In un altro mondo possibile – forse più prevedibile di quello in cui viviamo – invece di correre ogni mattina a controllare le ultime notizie sulla guerra tra Russia e Ucraina, seguirei regolarmente le previsioni del tempo. Aspetterei con impazienza un viaggio a Kaliningrad programmato da tempo per partecipare alla festa di compleanno del mio filosofo preferito e, a quanto pare, anche uno dei favoriti di Vladimir Putin: Immanuel Kant. Avrei prenotato un volo per Mosca e uno interno in Russia per la fine del mese e starei sognando ad occhi aperti romanticamente e acriticamente – cosa un po’ inappropriata per una kantiana – il mio arrivo in quella vecchia città.

Chissà se cercherei d’imitare la leggendaria passeggiata pomeridiana di Kant attraverso la città, regolando il mio orologio in modo che coincida con il suo passaggio, come si diceva facessero gli abitanti di Königsberg (come si chiamava allora Kaliningrad). Oppure forse andrei direttamente verso il centro della città, cercando di trovare i famosi “sette ponti di Königsberg”, il problema matematico analizzato da Leonhard Euler che ha gettato le basi della teoria dei grafi. Dovrei fermarmi per scattarmi un selfie sulle rive del fiume Pregolja? O provare a visitare la trecentesca cattedrale gotica?

Aspetterei con impazienza un viaggio a Kaliningrad programmato da tempo per partecipare alla festa di compleanno del mio filosofo preferito: Kant

Forse più tardi. Per quanto mi riguarda, il sito più importante di Kaliningrad è la modesta tomba di Kant. “Immanuel Kant / 1724-1804 / Importante filosofo idealista borghese, nato, vissuto e morto a Königs­berg senza mai lasciarla”, recita una targa di epoca sovietica, posta lì poco dopo il 1947, quando la tomba fu sorprendentemente salvata dalla demolizione. A quel tempo Kaliningrad, che era stata bombardata durante la guerra dai britannici e dai sovietici, era in fase di ricostruzione postbellica, con l’intento di trasformarla in una città modello sovietica, piena di statue di Stalin e palazzi costruiti in mattoni come un grande Lego.

La tomba di Kant fu salvata dall’intervento miracoloso di un certo V.V. Ljubimov (molto probabilmente un nome falso) che scrisse all’Izvestija, il quotidiano ufficiale del governo, invitandolo ad avvertire le autorità dell’imminente pericolo che correva la tomba del filosofo. Kant, ricordava Ljubimov, era stato citato da Friedrich Engels nella Dialettica della natura, che ne elogiava “l’opera epocale” di rottura con la visione teologica “pietrificata” della natura. In un raro caso di ricettività agli stimoli della democrazia dal basso, la commissione sui siti culturali del consiglio dei ministri aveva deciso di preservare la tomba di Kant, e di conseguenza la cattedrale dove si trova.

Da allora, i modi in cui le autorità e l’opinione pubblica trattano Kant e il suo pensiero, il modo in cui scendono a patti con lui e si appropriano della sua eredità, in una certa misura distorcendola, sono diventati una lente interessante con cui esplorare alcune delle tensioni tra la Russia e l’Europa e dell’Europa con se stessa.

Nel luglio 2005, alla vigilia del settecentocinquantesimo anniversario della città, l’università locale ha assunto il nome di Immanuel Kant. Alla cerimonia erano presenti il presidente russo Vladimir Putin e l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder. C’erano stati discorsi entusiastici e vigorose strette di mano. Kaliningrad, aveva detto Schröder, “è ora la città più occidentale della Federazione Russa”, aggiungendo che anche se questo era ancora “doloroso per alcuni, è storia”. La città, secondo Schröder, aveva ora “una reale possibilità di diventare una vera metropoli europea, superando i confini che sono stati tracciati in passato”.

Inglobando il tragico passato in un futuro più promettente, si potevano sentire echi della vecchia tesi del doux commerce: il commercio come precondizione per una pace duratura. A Kaliningrad/Königsberg, il genio e lo spirito di Kant sono stati invocati per suggellare quella speciale unione di razionalità tedesca e passione russa che sarebbe poi sfociata nel gasdotto Nord stream.

Più di recente, un decreto presidenziale firmato da Putin aveva ordinato i preparativi per il trecentesimo anniversario della nascita di Kant. Sul sito in russo si legge ancora: “Un gruppo di stimati accademici si riunirà nella città in cui il professor Kant è nato, ha vissuto, ha lavorato e ora riposa, per discutere dell’eredità del filosofo, dell’influsso delle sue idee sul progresso della scienza e della società moderna”.

Io sono una di questi accademici. O meglio, lo ero. Nel febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina e la conferenza internazionale a cui avrei dovuto partecipare, il più grande raduno di studiosi di Kant al mondo, è stata trasferita in Germania. La pagina web dell’evento (ora aggiornata) condanna la guerra di aggressione della Russia, spiegando che la decisione di non andare più a Kaliningrad è stata presa per il “giustificato motivo” che il congresso “stava agendo nell’interesse dei suoi partecipanti e dello scopo dell’associazione”.

Recentemente mi sono trovata impegnata in un altro esperimento mentale. Kant avrebbe annullato il congresso? A giudicare da come reagì all’aggressione della Russia contro la Prussia durante la guerra dei sette anni, sembra piuttosto improbabile.

Anche se Kant è stato il primo a proporre una definizione dell’illuminismo racchiusa nel motto “sapere aude!”, abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza, l’eminente filosofo del settecento e autore della Critica della ragion pura non era noto per i suoi atti di coraggio. Nel 1757 Königsberg era sotto l’occupazione russa e Kant scrisse all’imperatrice di Russia Elisabetta promettendole la sua fedeltà. In caso di tradimento, diceva, “informerò immediatamente le autorità, ma cercherò anche di sventarlo”. Una cattedra di logica e metafisica era da poco diventata vacante e Kant aveva bisogno dell’appoggio dei potenti, ma non la ottenne.

L’amore per la patria non dovrebbe mai essere sacrificato a una cattedra accademica, potrebbe dire qualcuno. Eppure, ridurre tutto alla vigliaccheria forse non è l’unica spiegazione adeguata per comprendere l’incoerenza tra il radicalismo degli scritti di Kant e il suo comportamento personale più moderato. Un motivo più profondo risiede nei requisiti politici della sua teoria della libertà.

Essere liberi, in senso kantiano, significa essere in grado di prendere una distanza critica dalle proprie passioni e inclinazioni, e chiedersi se queste contribuiscono al pensiero “illuminato”: all’allontanamento, come dice Kant, dall’“immaturità autoimposta degli esseri umani”. L’illuminismo si basa su tre massime: pensare con la propria testa, pensare mettendosi nei panni di tutti gli altri e pensare sempre con coerenza. Queste massime, a suo avviso, potrebbero essere applicate attraverso “l’uso pubblico della ragione”, un modus operandi fondamentalmente diverso dall’uso “privato” che ne fanno le persone nelle loro professioni (per esempio come studenti, insegnanti, medici, politici, avvocati o gestori di patrimoni). Mentre il secondo si basa sull’accettazione dell’autorità, il primo richiede un impegno pluralistico, imparziale e critico.

È difficile capire le aspirazioni di Kant in un’epoca come la nostra, in cui lo spirito pubblico è costantemente minacciato dallo scontro tra interessi privati. Il nostro modo di comunicare è più ampio e più inclusivo rispetto a quello del settecento, ma è anche meno profondo, più arrogante e meno critico. Il dissenso si manifesta attraverso clamorosi atti di autoespressione individuale (preferibilmente registrati su un telefono) più che attraverso un impegno critico collettivo.

Come noi, Kant visse in un’epoca di crisi, segnata da grandi progressi della scienza e della tecnologia, ma anche da un crollo di valori. Eppure ritagliò per la ragione il ruolo di capacità comunicativa universale che cerca di orientarsi in una via di mezzo tra scetticismo e dogmatismo, tra il non credere in nulla e il seguire ciecamente le tendenze. Questa concezione della ragione sembra più difficile da far rivivere nelle nostre società, strangolate come sono tra interessi distruttivi e personalizzazione dell’impegno politico.

Il 12 febbraio 2024, quasi esattamente due anni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il governatore di Kaliningrad, Anton Alikhanov, ha dichiarato che la responsabilità della recente guerra sarebbe nientemeno che del filosofo prussiano. Kant, ha osservato Alikhanov, aveva un “rapporto diretto con il caos globale, il riallineamento globale che stiamo affrontando”. Le sue opere hanno contribuito a creare una “situazione sociale e culturale” che “ha permesso all’occidente di violare tutti gli accordi raggiunti fino a quel momento”.

Non è la prima volta che Kant attira l’ira dei nazionalisti russi. Già nel dicembre 2018, quando il governo aveva condotto un sondaggio online per ribattezzare l’aeroporto di Kaliningrad, Kant era stato uno dei favoriti finché una campagna diffamatoria che lo accusava di essere un “russofobo” aveva portato ad atti vandalici sulla sua statua, vernice gettata sulla sua tomba e alla distruzione di una targa commemorativa nel luogo in cui era vissuto.

Oggi, tuttavia, la tesi di Alikhanov secondo cui Kant avrebbe una “connessione diretta con il conflitto militare in Ucraina” suona tragicamente ironica. Kant è in realtà meglio conosciuto come l’autore di uno dei più famosi saggi contro la guerra della storia della filosofia, Per la pace perpetua, pubblicato nel 1795. Mentre i conflitti distruttivi minacciano di espandersi, dalla guerra tra Russia e Ucraina all’Europa, e dallo scontro tra Israele e Palestina al resto del Medio Oriente, la rilettura di Kant risulta profondamente sconvolgente, ma è forse anche istruttiva.

Il titolo stesso del saggio s’ispira all’incisione satirica sulla tavola di un locandiere olandese dove “pace perpetua” si riferiva alla calma del cimitero. Kant non ha mai saputo, naturalmente, delle minacce nucleari. Però il suo avvertimento riguardo a “una guerra di sterminio in cui l’annientamento simultaneo di entrambe le parti permetterebbe alla pace perpetua di realizzarsi solo nel vasto cimitero della razza umana” suona inquietante.

Il saggio stesso prende la forma di un trattato di pace ideale, contenente una serie di articoli per arrivare non solo a una cessazione delle ostilità, ma alla fine della guerra una volta per tutte. Kant critica la facilità con cui gli stati contraggono debiti allo scopo di finanziare le guerre. Il debito, sostiene, è legittimo per realizzare progetti pacifici, ma quando si tratta di conflitti internazionali, il denaro ha un “potere pericoloso” perché, “combinato con l’inclinazione dei politici alla guerra, la rende più facile”.

I paragrafi più noti del saggio di Kant sulla pace perpetua sono quelli in cui sostiene che i diritti delle nazioni devono fondarsi su un “federalismo tra stati liberi”. La proposta cercava di risolvere un problema che tormentava l’Europa da quando il decreto sulla “pace eterna” adottato dalla dieta di Worms nel 1495 aveva portato al divieto delle faide private tra comuni nel medioevo. Che senso aveva usare il potere coercitivo dello stato per garantire la pace interna, se poi la sicurezza dei cittadini era costantemente minacciata da una guerra internazionale? Come si sarebbe dovuta affrontare una guerra tra le unità più grandi che ora avevano il monopolio sull’uso della forza?

Ispirato ai tentativi dei suoi predecessori, tra cui la proposta dell’abate di Saint Pierre di una federazione di stati europei che includesse la Russia, il progetto di Kant era forse il più ambizioso. Il filosofo prussiano insisteva sul fatto che le classiche categorie del diritto privato, pubblico e internazionale dovessero essere completate da una nuova categoria, che chiamò “diritto cosmopolita”.

Basato sull’originario possesso collettivo della terra tra gli esseri umani, il cosmopolitismo di Kant implica il riconoscimento di un diritto ad andare ovunque senza essere trattati con ostilità. Specifica inoltre che, poiché l’interazione globale è ormai arrivata al punto che “una violazione del diritto in un luogo della terra ha riflessi dappertutto”, il concetto di cosmopolitismo non è una questione di etica ma di politica. Poiché diritto privato, pubblico, internazionale e cosmopolita sono interdipendenti, quando uno di essi viene messo in discussione, crollano anche gli altri.

Kant era un pacifista, ma non era un ingenuo. In un saggio del 1943 intitolato The future of pacifism, il filosofo britannico Bertrand Russell distingueva tra la versione assoluta e quella relativa della sua posizione. Da un lato, la prima, diceva Russell, si basa sulla tesi che “in qualsiasi circostanza, è sbagliato togliere la vita a un essere umano”; la seconda, d’altro canto, era legata all’idea che “i mali della guerra sono quasi sempre maggiori di quanto appaiano alle popolazioni esaltate nel momento in cui scoppia un conflitto”; e che mentre alcune guerre valgono la pena di essere combattute, in casi come quello della prima guerra mondiale i “mali che ne erano derivati” erano stati maggiori di quelli causati dalle concessioni necessarie per evitarla.

Il sistema di Kant resiste a calcoli di questo tipo: il suo pacifismo riguarda più i princìpi che le conseguenze. Tuttavia, sia per Kant sia per Russell, il pacifismo non equivale alla posizione di chi “porge l’altra guancia” assunta dai primi padri della chiesa, in reazione alla quale nacque la tradizione della “guerra giusta”. Per i sostenitori della guerra giusta, porgere l’altra guancia aveva senso solo in caso di violenza contro un singolo individuo, non di un attacco contro un intero gruppo di persone innocenti. Come diceva Agostino, uno dei suoi primi paladini, “è l’ingiustizia della parte avversa che impone all’uomo saggio il dovere di condurre una guerra giusta”.

Questa posizione era tanto prominente tra i giuristi del settecento quanto sembra esserlo tra i politici liberali di oggi. In risposta a questa tendenza, il tipo di pacifismo proposto da Kant (e che ispirò Russell) rientrava in un discorso politico. I pacifisti sono pienamente consapevoli di quanto e come una posizione pacifista rischi d’incoraggiare nuove aggressioni. Quello che cercano di evidenziare è il pericolo di un’escalation e la rarità storica delle guerre che si concludono con la vittoria totale di una sola parte.

Il saggio di Kant sulla pace perpetua è spesso citato come fonte d’ispirazione per l’Unione europea: un progetto nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale che ha visto i nemici mortali di una volta unirsi in un impegno condiviso per creare istituzioni pacifiche. Nonostante tutti i suoi limiti, è stato cruciale non solo per allontanare l’Europa occidentale dalla politica del nazionalismo fratricida, ma anche per gli stati disillusi che stentavano a riconciliarsi con il loro passato comunista.

Negli ultimi tempi l’Europa è diventata un luogo in cui lo scontro tra il bene e il male è regolarmente invocato per giustificare atti d’irresponsabile brutalità, e dove i tamburi di guerra si fanno sentire sempre più forte. Mentre i governi di tutto il mondo sono ancora una volta impegnati nella corsa agli armamenti, le quote di mercato dell’industria militare salgono alle stelle.

Le metafore marziali appaiono dappertutto: alcuni trovano nemici dentro i confini europei e agitano lo spettro dell’attentato ai valori tradizionali costituito dai migranti, chiedendo apertamente la deportazione extraterritoriale dei richiedenti asilo. Altri fanno i conti con la possibilità di avere nemici esterni, e ci invitano a “prepararci mentalmente” all’idea che viviamo in un’“epoca prebellica”, come ha recentemente affermato il primo ministro polacco Donald Tusk. Mentre chi propone il compromesso e la necessità di tenere conto delle sfumature è esposto, se va bene, al ridicolo e agli attacchi su internet, se va male alla censura.

Nulla è più lontano dallo spirito di Kant del modo dogmatico in cui ci viene chiesto di accettare la guerra in tutte le sue forme: politica, sociale, culturale. Forse è qui che sta il pericolo. Forse la guerra si combatte nella mente ancor prima che sul terreno. Forse ci stiamo convincendo che il bene e il male siano inevitabili, che il bene debba prevalere e che il male sarà sconfitto, che la guerra – nel mondo delle idee, in politica, ai nostri confini, al fronte – sia l’unica via da percorrere.

In un altro mondo possibile, sarei andata comunque a Kaliningrad. Ci sarei andata perché sono d’accordo con Kant sul fatto che le uniche trincee in cui dovremmo scendere sono quelle della ragione. Come insiste nel dire in uno degli articoli della Pace perpetua, anche tra i peggiori eccessi bisogna mantenere fiducia nell’umanità del nemico. Se Kant ha qualcosa da insegnarci a trecento anni dalla sua nascita, è che se la ricerca della vittoria totale rischia di portare alla totale estinzione, l’escalation è sempre disastrosa. ◆ bt

Lea Ypi è una filosofa e scrittrice albanese. Insegna filosofia politica alla London school of economics, nel Regno Unito. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Libera (Feltrinelli 2022). Questo articolo è uscito sul quotidiano economico britannico Financial Times con il titolo Kant and the case for peace.

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati