, e ha sfiorato l’Oscar. In un certo senso sembra riprodurre le ossessioni occidentali nei confronti delle donne arabe e dell’islam, ma semplificare, etichettandolo come progressista o conservatore, sarebbe un errore. Ben Hania ha cercato di mostrare l’influenza corruttrice del jihadismo sullo sfondo di una violenza di genere endemica, insistendo comunque sull’islam e sulle difficoltà dell’essere donna nel mondo arabo.
Terreno insidioso
L’uso di una metanarrazione – è un film che racconta la propria realizzazione – sembra avere due scopi: comprendere le vite dei protagonisti e i limiti della capacità di azione attraverso una narrazione autoriflessiva; e affrontare con sensibilità temi traumatici. Quattro figlie si affida alla regista come mediatrice esterna. Per questo, alcune scelte possono destare delle perplessità. Diverse scene dimostrano che il dispositivo creativo può scivolare dall’empatia a terreni più insidiosi.
In una di queste si allude a uno stupro. “C’è qualcosa che mi preoccupa”, dice Majd Mastoura, l’attore che interpreta il partner di Olfa, protagonista di abusi nei confronti delle ragazze. “Non è una cosa da dire davanti alla telecamera”, continua. L’attore è profondamente a disagio e chiede di parlare in privato con Ben Hania, che sentiamo ma non vediamo. Mentre escono, la figlia Eya giustifica la scena: “Ho già rivissuto questa scena con uno strizzacervelli”, dice, giocherellando con un coltello da macellaio tra le mani.
Dietro di lei, la telecamera si concentra sulle lacrime di Tayssir. È necessario mostrare tutto?
Più a lungo cerchiamo Ghofrane e Rahma, le cui testimonianze e punti di vista appaiono estranei, più è difficile per Quattro figlie evitare di replicare gli artifici di una regia voyeuristica. Il dolore della famiglia è esibito come un mero ammonimento sulla sofferenza delle donne e su come i fanatici sfruttino vulnerabilità preesistenti. Ben Hania spiega nell’introduzione del film che le due figlie più grandi sono state indirettamente “divorate dal lupo”, un pericolo non del tutto sconfitto e che forse la regista dovrebbe affrontare attraverso vie più tortuose. Eppure Ghofrane e Rahma sono vive e potrebbero parlare per se stesse. E magari un giorno lo faranno. ◆ gim
Quattro figlie sarà proiettato il 14 giugno al Biografilm festival di Bologna (7-17 giugno). Uscirà nelle sale il 27 giugno.
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Questo articolo è uscito sul numero 1566 di Internazionale, a pagina 87. Compra questo numero | Abbonati