Da 43 anni il partito Zanu-Pf governa lo Zimbabwe con il pugno di ferro. Come molti altri ex movimenti di liberazione, sostiene di voler proteggere le conquiste della lotta contro la dominazione coloniale. Ma da chi o da cosa?

Nello Zimbabwe le violazioni dei diritti umani sono frequenti e il malgoverno è generalizzato. Allo Zanu-Pf manca solo il titolo di partito unico: da tempo, i liberatori sono diventati oppressori. “È il partito dell’indipendenza e questo status gli ha garantito un forte sostegno dell’opinione pubblica dal 1980 fino al 1995 circa”, spiega Blessing-Miles Tendi, docente dell’università di Oxford. “Negli anni lo Zanu-Pf ha imparato a usare a suo vantaggio le regole del gioco elettorale”.

L’esercito è il primo pilastro di questo potere. Nel 2017 un colpo di stato condotto da militari ha decretato la caduta di Robert Mugabe, l’anziano presidente. Il suo successore Emmerson Mnangagwa, che vuole ottenere un secondo mandato alle presidenziali del 23 agosto (in cui il suo avversario più quotato è Nelson Chamisa, di 45 anni), ha lasciato spazio ai militari nel suo governo.

Sei anni fa, quando i carri armati sfilavano per le strade di Harare, l’occidente non ha avuto da ridire al riguardo. “Nessuno ha condannato il golpe o ha preso misure contro i responsabili”, nota Tendi.

Responsabilità storiche

Come ha fatto lo Zanu-Pf a mantenere il potere così a lungo? Mugabe era molto efficace nell’eliminare i suoi avversari. Poco dopo essere diventato primo ministro, ordinò la violenta repressione dei leader e dei sostenitori del movimento Zapu, che aveva combattuto al suo fianco contro il regime della minoranza bianca. Circa ventimila civili furono uccisi nelle province del Matabeleland e delle Midlands nell’operazione Gukurahundi (1983-1987). Il governo non ha mai riconosciuto la sua responsabilità, non si è mai scusato con le famiglie delle vittime né ha proposto dei risarcimenti. All’epoca Mnangagwa, che presto compierà 81 anni, era ministro della sicurezza nazionale.

Lo Zanu-Pf si considera ancora insostituibile? In un certo senso sì, sostiene Wellington Gadzikwa, che insegna all’università dello Zimbabwe. “Pensa che sia suo compito proteggere le conquiste dell’indipendenza”. Per questo non intende cedere il potere. “Istituzioni come la commissione elettorale non sfavoriranno in nessun modo il partito”, osserva Gadzikwa. “Lo Zanu-Pf controlla i mezzi d’informazione, l’opinione pubblica e le aree rurali. Non esita a manipolare la popolazione per tenerla sotto controllo. I cittadini preoccupati di possibili violenze finiscono col votarlo per sentirsi al sicuro”.

Il partito dispone anche di ampie risorse. Nicholas Aribino, ricercatore zimbabweano, spiega che per quasi quarant’anni lo Zanu-Pf si è accaparrato grandi ricchezze. “Stare al potere è un modo per assicurarsi e proteggere guadagni illeciti”. Lo Zimbabwe è al 157° posto su 180 nell’indice di percezione della corruzione di Transparency international. “Prima di morire, nel 2019, Mugabe parlò della scomparsa di 15 miliardi di dollari di entrate derivanti dai diamanti. Durante la riforma agraria degli anni duemila i leader dello Zanu-Pf avevano messo le mani su molte aziende agricole” (in gran parte espropriate agli agricoltori bianchi). Più di recente “c’è stato lo scandalo della mafia dell’oro e il saccheggio dei sussidi destinati all’agricoltura”, continua Aribino. “È tutto questo che il partito sta cercando di proteggere rimanendo al governo”.

“La legge è usata come strumento di repressione”, continua. “Lo Zanu-Pf ha approfittato dei suoi numeri in parlamento per approvare norme che, per esempio, gli hanno permesso di stroncare ogni dissenso online”. Cita anche la riforma del codice penale, nota come “disegno di legge patriottico”, e il progetto di riforma delle organizzazioni di volontariato, che mira a restringere gli spazi di libertà della società civile. Sono proposte concepite per schiacciare il dissenso, spiega Aribino. Che aggiunge: “Alcuni leader dell’opposizione, come Job Sikhala e Jacob Ngarivhume, sono stati imprigionati solo per fare paura agli altri”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati