Ci trovavamo in mezzo all’oceano su una nave gigantesca, la James Owen. Qualche ora prima, mentre scendeva la notte, ci eravamo raccolti come un’enorme mandria di mucche irrequiete, preparandoci a salire a bordo. Il chiacchiericcio era assordante. Prima d’imbarcarmi avevo guardato i volti frastornati intorno a me. Alcuni stavano partendo da soli. Altri seguivano i familiari che erano già arrivati nel Natal sani e salvi, e li avevano chiamati. All’una di notte stavamo per togliere l’ancora e mi dispiaceva che i miei genitori non avrebbero saputo niente di dove fossi. Eppure ero euforica, anche se avevo sentito storie di navi disperse in mare. Altri lavoratori erano naufragati o bruciati vivi quando la loro nave aveva preso fuoco. Ma scelsi di credere alla solidità di questa nave, e alle storie sentite al centro di raccolta, che garantivano l’affidabilità della Owen.

Mi resi anche conto, mentre aspettavamo sulla banchina, che i miei compagni di viaggio venivano da un’ampia serie di caste e di gruppi religiosi, culturali e linguistici dell’India. Ma eccoci tutti qui, pronti a salire sulla stessa nave. Questo pensiero mi fece sorridere. Le prostitute erano al fianco dei fedeli devoti. Uomini e donne non sposati aspettavano in fila accanto alle famiglie. Gli indù delle caste alte erano dietro ai paria. I maomettani sfioravano le spalle ai cristiani. Eravamo tutti uguali eppure così diversi. Mentre preparavano il sartiame, sentii l’equipaggio della nave chiamarci coolie, dalla parola tamil kuli, che erano i pagamenti fatti ai più poveri di noi per il lavoro manuale in India. Ci dissero che i sirdar, indiani che erano stati reclutati come sorveglianti, sarebbero stati i nostri responsabili durante il viaggio. Sarebbero rimasti con noi per tutta la durata del contratto e ci avrebbero insegnato a rispondere all’appellativo di coolie quando in Sudafrica avremmo lavorato nei campi di canna da zucchero.

Intorno alla nave il movimento era frenetico. Un uomo camminava avanti e indietro sulla passerella a grandi passi urlandoci istruzioni in due o tre lingue indiane mentre ci raccoglievamo in una grossa folla. “Avete tutti il vostro biglietto di latta? C’è qualcuno senza un biglietto di latta? Alzate la mano!”. Alcuni risposero. “Di qua! Non ce li ha dati nessuno”. Un giovane con un dhoti logoro indicò il disco appeso al collo di un altro passeggero. L’ufficiale si precipitò verso di lui e lo prese per un braccio. “Vieni con me! Senza quello non vai da nessuna parte! Ti serve per essere identificato”, disse portandolo fuori. Strillò da lontano a un uomo che stava sfogliando delle carte a una scrivania piantata sul molo: “Ehi, Dashra, questo ragazzo non ha il biglietto di latta. Avete problemi, o cosa?”. Dashra gli rispose gridando a sua volta: “No. Forse un paio sono passati senza il biglietto di latta. Riportalo qua, che sistemo tutto”. Poi un’altra voce nella baraonda. “Resta in fila dove sei! Niente spinte e spintoni, capito?”. La voce apparteneva a un tipo basso e tozzo di mezza età apparso in un varco tra la folla. Teneva un dito in alto a mo’ di ammonimento. “Tutti riceveranno un pacco, perciò non c’è bisogno di spingere per salire prima del vostro vicino. Mi sentite?”, urlava.

Uno dietro di lui imprecava trasportando uno scatolone e lottando per farsi strada nella foresta di corpi. Il tipo tarchiato cominciò a infilarci la mano e a distribuire quello che c’era dentro. Gli uomini ricevettero dhoti e quelli che sembravano giubbotti, berretti e una coperta. Ne avrebbero avuto bisogno per il viaggio in mare, perché i dhoti erano particolarmente leggeri. Quando arrivò il mio turno, mi lanciò un fagotto con due sari, una giacca di flanella e una coperta. Fui lieta di aggiungere queste cose al mio bagaglio. Era ancora misero rispetto a quello di certe donne che si erano portate gioielli, pentole, stoffa e medicine.

Finito di distribuire i vestiti, il tipo tarchiato cominciò ad accompagnare la gente sulla nave. Ma niente avrebbe potuto prepararci a quella transizione. Non eravamo mai stati su una nave, e quel passo finale dalla terraferma all’imbarcazione che ondeggiava sotto i nostri piedi generava una nuova sensazione d’instabilità. Quando eravamo tutti sul ponte ci fecero mettere ordinatamente in riga. “Le donne sole e i bambini di qua. Vedete i bordi esterni della nave?”. L’ufficiale li indicò. “Starete lì. Famiglie, voglio che facciate una bella fila di qua. Voi starete tra queste donne e i bambini”. Li guidò verso la loro zona. La maggior parte degli adulti riusciva a tenere l’ansia sotto controllo, ma i bambini no. Era tardi, e il loro sonno era stato interrotto. Trovavano minacciosa la massa di volti sconosciuti tutt’intorno. Ci ordinarono subito di metterci seduti. Poi venne fatto l’appello. L’equipaggio si scambiava delle grida. L’ancora fu tirata su e sentimmo la James Owen sollevarsi e spingersi avanti nelle acque di mezzanotte, tracciando una scia schiumosa dietro di sé. Tra il pianto dei bambini, ruotai il corpo e voltai la testa per rivolgere un ultimo sguardo a Madras, all’India. Ma la visuale era oscurata dai corpi che mi circondavano. Chiusi gli occhi e immaginai con l’occhio della mente la terra che spariva pian piano.

Restammo seduti immobili per ore su quei ponti luridi, stretti spalla a spalla, con gli occhi spalancati, fissi sul cielo nero come il carbone. Il tempo passava. L’aria diventò fredda. Braccia e gambe si intorpidirono. Solo le famiglie parlavano, sostenendosi con parole di conforto. Di tanto in tanto sul mormorio delle onde si levava la melodia del canto di una madre per calmare il suo bambino irrequieto. Durante il viaggio sarebbe stato difficile comunicare. Molti di noi non parlavano la stessa lingua. Piegai indietro la testa e dilatai le narici per mandare nei polmoni un getto di aria fresca. Non osavo alzarmi in piedi e sbirciare oltre il parapetto. Avevamo tutti veramente paura del mare e delle storie su come lo spaventoso paglaa samundar, il folle oceano, avrebbe cercato di reclamare il nostro spirito.

Uomini indiani ci avrebbero insegnato a rispondere all’appellativo di coolie quando in Sudafrica avremmo lavorato nei campi di canna da zucchero

Finalmente spuntò il mattino. A un certo punto, durante la notte, mi ero addormentata. Ora il cielo mi baciava il viso e mi premeva sulle palpebre per aprirle. Ci ritrovammo faccia a faccia l’uno con l’altro e con l’equipaggio. Come sembravano diverse le persone alla luce del sole. Gli uomini della nave erano alti, robusti, dai muscoli forti. La loro pelle era rossa per le lunghe ore di esposizione al sole. Parlavano un inglese sonoro, gutturale. Il capitano, Jones, ci guardava come se fossimo un branco di animali. Indicò nella nostra direzione e dette ordini alla ciurma. Con il mio inglese rudimentale, capii che diceva che era mattina ed era ora di svegliare i coolie.

Il medico di bordo, di nome Rawlings, salì sul ponte. Torreggiava sopra di noi e passando lasciava una zaffata di sudore acido. Seppi che era incaricato di tenerci in buona salute, distribuire le razioni e scongiurare epidemie sulla nave. Ma dopo averlo osservato solo per qualche ora, mi accorsi del suo interesse per le passeggere. E più tardi sentii che aveva l’abitudine di portarne qualcuna in infermeria per “divertirsi”. Jones sputò, poi abbaiò altri ordini a uno dei suoi uomini. Il marinaio scomparve per qualche minuto, poi tornò con un gruppetto che portava dei secchi. Alcuni passeggeri si erano appena svegliati e stavano ancora cercando di orientarsi quando Jones ordinò a tutti di mettersi in riga. Quelli di noi che capivano l’inglese si alzarono per primi, e gli altri seguirono il nostro esempio balzando in piedi e trascinandosi in fila il più rapidamente possibile. Jones prese per la collottola alcuni che si muovevano troppo lentamente. I marinai si misero davanti a noi con i loro secchi, e senza alcun preavviso c’innaffiarono di lime dalla testa ai piedi. Appena l’iniziale pugnalata di freddo sulla pelle scomparve, una sensazione di bruciore m’invase occhi e pelle. I bambini piangevano ad alta voce mentre il dottore sbraitava che dovevano tacere. Dopo essere stati “puliti” indossammo gli abiti nuovi. I nostri vestiti dai colori vivaci lasciarono il posto all’uniformità. Il giorno dopo ci dettero tabacco e sapone per la prima volta. Le donne erano felici del sapone come gli uomini lo erano del tabacco. Ci promisero che avremmo ricevuto olio, sapone e tabacco una volta alla settimana. Ma Jones litigava spesso con Rawlings per le provviste, così imparammo a diventare frugali e a lesinare sulle razioni per farle durare più settimane possibile.

La cosa più umiliante erano le visite mediche quotidiane in infermeria. Per Rawlings erano un’opportunità per vederci quando eravamo più vulnerabili. Ci sfilavamo i vestiti e le donne più anziane cercavano di nascondere la vergogna mentre lui sbirciava nei loro spazi privati. Col tempo, le visite diventarono più brutali. Molte si sentivano profondamente offese, ma perfino quelle che avevano i mariti sulla nave non potevano chiedere la loro protezione, per paura che fossero picchiati e messi in catene.

Il compito di Rawlings era mantenere l’igiene a bordo e assicurarsi che tutti i passeggeri facessero il bagno ogni giorno. Una volta punì pubblicamente una di noi per aver violato le regole. Nagamah era una fragile, con la pelle scura e l’aspetto di un topo, che si teneva appartata. Ma Rawlings la frustò molte volte, spesso per non essersi fatta il bagno. Lei odiava lavarsi nell’area dove l’equipaggio ci lanciava sguardi osceni. Le percosse si fecero più frequenti e Nagamah era distrutta dall’ansia. Cominciò a svegliarsi nel cuore della notte immersa nella sua stessa urina. Una mattina, mentre aspettavamo in fila il nostro controllo medico, la sentimmo che gridava dal ponte inferiore. Rawlings apparve un attimo dopo trascinando malamente Nagamah sui gradini dietro di lui. Lei lo stava supplicando in tamil di fermarsi. Ma i denti serrati del medico tradivano la sua determinazione. Per un attimo nessuno riconobbe Nagamah. Il suo volto era stato spruzzato di bianco con la vernice usata per il rivestimento della nave. Un po’ di tinta le era gocciolata sulle spalle nude e sui capelli arruffati. Aveva le mani legate strette dietro la schiena. Il seno floscio era scoperto, e sul petto nudo le avevano disegnato il muso di un maiale. Noi rimanemmo immobili, stordite, mentre Rawlings faceva sfilare Nagamah sul ponte perché tutti la vedessimo. “Maiale disgustoso!”, urlava sbeffeggiandola e colpendola nella schiena. “Maledetto maiale!”.

“Cosa sta dicendo?”, chiedevano alcuni. Quelli di noi che capivano lo bisbigliavano agli altri, inorriditi. Rawlings afferrò Nagamah per i capelli e la spinse verso uno dei bambini, che alzò lo sguardo confuso. “Ehi, ragazzo! Guarda qua! Guarda la faccia di un fottuto maiale che bagna il letto ogni notte!”. E rise fragorosamente, imitato dagli altri marinai. Nagamah abbassò la testa mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. Nessuno di noi riusciva a guardarla. Quel giorno sentii germogliare in me il seme dell’odio. Capivo che Rawlings voleva che partecipassimo alla degradazione di una di noi. E così non solo mortificava Nagamah, ci umiliava tutti. Negli anni che avevo vissuto nella presidenza di Madras, non avevo mai visto né sentito niente di così sconvolgente. I soldati britannici erano ovunque, ma c’erano dei limiti. Non potevano assolutamente disonorare in quel modo una di noi. Quando condivisi questi pensieri con altre donne, una di loro mi disse: “Stai parlando di un paesino nella presidenza di Madras, mia cara. Ora siamo sulla loro nave e andiamo nella loro colonia. D’ora in poi, con noi faranno quello che vogliono”.

Gabriella Giandelli

Non passò molto tempo e sui ponti dilagarono le malattie, perché le nostre condizioni e le zone dove dormivamo erano indecenti. Alcuni cercavano di rispettare le norme igieniche, ma altri non lo facevano. Pochissimi avevano visto un’imbarcazione marittima prima di allora, e tanto meno ci avevano viaggiato. Il mal di mare imperversava. Il suono dei conati e il lezzo acre del vomito diventarono lo scenario costante del nostro viaggio. A bordo molti si lamentavano di disturbi allo stomaco per la pessima qualità del riso. Alcuni presero delle malattie di cui non avevamo mai sentito parlare, come gli orecchioni. Le persone erano colpite da febbri altissime. Avevano strane visioni e bisbigliavano parole storpiate che nessuno capiva. Rawlings arrivò con degli aghi appuntiti, ci bucò la pelle e dichiarò che questo ci avrebbe impedito di prendere gli orecchioni. Ma alcuni si ammalarono lo stesso. Varicella, malattie veneree e diarrea erano dappertutto. E il più delle volte il sapone veniva distribuito solo se ci agitavamo e lo reclamavamo.

Malgrado questo, ci adattammo alla routine della vita marinara. Ci svegliavamo diligentemente alle sei, sistemavamo i nostri giacigli e facevamo una colazione a base di cibo secco. Mentre le donne cucinavano, gli uomini andavano a prendere l’acqua. Il vitto era veramente di pessima qualità. Certi giorni ci davano pasti secchi, altri riso cotto e dhal. Le patate erano riservate alle occasioni speciali. A quelli di noi che mangiavano carne – ed erano molti – avevano promesso una pecora per banchettare ogni quindici giorni. Ma li sentii lamentarsi che le carcasse erano tutt’ossa, e le dimensioni delle bestie insufficienti per sfamare tanta gente. La pulizia del riso era uno dei compiti più difficili assegnati alle donne: era disseminato di pietruzze e sassolini che avrebbero reso immangiabili le porzioni se non avessimo passato ore setacciando scrupolosamente quasi ogni chicco, sul fianco della nave dove il vento ci soffiava addosso. Il capitano si rifiutò di permetterci di farlo tra un ponte e l’altro. Perciò eravamo costrette a spargere i sacchi di riso vicino all’infermeria o agli alloggi dei marinai, dove lavoravamo sotto lo sguardo affamato degli uomini. A volte, mentre davanti ai nostri occhi si innalzava una montagnola di riso pulito, le nuvole si addensavano in una massa minacciosa. Se eravamo abbastanza veloci, raccoglievamo il riso pulito e scappavamo in fretta in una zona riparata per evitare che si bagnasse. Ma se eravamo troppo lente, la pioggia ci sferzava disperdendo i chicchi, e tutto il nostro lavoro andava perso.

Durante il viaggio piovve spesso, e il capitano di solito ci costringeva a consumare i pasti esposti alle intemperie. Quando la fame ti morde lo stomaco diventi immune alla pioggia. Eppure c’erano uomini che si ostinavano a criticare tutto. “Questo maledetto riso è sabbioso!”, sibilavano a noi donne e a chi li serviva. “E queste porzioni sono troppo piccole. Vi aspettate che degli uomini adulti come noi sopravvivano con porzioni da bambini?”. Più di una volta li vidi scagliare il piatto fuoribordo, ore del nostro duro lavoro ingoiate dal mare.

Sulla nave c’erano altri pericoli che non avevamo previsto. Certe zone non erano sicure. Il medico della nave lamentava che l’area dove si accendevano i fuochi per cucinare era pericolosa e le cuoche potevano ustionarsi se la nave s’inclinava inaspettatamente. Il ricordo di un’altra nave salpata per Mauritius era vivido nella nostra mente. Un incendio a bordo aveva bruciato vivi praticamente tutti gli occupanti, lasciando un solo superstite. Quando il vento era forte, spesso la nostra imbarcazione oscillava da una parte all’altra. Tutto ciò che non era fissato al ponte scivolava pericolosamente vicino ai parapetti, e qualcosa finiva fuoribordo. I bambini giocavano spesso senza sorveglianza, e io temevo che perdessero l’equilibrio e fossero scaraventati in mare.

Ma erano in corso anche cambiamenti più sottili. Il rollio della James Owen cominciava ad allentare i legacci che avevano tenuto insieme le nostre norme sociali. I bramini furono costretti ad accettare per la prima volta ruoli più umili. I paria, d’altra parte, giravano impettiti con un nuovo senso d’orgoglio. Una volta sentii un paria e un bramino litigare per la pulizia dei gabinetti della nave. “Mi rifiuto semplicemente di farlo”, ringhiò il bramino. “Non è un lavoro adatto a una persona della mia posizione. Pulire latrine è compito di un intoccabile!”. Il paria contrattaccò: “Dimentichi una cosa, virtuoso bramino! Siamo su una nave in mezzo all’oceano. Non siamo più in India. Non c’è più niente che mi obblighi a pulire la tua merda. Io non prendo più ordini dai bramini!”.

La violenza diventò una costante. I marinai erano perennemente impegnati a riparare le vele sul ponte, perciò non avevamo un posto dove sederci. Molti passeggeri dovevano scendere sui ponti inferiori, dove scoppiavano le risse. Bramini e paria detestavano essere costretti a stare insieme. Ma c’erano anche molte altre caste che non andavano d’accordo e non si capivano. I vegetariani s’infuriavano perché erano obbligati a mangiare pasti preparati insieme alla carne. C’erano discussioni su che tipo di carne dovevano consumare certi passeggeri: alcuni non mangiavano manzo e altri non toccavano il maiale. Cosa faceva credere ai britannici che fossimo uguali? Le nostre divisioni li confondevano, anche se avevano già portato intere navi cariche di gente come noi a Port Natal.

I passeggeri cominciarono a bisbigliare che l’oceano aveva fame di sacrifici. Durante il viaggio, un gruppo di donne che passava davanti all’infermeria sentì le urla di dolore di una ragazza. Bussarono alla porta, ma furono cacciate via. Però capirono che c’era qualcosa che non andava. Scoprirono che dietro quella porta c’era una donna incinta con le doglie. Ma qualche giorno dopo non c’erano notizie del bambino. Il marito non voleva parlare. E quando lei uscì dall’infermeria, un paio di giorni dopo, era pallida, debole e sola. Il marito ammise che suo figlio era nato morto. “Credo che la tensione del viaggio sia stata troppa”, disse. “Il nostro bambino non è sopravvissuto, ma mia moglie ha dovuto comunque sopportare dodici ore di travaglio per partorirlo. Io sono andato a trovarla, ma sanguinava tanto ed era debolissima, perciò non è potuta venire via con me. Le ho detto di riposare e che sarei tornato il giorno dopo. Ma l’equipaggio… hanno aspettato che dormissimo, poi hanno preso il corpo del nostro bambino e lo hanno gettato in mare! Quando sono arrivato, la mattina dopo, per preparare nostro figlio per il rito funebre, mi hanno detto: ‘Ci spiace, sei arrivato troppo tardi. Per motivi d’igiene non potevamo tenere un neonato morto a bordo’. Mia moglie è quasi svenuta. Mi ha messo la testa sul petto e ha pianto. Ha detto, ‘Arjuna, questa gente ha gettato nostro figlio in mare prima ancora che avessimo la possibilità di dargli un nome. Il nostro bambino ha lasciato questa vita senza un nome’. Non so se lei riuscirà mai a superarlo”.

Ricordo bene quella donna. La vedevo sul ponte che parlava da sola, incantata dalla distesa blu sotto la nave. Mi chiedevo se le sembrasse di vedere quel corpicino solitario che affondava e se questo la attirava verso l’abisso. Non smetteva di bisbigliare il nome del bambino perché la sua anima potesse trovare la via di casa.

Le donne erano particolarmente vulnerabili su quella nave. C’erano così poche regole, così pochi luoghi sicuri dove potevamo nasconderci. Non erano solo le percosse, l’essere inzuppati d’acqua fredda o bersagliati di immondizia. Era anche la sensazione che a ogni svolta ci fossero un paio di occhi che ci braccavano. Che fossero lavoratori indiani o uomini britannici, per noi rappresentavano tutti la stessa minaccia. ◆ gc

Joanne Joseph è una giornalista sudafricana nata nel 1976. Questo articolo è un estratto del suo primo libro, Children of sugarcane (Jonathan Ball 2021), che nel 2022 è stato finalista del Sunday Times literary award.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati