Il quartier generale di questa rivolta globale in solitaria per liberare la scienza si trova in un computer portatile grigio argento posato su un tavolo da pranzo, nell’estremo nordovest della Russia. Sulla parte esterna c’è un adesivo: uno smile fucsia che strabuzza gli occhi e intorno ha una manciata di stelle gialle. I nemici di Aleksandra Elbakyan sono case editrici miliardarie, che le hanno messo alle calcagna i tribunali di tutto il mondo e perfino l’Fbi. L’accusano di essere una ladra, ma secondo lei i veri ladri sono loro, che impediscono alle persone di accedere gratuitamente ai risultati della ricerca scientifica.

Nel 2012 Elbakyan ha fondato Sci-Hub, il sito che gestisce ancora oggi. Entrando su sci-hub.se, su uno sfondo pieno di formule si vedono un muro di mattoni sfondato e una barra di ricerca. C’è un corvo nero con una chiave nel becco e il corpo cosparso di stelle. Di solito per ottenere l’accesso a un articolo scientifico, basta digitarne il titolo, il codice Digital object identifier (doi) che lo identifica o il link nella barra di ricerca e cliccare sull’icona accanto. Su Sci-Hub si trovano quasi novanta milioni di pubblicazioni, più dell’80 per cento di tutti gli articoli scientifici pubblicati. Per leggere questi articoli in genere si paga parecchio, invece su Sci-Hub sono completamente gratuiti. L’idea di Elbakyan è consentire l’accesso a tutto il sapere del mondo, costruendo la versione digitale della biblioteca di Alessandria, utilizzabile da chiunque e in qualsiasi luogo. Probabilmente ogni scienziato, ogni appassionato di scienza, ogni giornalista scientifico ha usato almeno una volta il sito di Elbakyan.

L’incredibile storia di una giovane ricercatrice che mette in piedi la più grande biblioteca scientifica open source del mondo è cominciata ad Almaty, l’ex capitale del Kazakistan. Elbakyan è nata nel 1988, figlia unica di una coppia russo-kazaka, ma non ha mai conosciuto suo padre. È cresciuta in una famiglia tutta al femminile, dove c’erano ben due generazioni di ingegnere sovietiche: la nonna e la madre, specializzate nello sviluppo di sistemi informatici collegati in rete. Elbakyan ha cominciato a interessarsi ai computer già quando andava all’asilo. Aggirò il primo paywall a 14 anni grazie a una tecnica di hackeraggio trovata su una rivista. Imparò anche a sfruttare la connessione a internet con modem analogico, che all’epoca era molto cara, procurandosi le password di altri utenti.

A 16 anni cercò di capire come inserire un’intelligenza artificiale nel tamagotchi con cui giocava. Visto che la letteratura scientifica sul tema costava troppo, imparò ad aggirare i paywall degli ebook e sviluppò un programma che univa in un unico libro i pdf rubati.

Qualche anno dopo, nel 2009, Elbakyan, che studiava sicurezza informatica all’università Satbayev di Almaty, era alle prese con la tesi triennale e con un problema imprevisto: gli studi che aveva bisogno di consultare erano quasi tutti a pagamento, circa trenta dollari ad articolo. Lei aveva bisogno di leggere decine di ricerche. Per la studente di un paese emergente come il Kazakistan, con un reddito medio che oggi si aggira intorno ai 500 euro al mese, si trattava di spendere un patrimonio. Elbakyan passava ore a cercare i titoli su Google con termini di ricerca come “download gratuito”, senza trovare niente. Ma il nuovo mondo digitale in cui era cresciuta non prometteva forse il libero accesso alle informazioni? Così decise di tornare alle vecchie abitudini e aggirare i paywall. Si procurò su internet le credenziali per fare il login nei siti delle biblioteche delle università straniere abbonate alle riviste a cui era interessata.

Senza saperlo aveva trovato la sua missione: risolvere un problema fondamentale nel mondo della scienza. In genere le pubblicazioni recenti sono accessibili solo a chi può permettersi di pagare profumatamente. Secondo Kamila Markram, cofondatrice dell’associazione di editori Frontiers di Losanna, in Svizzera, che s’impegna per facilitare l’accesso alle pubblicazioni scientifiche, ogni anno dieci milioni di persone muoiono di tumore, ma solo un quarto della ricerca in merito è accessibile gratuitamente.

Elbakyan non aveva idea di quanto fosse grande l’industria contro cui stava combattendo: era più grande dell’industria musicale globale

Credenziali rubate

Dopo l’università, Elbakyan ha cominciato a fare la programmatrice freelance, trascorrendo le serate sui forum scientifici. Lì capitava spesso che qualcuno postasse il link a un articolo a pagamento, chiedendo aiuto per leggerlo. Esattamente il problema che aveva dovuto affrontare lei per la sua tesi triennale. Allora Elbakyan ha deciso di rendersi utile: entrava sui siti delle università con credenziali rubate ad altri e scaricava ricerche per gli utenti del forum. Dopo averlo fatto centinaia di volte si è chiesta se il processo non potesse essere automatizzato. Ha passato tre giorni chiusa in una stanza della casa dei suoi con un portatile della madre e ha creato Sci-Hub: sci come scienza e hub come centro. Una volta completato il sito, ha piazzato una falce e martello accanto alla barra di ricerca, lì dove oggi c’è il corvo. Non aveva mai letto Marx, ma aveva ben chiaro che Sci-Hub era un progetto comunista: “Comunismo e comunicazione hanno la stessa radice linguistica”, mi spiega quando la incontro a Murmansk.

Il 5 settembre 2011 Elbakyan ha pubblicato per la prima volta il link a Sci-Hub su MolBiol, un forum in lingua russa dedicato principalmente a questioni di biologia molecolare. Nella prima settimana non faceva che controllare che tutto funzionasse e correggere gli errori segnalati dagli utenti. Poi Sci-Hub è stato scoperto da altri forum e in poco tempo il sistema è arrivato a scaricare circa quaranta pubblicazioni all’ora dalle biblioteche universitarie. Quasi uno studio al minuto. Ovviamente Elbakyan sapeva che quello che faceva era illegale, ma per molto tempo Sci-Hub è rimasto fuori dai radar. Era un sistema piuttosto discreto: dato che tecnicamente si trattava di fare login in biblioteche universitarie o case editrici con account universitari, i responsabili degli atenei credevano che le ricerche fossero scaricate da utenti regolari.

All’epoca Elbakyan non aveva idea di quanto fosse grande l’industria contro cui si stava mettendo: più grande dell’industria musicale globale, che nel 2020 ha registrato un fatturato di quasi 21 miliardi di dollari con superstar come Billie Eilish, Drake e Ariana Grande. Nello stesso anno, con le loro pubblicazioni specialistiche sulla meccanica quantistica e le malattie dermatologiche, le case editrici scientifiche hanno fatturato più di 26 miliardi. È un mercato non solo enorme, ma anche estremamente concentrato e poco trasparente. Una famosa ricerca dell’Associazione delle università europee ha appurato che nel 2019 più del 75 per cento degli abbonamenti delle biblioteche europee è stato sottoscritto con le cinque maggiori case editrici. Una tale posizione dominante sul mercato si chiama oligopolio.

Uno che conosce bene l’ambiente è Martin Vetterli, ricercatore pluripremiato e presidente dell’Epfl di Losanna, prestigiosa università svizzera. Vetterli è uno che sorride sempre e sul suo account Twitter si vede spesso splendere il sole sul lago di Ginevra. Ma quando parla di case editrici scientifiche si rabbuia: “Hanno un modello commerciale scandaloso”. Secondo lui, lo scandalo è su più fronti. Senza neanche saperlo, la collettività viene tassata tre volte: una prima volta perché sono i contribuenti a finanziare la ricerca scientifica; una seconda volta quando gli articoli con i risultati delle ricerche, i cosiddetti paper proposti alle riviste scientifiche, sono revisionati ed editati a titolo gratuito da ricercatori universitari; e una terza volta perché sono sempre i contribuenti a pagare gli abbonamenti delle biblioteche pubbliche a queste costose riviste, per poter accedere ai risultati di ricerche che sono stati loro stessi a finanziare.

Columbus, Stati Uniti, 25 agosto 2020. Nella biblioteca della Ohio state university (Ty Wright, Bloomberg/Getty Images)

Fino alla metà del novecento pubblicare ricerche non era un grande affare, spiega Vetterli. Era un meccanismo in mano alle accademie scientifiche, una sorta di club per soli soci, e funzionava piuttosto bene. Ma dopo la seconda guerra mondiale, il cui esito era stato favorito anche dal contributo dei fisici nucleari, i politici capirono quanto fosse importante la scienza. E così, quando a livello globale gli investimenti nella ricerca cominciarono a lievitare, alcuni uomini d’affari scoprirono una vera e propria gallina dalle uova d’oro.

I primi sono stati il britannico Robert Maxwell e il suo socio Paul Rosbaud. Fondarono una rivista dopo l’altra e comprarono piccole case editrici accademiche prima di dare vita al ricco gruppo editoriale Pergamon Press. I due all’inizio avevano beneficiato anche di un aiuto pubblico. Grazie all’iniziativa britannica, l’azienda che aveva preceduto la Pergamon Press aveva comprato quote della Springer, casa editrice scientifica dominante nel panorama tedesco (nulla a che vedere con l’editore Axel Springer). È da Springer che i britannici hanno imparato a fare soldi con la scienza. Nel 1951 Maxwell, con Ros­baud in veste di direttore scientifico, prese il controllo del gruppo e cominciò a espandersi. Maxwell e Rosbaud fecero in modo che nascessero nuove riviste dove ancora non ce n’erano, andando ai congressi internazionali per convincere gli scienziati a fondarle. Sul lago di Ginevra, località prediletta per i congressi, Maxwell organizzava famose feste allo scopo di entrare in contatto con i ricercatori.

Alla fine ci riusciva sempre: importanti scienziati si convincevano che il loro settore avesse bisogno di una nuova rivista, e Maxwell gli proponeva di assumerne la direzione. Per questi specialisti pubblicare su una rivista significava prestigio e autorevolezza; per gli editori, denaro. Man mano che le riviste diventavano piattaforme privilegiate per il confronto tra le varie comunità scientifiche e arene in cui ricercatori erano in competizione per numero di pubblicazioni, le case editrici vendevano abbonamenti alle biblioteche universitarie, che da qualche tempo ricevevano considerevoli finanziamenti. Una volta affermata, una rivista diventava imprescindibile per la comunicazione tra ricercatori. Questo permetteva agli editori di aumentare continuamente il loro prezzo. Secondo uno studio, tra il 1984 e il 2010 il prezzo medio degli abbonamenti alle riviste scientifiche statunitensi si è moltiplicato per otto. Nel 2014 la biblioteca di Harvard dichiarava che la rivista più cara a cui era abbonata era il Journal of Comparative Neurology: 28.787 dollari all’anno.

Negli anni ottanta internet si affermò innanzitutto nelle università, anche perché rendeva più semplice l’accesso a nuovi risultati scientifici e a nuovi studi. Questo spiega anche la storica promessa del world wide web, la rete creata dal fisico Tim Berners-Lee e dai suoi colleghi del Cern di Ginevra: accesso al sapere per tutti. Finalmente, almeno in teoria, era possibile diffondere gratuitamente il sapere in tutto il mondo. L’imprevisto effetto collaterale di questo sviluppo è stata la crisi che ha colpito un settore dopo l’altro: prima l’industria musicale e il giornalismo, poi la distribuzione cinematografica. Ma non le case editrici scientifiche. In questo caso la promessa della digitalizzazione si è presto rovesciata nel suo contrario. Uno dei primi paywall in assoluto lo introdusse nel 1997 la rivista Science: dieci dollari per accedere da un solo computer per 24 ore. La digitalizzazione ha permesso alle case editrici un controllo sempre più serrato degli accessi: vendevano carissimi pacchetti di abbonamenti digitali alle biblioteche, risparmiando allo stesso tempo sui costi di stampa.

Quando l’ho contattata, la grande casa editrice scientifica Elsevier ha respinto l’accusa di limitare l’accesso alla conoscenza, sottolineando al contrario che la procedura open access era diventata “parte integrante” del suo operato. Il sistema open access prevede che i ricercatori paghino per far revisionare e pubblicare i loro articoli, a cui dopo chiunque può accedere senza ulteriori costi. Il lavoro di una casa editrice scientifica, sostiene Elsevier, consiste nel trasformare le conoscenze scientifiche in un prodotto strutturato, il famoso paper, attraverso il lavoro redazionale. È così che la scienza diventa accessibile. E questo lavoro, che costa denaro, non può essere svolto da Sci-Hub, che distribuisce prodotti già confezionati.

Spesso Sci-Hub è paragonata a Napster, la piattaforma per il download gratuito di file musicali che all’inizio degli anni duemila ha costretto l’industria musicale a ripensarsi radicalmente. In risposta a Napster è nato iTunes, dove scaricare musica è semplicissimo. In seguito, l’arrivo di piattaforme di streaming come Spotify e Deezer ha reso praticamente superflui i file mp3. Assistiamo a un fenomeno simile in ambito cinematografico e televisivo: oggi con piattaforme come Netflix basta un abbonamento mensile per vedere film in streaming in buona qualità e non c’è quasi più nessuno che faccia lo sforzo di scaricarli illegalmente.

Ma in dieci anni di attività Sci-Hub non è riuscita a scatenare una crisi paragonabile a quella innescata da Napster nella musica. Questo perché gli artisti e le case discografiche in fin dei conti dipendono dai soldi del pubblico. Nel mondo scientifico, invece, nessuno dipende dagli incassi delle pubblicazioni: gli scienziati sono pagati dalle università. Attraverso le riviste ottengono una reputazione che poi monetizzano negli atenei.

Spesso gli studenti e i ricercatori usano Sci-Hub per la sua velocità, spiega Rudolf Mumenthaler, direttore della biblioteca universitaria di Zurigo. Mumenthaler osserva con ammirazione che Sci-Hub è “il sito user friendly per eccellenza”: per ottenere la ricerca desiderata basta un clic, non complicate procedure di login. Nella sua voce si sente anche un pizzico d’invidia, perché la sua università spende parecchio per le riviste scientifiche: sono la voce di bilancio più consistente insieme agli stipendi. “Non tutte le università si possono permettere tanti abbonamenti”, spiega. Nei paesi emergenti spesso gli studenti non hanno accesso alle riviste. E nel 2012 perfino la prestigiosa università statunitense Harvard ha dichiarato di non potersi più permettere tutti questi abbonamenti, che diventano sempre più cari. Così ai ricercatori non resta che Sci-Hub.

Denunce e proteste

A un certo punto, però, le grandi case editrici si sono accorte che qualcuno stava sabotando il loro modello aziendale. Così a questa storia si è aggiunto un nuovo capitolo: i numerosi tentativi di far vietare o chiudere il sito. Ma queste azioni l’hanno solo reso più forte, perché le denunce e le proteste delle case editrici non facevano che attirare di più l’attenzione – e quindi sempre più utenti – sul sito di Elbakyan. E poi c’è la questione dei bitcoin.

All’inizio l’unica cosa che interessava a Elbakyan era rendere accessibile la ricerca scientifica, ma ora voleva opporsi a un sistema ingiusto

All’inizio, attaccando Sci-Hub dal punto di vista tecnico, la casa editrice Elsevier non aveva ottenuto grandi risultati. Allora nel 2013 ha contattato PayPal, usato da Elbakyan per raccogliere donazioni per il suo progetto, ottenendo che il servizio di pagamenti chiudesse l’account di Sci-Hub per violazione dei diritti d’autore. A quel punto Elbakyan ha cominciato a raccogliere fondi in bitcoin, criptovaluta allora nuovissima ma già usata nel mondo scientifico. Nel 2013 un bitcoin valeva circa cento dollari, mentre oggi si aggira attorno ai quarantamila. Secondo una stima – contraddetta da Elbakyan – nell’agosto 2017 Sci-Hub aveva una riserva di 67,42 bitcoin, cioè diversi milioni di euro.

A Murmansk Elbakyan non mi ha voluto rivelare quanto possiede esattamente, ma secondo i suoi calcoli, se il valore dei bitcoin non precipita, la sopravvivenza di Sci-Hub è garantita per almeno due anni. Gestire il progetto non costa molto: al massimo seimila dollari al mese per i server, il dominio e sito.

Il 25 giugno 2015 Elbakyan ha ricevuto una strana email. Oggetto: “NOTICE: YOU HAVE BEEN SUED”. Il messaggio era privo di contenuto, a parte alcuni documenti in allegato. Elsevier e altre case editrici l’avevano citata in giudizio. “All’inizio a quella mail non ho neppure fatto caso. Sembrava spam, con quello strano oggetto tutto in maiuscolo”, racconta Elbakyan. Poi però ha capito cosa stava succedendo. “Non avevo paura, sentivo piuttosto una sorta di eccitazione”. Il tribunale era a New York, lei a San Pietroburgo. Ma voleva andare negli Stati Uniti a difendersi, perché si trattava di una questione di principio: l’informazione come diritto umano. La Electronic frontiers foundation, la maggiore organizzazione non governativa per i diritti digitali, si era offerta di aiutare Elbakyan a trovare un avvocato. Telefonando al tribunale ha appreso i capi d’accusa e lentamente ha realizzato di avere scarsissime possibilità.

Allora ha scritto una lettera al giudice Robert W. Sweet, spiegando con franchezza che anni prima aveva rubato una serie di paper per un lavoro di ricerca. “Trentadue dollari sono semplicemente un prezzo folle”, ha scritto. Le case editrici “imbrogliano”, perché obbligano i ricercatori a fornire gratuitamente i loro articoli, sapendo bene che non possono fare a meno di pubblicare su riviste importanti. Nessun autore si è mai lamentato che il proprio articolo sia uscito su Sci-Hub. È solo Elsevier che si lamenta. “Se la legge impedisce la diffusione delle conoscenze scientifiche, allora il problema è proprio la legge”, osserva oggi Elbakyan.

Cambridge, Stati Uniti. Nella Harvard law school (Brooks Kraft, Corbis/Getty Images)

Nel 2017 Elbakyan è stata condannata in contumacia a pagare una multa di quindici milioni di dollari. Il massimo della pena. Il processo ha portato Sci-Hub all’attenzione del mondo: ci sono stati approfondimenti sui grandi mezzi d’informazione, il numero degli utenti del sito è schizzato alle stelle e sono aumentate le donazioni, sia all’inizio del processo sia dopo la sentenza. Elbakyan non ha pagato la multa. E non ci pensa proprio ad arrendersi. Le case editrici hanno provato a far chiudere Sci-Hub con nuove cause, in cui hanno avanzato richieste sempre più dure e impiegato tecniche nuove. Ma Elbakyan non si è mai presentata in tribunale. E non somma più le cifre chieste come risarcimento: ha smesso quando stavano per superare i venti milioni di dollari.

Per sfuggire a chiusure e multe, ormai Sci-Hub deve cambiare continuamente dominio. Mentre in passato i ricercatori per trovare i paper le chiedevano aiuto in rete, ora chiedono su Twitter. Solo che nel gennaio 2021 Twitter le ha chiuso l’account, per incitamento alla violazione del diritto d’autore. Ma trovare il sito resta facilissimo: basta cercare “Sci-Hub” su Goo­gle. Da qualche mese ha anche aperto un nuovo account su Twitter, finché Twitter non se ne accorgerà di nuovo.

Le case editrici, comunque, non si sono arrese, e presto una donna sola si è ritrovata contro un intero settore produttivo. Ma molto lontano, in Russia, qualcosa era cambiato: Elbakyan si era politicizzata. All’inizio l’unica cosa che le interessava era rendere accessibile la ricerca scientifica, ma ora voleva opporsi a un sistema che riteneva ingiusto. Secondo lei andavano abolite le leggi sul diritto d’autore. Per ottenerlo servivano appoggi politici ed Elbakyan voleva presentare Sci-Hub al Partito pirata russo, di cui aveva sentito parlare. Intanto cercava su internet elementi a sostegno della sua idea, trovando ben presto quel che faceva al caso suo: l’articolo 27, paragrafo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, nel quale si legge che “ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

Poi Elbakyan ha imparato il concetto di bene comune: un bene a cui tutti devono avere accesso e la cui utilità non si riduce per nessuno nel caso in cui altri ne fruiscano in egual misura. L’aria pulita è un esempio. Di solito i mercati sono incapaci di gestire questi beni, e perciò generalmente se ne occupa lo stato. Elbakyan ha subito visto dei paralleli con la letteratura scientifica. Perché dovrebbe essere il mercato a regolare un settore che in realtà è di competenza dello stato? Sola contro il mondo, con in testa un’idea vaga di cibercomunismo, Elbakyan ha continuato a gestire Sci-Hub, in perdita da sempre. I banner pubblicitari, che inizialmente alcuni utenti affittavano per simpatia e che portavano pochissime entrate, non le piacevano e li ha disattivati. Intanto gli utenti di Sci-Hub continuavano ad aumentare e nel 2016, poco dopo la causa intentata da Elsevier, il sito registrava circa duecentomila download al giorno, più di due al secondo. Sarebbe bastato un dollaro a ricerca per diventare ricca, si diceva Elbakyan. Ma sarebbe stato contrario ai suoi princìpi. Lei puntava sulle donazioni, non più solo in bitcoin, ma anche in altre criptovalute, molte delle quali negli ultimi anni hanno visto crescere parecchio il loro valore.

Uno scontro tra sistemi

Grazie all’indipendenza finanziaria, Sci-Hub è cresciuto ancora più in fretta. Non era forse una prova del fatto che i suoi ideali erano più condivisi? La lotta tra Sci-Hub e le case editrici si era trasformata in uno scontro tra sistemi che facevano riferimento a ideologie diverse. Oggi Elbakyan sostiene di voler combattere questa battaglia fino a ottenere una modifica della legge: “Finché non vivremo nel comunismo, ci sarà bisogno di Sci-Hub”.

Ma con la parola d’ordine comunismo Elbakyan si è attirata i sospetti di molti. Nel dicembre 2019 il Washington Post titolava: “Il ministero della giustizia indaga sulla fondatrice di Sci-Hub per sospetta collaborazione con i servizi segreti russi”. Finora non è stato possibile scoprire altro sullo stato delle indagini. L’articolo si basava su “fonti ben informate”. Agli occhi di Andrew Pitts si tratta di accuse più che plausibili. Pitts è un influente rappresentante delle case editrici scientifiche e una sorta di ministro degli esteri del settore. “Nessuna persona ragionevole può credere alla storia della povera ragazza kazaka”, sostiene. Non ha senso neanche l’argomentazione secondo cui Sci-Hub consentirebbe l’accesso alla scienza: “Noi lavoriamo molto per migliorare il flusso di informazioni verso regioni e istituzioni senza risorse”. Pitts dice che, attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e la piattaforma Research4Life, dai paesi poveri è possibile accedere gratuitamente al 99 per cento delle ricerche scientifiche.

Solo che si tratta di programmi riservati ai contesti più poveri. Nei paesi emergenti molte università non si possono permettere l’accesso, ma restano escluse dai progetti d’aiuto. Secondo Pitts la colpa è loro: “Il Kazakistan è piuttosto ricco, ma non finanzia le università. I soldi vanno a finire nelle tasche di pochi”.

Pitts ritiene anche che il gran numero di richieste a cui risponde Sci-Hub non sia la prova di una reale condizione di bisogno. “Riceve milioni di richieste al mese dagli Stati Uniti, e da lì chiunque può accedere agli articoli attraverso le università”. Il fatto è che Sci-Hub è un cosiddetto one-stop-shop, cioè un sito sul quale basta un clic per ottenere quello che si cerca. “È costruito in modo fantastico e alla gente interessa solo la comodità”.

Sono anni che Pitts si occupa di
Sci-Hub. Alla fine di novembre del 2021 mi ha detto che aveva appena partecipato a degli incontri sul tema a New York. Mi ha raccontato che erano in corso indagini dei servizi segreti sotto la direzione dell’Fbi. Sarebbe stato coinvolto anche l’Mi6, i servizi segreti esteri del Regno Unito. “Quelli indagano solo in presenza di sospetti fondati”, ha sottolineato.

Per proteggere il sito dagli attacchi informatici, Elbakyan si appoggia a un’azienda che lavora per la banca centrale e l’esercito russi

Secondo Pitts, Sci-Hub è un’operazione del governo russo e del Gru, il servizio segreto militare di Mosca, ritenuto responsabile anche degli attacchi hacker durante le elezioni statunitensi. “È un cavallo di Troia pensato per attirare i cervelli migliori del mondo, tracciarli, appropriarsi dei loro dati e usarli per mettere le mani sui risultati delle ricerche scientifiche”, sostiene Pitts. “Per esempio, com’è possibile che a metà del 2020 le migliori università del mondo si siano adoperate in tutti i modi per sviluppare il primo vaccino contro il covid-19 e che all’improvviso la Russia sia stata più veloce e abbia prodotto il vaccino Sputnik, basato proprio su queste ricerche segrete?”. Con l’inizio della pandemia di covid-19, ha detto, gli account piratati da Sci-Hub avrebbero permesso di sottrarre anche un gran numero di dati dai laboratori medici.

Ma Pitts non fornisce prove di quanto afferma, perché a quanto pare le biblioteche e le università non le hanno volute rendere pubbliche. “Io però le prove le ho viste e se sapeste cosa c’è in ballo rimarreste sconvolti”, afferma. “Forse basta considerare l’enormità dell’operazione Sci-Hub: mettere a disposizione questa mole di dati costa milioni e milioni al mese. Fatevi un po’ di conti”.

E noi li facciamo. Insieme a Felix Marthaler, esperto di sicurezza noto tra i programmatori di Zurigo, esaminiamo il codice di Sci-Hub per analizzare la struttura del sito. “È tra le cose migliori che offre la rete”, dice Marthaler. Se lei stessa non lo avesse pubblicamente rivendicato, non sarebbe possibile identificare Elbakyan come la persona che gestisce Sci-Hub. In altre parole, è impossibile verificare se i server siano davvero suoi o di qualcun altro. Il sito usa Yandex Metrica, la versione russa di Google Track­er che raccoglie informazioni sugli utenti, come la provenienza, il genere o l’età. Elbakyan non pensa che questi dati siano particolarmente importanti, ma sa come proteggere i suoi, visto che ha messo i server di Sci-Hub­ dietro un muro di protezione invalicabile. Usa NJalla, un servizio sviluppato da Peter Sunde, uno dei fondatori del Partito pirata, che permette di nascondere il proprietario di un dominio.

Secondo Marthaler, i costi che Elbakyan dichiara di sostenere per mettere a disposizione 90 milioni di pdf sono realistici. I cento terabyte necessari a Sci-Hub in un normale negozio online costano più o meno 27mila euro, doppio backup incluso. Per mettere questi dati a disposizione in tutto il mondo bastano cinquemila dollari al mese. Ma c’è una cosa che salta all’occhio: per proteggere il sito dagli attacchi informatici, Elbakyan si appoggia alla Ddos-Guard, un’azienda che lavora per la banca centrale e l’esercito russi, e che teoricamente sa tutto quello che avviene sul sito. Nel codice stesso, però, non si trovano prove concrete di un’infiltrazione delle autorità russe e nemmeno del fatto che siano state loro a costruire il sito.

Alessandria, Egitto, 23 novembre 2019 (Frédéric Soltan, Corbis/Getty Images)

A Murmansk Elbakyan ci spiega di non essere mai stata contattata dai servizi segreti russi. “E per quale motivo poi?”, dice. “Anche così credo che Sci-Hub abbia aiutato tanti ricercatori russi”. Gestisce i server di sua proprietà in località segrete e per mantenerne l’indipendenza non usa servizi di cloud computing. Non fornisce informazioni al Gru. Ma, soprattutto, Sci-Hub non è un progetto particolarmente complesso né particolarmente costoso. Negli ultimi dieci anni Elbakyan ha automatizzato tutto e ora passano settimane intere prima che debba mettersi a risolvere problemi o ad adattare il sito a nuove esigenze. Accuse come quelle mosse da Pitts la fanno arrabbiare, perché le sembrano sessiste: “Fa queste domande perché sono una donna? Pensa che io non sia in grado di farcela da sola?”.

Grande sensibilità

Nel dicembre 2020 Elbakyan ha reso noto su Twitter che le case editrici Elsevier e Wiley, insieme alla American chemical society, hanno promosso un’azione legale contro di lei in India per ottenere che l’accesso a Sci-Hub sia impedito in tutto il paese. La comunità scientifica indiana si è allarmata molto, anche perché le case editrici non hanno dimostrato grande sensibilità nella scelta del momento per fare causa: l’India è alle prese con la pandemia di covid-19 e per molti medici è essenziale accedere agli studi sull’argomento.

L’India non è tra quei paesi che offrono condizioni economiche agevolate per accedere alle pubblicazioni scientifiche. Il tweet di Elbakyan è stato letto anche da Nilesh Jain, un giurista di 28 anni che proviene da un’umile famiglia contadina ed è riuscito a frequentare una delle migliori università del paese. Oggi lavora presso il ministero della salute e della famiglia. Per gli studi di Jain, Sci-Hub è stato fondamentale: la biblioteca principale della sua università d’élite, la Delhi university di Nuova Delhi, metteva a disposizione degli oltre 25mila studenti solo sei computer – la metà dei quali era quasi sempre rotta – che davano accesso alle banche dati delle case editrici scientifiche. Jain ha contattato Elbakyan per offrirle il suo aiuto.

Non è stato l’unico: Elbakyan ha ricevuto decine di offerte d’aiuto da ricercatori e giuristi indiani che la esortavano a difendersi, a passare all’azione. Prima di allora Elbakyan non si era mai presentata ai processi contro di lei o contro Sci-Hub, ma questa volta, spiega, è successo qualcosa. “Ho cominciato a mettere in contatto tra loro le persone che mi avevano offerto un aiuto”, ci racconta a Murmansk.

Nilesh Jain è riuscito ad avere in squadra il famoso esperto di copyright Rohan K. George e poi anche Gopal Sankaranarayanan, uno degli avvocati più noti del paese. Ma la situazione era complessa: la pandemia, il coprifuoco, le vacanze e l’alta corte indiana che pretendeva di ricevere documenti con la firma di Elbakyan autenticata dal notaio e per di più per posta. Nel gennaio 2021, proprio all’ultimo momento, la squadra di Jain è riuscita a presentare una memoria difensiva di 2.900 pagine.

Secondo Jain, visto l’interesse dell’opinione pubblica, Sci-Hub potrebbe vincere la causa, anche perché dall’approvazione del Copyright act del 1957 il sistema giuridico indiano, particolarmente progressista in materia di proprietà intellettuale, prevede eccezioni per motivi di studio e ricerca. Esiste perfino un precedente: case editrici come la Oxford University Press avevano fatto causa a una copisteria che si era difesa sostenendo che riprodurre e diffondere materiali coperti dal diritto d’autore fosse legale se fatto a scopo di studio o ricerca. Nel 2017 le case editrici avevano rinunciato alla causa. Questa linea difensiva potrebbe funzionare anche per Sci-Hub? “È possibile”, sostiene Jain.

In India
Venti udienze, nessun verdetto

◆ Nel dicembre del 2020 tre importanti case editrici scientifiche – Elsevier, Wiley e American chemical society – si sono rivolte al tribunale di New Delhi, in India, per avviare un’azione legale contro Aleksandra Elbakyan, la fondatrice di Sci-Hub, e la libreria online LibGen. L’accusa è di aver violato il diritto d’autore ospitando, riproducendo e distribuendo contenuti senza averne l’autorizzazione. Le case editrici chiedono al governo indiano di bloccare l’accesso a questi siti. Nell’ultimo anno ci sono state più di venti udienze, ma non si è ancora arrivati a un verdetto che, secondo gli esperti, potrebbe essere influenzato da un precendente del 2016, quando un tribunale indiano stabilì che è legale fotocopiare libri di testo per motivi di studio. Nature


Jain ha anche convinto Elbakyan a presentarsi al processo. E per dimostrare la sua buona volontà, lei si è dichiarata disponibile a non caricare nuovi paper su Sci-Hub per tutta la durata del processo stesso. Ma le udienze sono continuamente rimandate e ora è appena stato sostituito il giudice. Il caso sta diventando un processo epocale: il sostegno per la squadra di Jain è sempre più grande. Un gruppo di studenti ha dichiarato che soprattutto dall’inizio della pandemia senza Sci-Hub praticamente non avrebbero più potuto studiare, perché andare in biblioteca era diventato impossibile. Un gruppo di autorevoli ricercatori indiani si è rivolto al tribunale: “Senza Sci-Hub la ricerca in India collasserebbe”.

Il caso ha un’eco che va ben oltre i confini indiani. Anche il premio Nobel statunitense Randy Schekman ha dichiarato al Süddeutsche Zeitung Magazin che si unirà a Elbakyan. Lawrence Lessig, il giurista più rinomato al mondo in materia di diritto informatico e professore ad Harvard, si dimostra invece scettico sulla natura decisiva di questo processo che, visti i tempi della giustizia indiana, potrebbe durare anche dieci anni. Quanto più a lungo Elbakyan si attiene all’accordo e non carica nuovi paper, tanto più accumula ritardi rispetto alle tradizionali banche dati scientifiche. Ogni anno escono ben quattro milioni di nuovi articoli. “Se dovesse passare troppo tempo”, dice Elbakyan, “ricomincerò a caricarli”. Ma questa pausa ha un lato positivo: “Ho molto tempo libero”. Da dedicare, per esempio, a immaginare come andare avanti. Per ora ha ottenuto molto: ha costruito un sito che oggi registra 500 milioni di download all’anno. Ormai Sci-Hub ha più articoli delle due banche dati scientifiche commerciali più affermate al mondo, e questo consente a Elbakyan di arginare il potere di mercato dei grandi editori.

Proprio negli Stati Uniti e proprio durante la presidenza di Donald Trump l’approccio di Elbakyan ha ottenuto la conferma più grande. Su pressione di numerose ricercatrici e ricercatori, nel 2020 la Casa Bianca ha chiesto di rendere accessibili migliaia di studi sul covid-19. Vista la gravità della crisi, la libera circolazione del sapere era diventata più importante dei profitti delle case editrici. Il risultato è stato che su ricerche e studi scientifici si sono aperte discussioni senza precedenti, anche con la partecipazione dei non addetti ai lavori. Per quanto si faccia un gran parlare di complottisti di ogni tipo, in generale la fiducia nella scienza negli ultimi anni è cresciuta in modo considerevole.

In un certo senso Elbakyan ha vinto, in un altro ha perso. I paper sono stati resi pubblici e, grazie a lei, la scienza è decisamente più indipendente. Ma lei stessa sembra essersi resa superflua, perché la rete è piena di progetti che copiano Sci-Hub e ne mettono a disposizione le banche dati. Il cambiamento di paradigma è ormai inarrestabile, ma cosa dire di lei? Inseguita dai servizi segreti e dagli avvocati, Elbakyan non ha più una residenza fissa, cambia continuamente città. Non esce più dalla Russia e ai giornalisti dice di temere per la sua vita.

Da quando è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, ha un ulteriore motivo per sentirsi minacciata: nelle ultime settimane è stata attaccata dai sostenitori della guerra di Vladimir Putin. E anche dai pacifisti, che le chiedono di chiudere Sci-Hub in Russia come forma di sanzione. Elbakyan non vuole punire gli scienziati per le azioni assurde di un “vecchio”. E in fondo lei è questo: sola contro il mondo, solo dalla parte della scienza.

Come ci si sente a dedicare dieci anni della propria vita a qualcosa che si considera un servizio alla collettività e riceverne in cambio tante rogne? “In tutta la mia vita non ho ricevuto né riconoscimenti né premi”, dice Elbakyan. “Per una volta non mi dispiacerebbe riceverne uno. Il Nobel non sarebbe male”. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati