“È finita”, ripete, incredula. La donna non vuole dire il suo nome. Non nasconde però di essere la moglie del proprietario di una libreria che aprì decenni fa. “Sicuramente più di quarant’anni”, cerca di ricordare, senza riuscirci. All’ingresso sono sistemati dei giornali. In fondo ai gradini che portano dentro c’è una sensazione di vuoto. Negli ultimi nove mesi il marito, malato, ha affidato a lei la libreria. “Giusto il tempo per andarsene senza voltarsi indietro. È cambiato tutto”, assicura, indicando verso l’esterno con un gesto della mano. Squilla il telefono: “No, non ce l’abbiamo”, si scusa. Riaggancia e resta in silenzio. Poi alza le spalle. “È finita”, dice rassegnata. Alla fine di febbraio Way In, libreria simbolo di via Hamra, ha chiuso.

A pochi passi di distanza, nella strada che un tempo era una delle più frequentate di Beirut, Fadi Nassar aspetta clienti che per lo più non arriveranno. Fondato da suo padre nel 1953, Glamour, un piccolo negozio di intimo, non ha mai abbassato la saracinesca. “Neanche durante la guerra”, assicura lui. Da allora, “la strada ha perso il suo fascino”. Dopo la morte dei genitori Nassar, che faceva l’ingegnere, ha preso in mano l’attività. “Prima della guerra andava tutto bene. Durante la guerra, le cose andavano meno bene. Dopo è stato meglio”, sintetizza. “Ma questa crisi…”. Sessantenne, poco loquace, di una cosa è certo: non importa cosa riserva il futuro ai libanesi, lui resterà qui. “Sperare è umano. Le cose cambieranno”.

Nel suo negozio di abbigliamento Dallas, “costruito su un campo di melanzane” circa settant’anni fa, Zouhair Itani afferma: “Questa crisi è peggio della guerra”. Secondo Itani dall’inizio del tracollo economico hanno chiuso una quarantina di negozi, sui circa cento rappresentati dall’associazione commercianti di Hamra, di cui lui è presidente. Itani ha una certa età, la sua memoria è quella del quartiere: “Durante la guerra i soldi circolavano, e quando si smise di combattere erano poche le attività che avevano chiuso definitivamente. Tra uno scontro e l’altro, Hamra era viva”. Sono passati poco più di due anni e mezzo dall’inizio della crisi economica del Libano e nella via il futuro sembra ricongiungersi al passato.

Artisti e spie

Tanti ricordano la sera al teatro Piccadilly in cui tra il pubblico in sala era seduta la cantante libanese Fairouz. Vedendola, la diva Dalida dimenticò le parole, si mise a ridere e la salutò dal palco. Era il 1973. Da dieci anni il Libano viveva la sua “epoca d’oro” e ad Hamra, gli Champs-Élysées di Beirut com’era chiamata la strada allora, “vivevamo con le porte aperte ed era sempre pieno di gente”, ricorda Zouhair Itani. Alcuni anni prima, nel 1969, Nidal Achkar, la gran dama del teatro libanese, aveva recitato la sua opera Majdaloun davanti ai tavoli del Horseshoe, il primo caffè di Beirut all’aperto, sfidando il divieto delle autorità. “Uno dei momenti più forti della Beirut intellettuale”, osserva Samir Kassir nel suo libro Beirut. Storia di una città.

“Era la strada più effervescente di Beirut”, racconta Nidal Achkar. “Tutti ci andavano. Si trovavano persone di ogni tipo”

“Era la strada più effervescente di Beirut”, racconta Nidal Achkar. “Tutti ci andavano. Si trovavano persone di ogni tipo”. Casalinghe, giocatori d’azzardo, politici, uomini d’affari, artisti, giornalisti, prostitute. La gente faceva la fila davanti ai dieci cinema che in poco tempo erano spuntati lungo la strada: El Hamra, Eldorado, Strand, Colisée. Le celebrità del mondo arabo, e non solo, venivano qui a divertirsi. Gli organismi internazionali ci stabilivano i loro uffici regionali. Nel 1964 la Banque du Liban aprì la sua sede all’ingresso del quartiere, che ha lo stesso nome della strada principale. I turisti cambiavano le banconote nei tanti uffici che punteggiavano la via. Le celebrità venivano a stare nei grandi alberghi della zona. La Parigi del Medio Oriente era al suo apice.

Hamra è un “centro di gravità della Beirut snob”, scriveva Gérard de Villiers nella prima opera della sua serie di romanzi Sas, ambientata in Libano. È il luogo d’ispirazione perfetto, dove si danno appuntamento spie e “signorine alla moda in stile europeo”. Uscito nel 1972, il libro di de Villiers s’intitola, come un presagio, Morte a Beirut (Mondadori 2017, formato ebook). Perché, dietro i lustrini, il caos è latente. Trent’anni dopo la guerra, “è finita”, ripetono molti abitanti. “Hamra è lo specchio della crisi”, dice Guillaume Boudisseau, geografo e autore di una tesi sul quartiere.

Senza scelta

Circondato dai giornali, l’edicolante abbassa il volume della radio. La pila di vecchi cd basterà a tenerlo impegnato per tutto il giorno. Dice di chiamarsi Hassan ma, diffidente, non vuole dare il suo cognome. I chioschi di via Hamra ricordano ai libanesi i venditori ambulanti che erano sparpagliati lungo i marciapiedi e mostravano la merce nei cofani delle auto. “Dei nove chioschi installati dal comune alla fine del conflitto, ne sono rimasti forse tre”, dice Hassan. Riesce ancora a vendere qualcosa? La domanda è quasi retorica: “Quello che interessa oggi alle persone è avere abbastanza soldi per mangiare”.

All’angolo di una profumeria, su un muro, sono disegnati un uomo e suo figlio. Chiedono l’elemosina, seduti sul marciapiede. È un’opera dell’artista statunitense Brady the Black, del collettivo Art of change, che ha sede nella via. Un giovane s’inginocchia per fotografarla quando una bambina gli si avvicina, porgendo il palmo della mano. Incuriosita, si ferma, si china e, in una triste corrispondenza che lei è troppo piccola per cogliere, guarda nell’obiettivo. “Siamo tutti mendicanti”, c’è scritto nel murale.

“È una strada organica”, afferma Abdel Rahman Zahzah, socio del caffè ristorante T-Marbouta, che nel 2006 ha occupato uno spazio nel complesso commerciale di piazza Hamra. “I problemi della strada rispecchiano quelli del paese”. Dal 2011, all’inizio del conflitto in Siria, l’arrivo di profughi ha offuscato il volto del quartiere. Una cosa che si dice sottovoce. Lentamente ma inesorabilmente la demografia di questa parte della città è cambiata, sostengono commercianti e clienti. Dopo la crisi, però, i libanesi si sono uniti ai profughi siriani che fanno l’elemosina per strada. “Persone povere o della classe media”, sottolinea Zahzah, “che non hanno altra scelta”.

Via Hamra non è certo l’unica in cui si mendica in un Libano in crisi, dove secondo l’Onu dal settembre 2021 l’82 per cento della popolazione vive in uno stato di “povertà multidimensionale”. Ma la funzione commerciale di questa dritta arteria rende il fenomeno più visibile. Abbastanza per spaventare una certa clientela, che preferisce rivolgersi ai centri commerciali. Ma non è una novità. Mentre all’inizio del millennio il quartiere era il posto ideale per i marchi locali e internazionali, la via dello shopping non ha retto il confronto con i centri che si sono rapidamente sviluppati negli anni successivi, spiega Guillaume Boudisseau, che è anche consulente per la società immobiliare Ramco.

Dall’inizio della crisi i marchi internazionali hanno disertato la strada. “Alcuni franchising dovrebbero tornare per rigenerare il quartiere”, sostiene il consulente. Ma non succederà presto. “Quasi metà della strada”, spiega Boudisseau, è occupata da attività che ancora beneficiano dei vecchi canoni di affitto. Per evitare che un proprietario trovi dei motivi per sfrattarli e ottenere, con un nuovo contratto, un canone più alto, “i commercianti aprono tutti i giorni, anche se non ricevono più neppure un cliente”, continua. Alcuni fanno le valigie e a volte sono sostituiti da altri commercianti. Ma, anche se pagati in dollari, “i nuovi affitti non sono mai stati così bassi”, nota ancora Boudisseau. “Le ultime transazioni valgono la metà o addirittura un terzo di quelle precedenti. Prima della crisi, qui si vendeva a circa mille dollari al metro quadrato. Oggi siamo sui trecento o quattrocento”.

Al servizio della comunità

Invece, quelli che non si sono mai mossi dalla strada sono i cambiavalute. Dopo che la lira libanese ha perso più del 90 per cento del suo valore dall’inizio della crisi e sono state imposte restrizioni bancarie sui conti in valuta estera, gli agenti di cambio sono diventati interlocutori imprescindibili per i libanesi, destreggiandosi tra la lira e il dollaro. Ad Hamra “solo negli ultimi sei mesi hanno aperto tre nuovi uffici di cambio”, conferma Boudisseau. Anche se il tasso di cambio sul mercato parallelo si è stabilizzato da settimane intorno alle 20.500 lire per dollaro, il costo della vita non è diminuito. Come ovunque in Libano, l’esterno a volte si mostra ostile, ma la battaglia quotidiana è interna.

“Siamo in modalità sopravvivenza”, dice senza mezzi termini Abdel Rahman Zahzah. Il caffè ristorante T-Marbouta non è alla sua prima crisi. “Dovevamo aprire nel luglio 2006. Il giorno in cui avremmo ricevuto la nostra prima macchina per il caffè direttamente da un campo palestinese nel sud del Libano, gli israeliani hanno cominciato a bombardare la regione”, racconta. Trasformato in un centro d’accoglienza per i profughi e per le organizzazioni umanitarie, il ristorante rientra nella lista dei luoghi di “resistenza civile”, spiega il ristoratore. Così, fin dalla sua inaugurazione, T-Marbouta si è affermato come “uno spazio semipubblico al servizio della comunità”.

Da sapere
Ricchezza perduta
Pil pro capite in Libano, variazione rispetto all’anno precedente, percentuale (fonte: economist)

In tempo di crisi, per poter andare avanti conservando la sua clientela preferita, Zahzah ha scelto di “mantenere dei prezzi onesti, riducendo i profitti e tenendo a bada le spese”. E aggiunge: “Bisogna salvaguardare questo legame con la comunità perché fa parte della nostra identità. Non è un caso se abbiamo aperto ad Hamra”. Ricorda i caffè all’aperto degli anni sessanta “che erano spazi culturali, pubblici, dove si discuteva apertamente”. E afferma: “Noi seguiamo quella tradizione”.

Da sapere
La missione dell’Fmi

◆ Il 30 marzo 2022 il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha cominciato una nuova missione di due settimane in Libano, con l’obiettivo di arrivare a un accordo per risolvere la crisi economica del paese. L’Fmi ha più volte ribadito che il suo sostegno finanziario è vincolato alle riforme che il governo libanese deve realizzare per garantire la sostenibilità del debito, ricostruire il settore finanziario, riformare le imprese pubbliche e contrastare la corruzione. Come base di negoziazione i politici libanesi hanno concluso di valutare le perdite del settore finanziario in 60 miliardi di euro. È la prima stima dall’inizio della crisi economica del paese nel 2019, che la Banca mondiale ha definito una delle peggiori a livello mondiale dal 1850. In queste condizioni i libanesi si preparano alle elezioni legislative del 15 maggio. Sarà la prima volta che voteranno dopo la mobilitazione popolare della fine del 2019 contro il sistema politico e l’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020, in cui sono morte più di duecento persone. Afp, Al Jazeera


Come T-Marbouta, il teatro Al Madina è una “traccia di quello che fu il quartiere”, osserva Guillaume Boudisseau. Nel 2004 il contratto di locazione del teatro che Nidal Achkar aveva aperto a Clemenceau, appena a nordest di Hamra, sarebbe scaduto. “Sono andata contro l’opinione di tutti”, racconta Achkar. La zona aveva ancora problemi infrastrutturali, in particolare di elettricità e tubazioni, ma “io dissi: ‘Andremo ad Hamra’”. Dopo un anno di ristrutturazione, il teatro Al Madina aprì i battenti e via Hamra tornò al centro della scena.

In questo Libano sul filo del rasoio, l’inaugurazione del teatro fu rinviata a causa dell’omicidio del politico e imprenditore Rafiq Hariri, ex primo ministro del paese. Quaranta giorni dopo, “pensavo che la sera dell’inaugurazione saremmo stati solo noi con pochi amici”, ricorda Achkar. “Ma improvvisamente la gente arrivò. Fu incredibile”. Achkar, un’irriducibile del quartiere, è convinta: “Hamra vibra ancora”. Sono passati gli anni, con i loro “alti e bassi”. Allo specchio, però, il riflesso della via è sbiadito. Con il prolungarsi della crisi, la pioniera del teatro libanese è incerta sul futuro del quartiere: “Hamra è la nostra memoria. Il futuro sarà sempre qui”. Ma sul presente anche lei ammette: “Via Hamra è finita”.

In cerca di turisti

Tra le rovine del teatro Piccadilly non canta più nessuno. Gli uffici sono stati svuotati e i cinema non esistono più. Il caffè Horseshoe è scomparso da tempo, “mangiato dalla guerra”, come disse un cliente nel 2000. Al suo posto, sovrastato da un murale che ritrae la defunta diva libanese Sabah, ha aperto Rossa, un altro caffè all’aperto. Ma quello spirito non c’è più. Nel luglio 2020 un uomo si è suicidato all’ingresso dell’edificio che ospitava il cinema Saroula. “Non sono un miscredente”, aveva scritto su un foglio attaccato al petto, accompagnato dalla sua fedina penale pulita. Quel giorno, la crisi ha segnato un punto.

Anche se è triste, la strada resta comunque vivace. La sera la gente passeggia alla luce dei neon e dei fari delle auto. Qualcuno chiacchiera sul marciapiede mentre fuma il narghilè. Altri giocano a backgammon sulla terrazza di un bar. Alcune coppie guardano le vetrine. Gruppi di adolescenti trasformano la strada in un campo di gioco. Ristoratori e commercianti squadrano i passanti alla ricerca di turisti stranieri. Lo stesso fanno i mendicanti. Poi l’oscurità invade il quartiere, manca l’elettricità. È ora di tornare a casa. All’inizio della via un semaforo mostra i tre colori tutti accesi. Avanzare, aspettare o fermarsi? Gli automobilisti sembrano esitare. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati