“Tutti i grandi movimenti sociali per la libertà e la giustizia nella nostra società hanno sempre promosso un’etica dell’amore. Chi ha a cuore il bene collettivo della propria nazione, della città o del proprio quartiere cercherà di coltivarlo e di difenderlo. Se tutte le scelte politiche s’ispirassero all’amore, i problemi della disoccupazione, dei senzatetto, dell’inadeguatezza del sistema scolastico, della tossicodipendenza non esisterebbero più”. Lo scrive bell hooks nel libro Tutto sull’amore: nuove visioni (Feltrinelli 2000). È il testo introduttivo della sua “tetralogia dell’amore”, scritta alle soglie del ventunesimo secolo, tra il 2000 e il 2004. Il 15 dicembre 2021 questa scrittrice, femminista e attivista è morta.

Il libro suscitò un grande interesse non solo per il felice titolo, che promette “tutto” su ciò che nell’incerta società occidentale è ancora sorprendentemente e indiscutibilmente considerato un valore universale, ma soprattutto per la sincerità con cui la studiosa non esitava a prendere in esame esperienze anche molto intime del proprio vissuto familiare e personale, l’empatia riservata tanto ai lettori quanto a coloro di cui scrive, anche se spesso non li risparmia, la passione con cui parla di ogni forma d’ingiustizia sociale, e l’approccio olistico, cioè il modo di concepire un problema come l’effetto dell’organizzazione della società nel suo insieme. Questo stile abbraccia tutti gli argomenti dei suoi studi: la disuguaglianza sociale, il razzismo, la famiglia, i compiti del movimento femminista, la mascolinità tossica, la cultura dello stupro, l’educazione e la scolarizzazione dei bambini, la poesia o la cultura popolare, da Harry Potter al rap.

Chiara Dattola

Non si può dire che Gloria Jean Watkins, malgrado lo pseudonimo con cui ha firmato le sue opere fin dall’esordio, si sia mai separata dalla sua identità di figlia di una cameriera e di un custode della cittadina di Hopkinsville, nel Kentucky, Stati Uniti. Anzi, lo aveva scelto proprio in onore della sua bisnonna materna (Bell Blair Hooks). Con lei condivideva un tratto importante della personalità, che le permetteva di mettere in discussione il potere sconfinato dell’autorità di suo padre: l’audacia. Scegliendo uno pseudonimo, rivendicava il proprio diritto di opinione e di ribattere, cioè la strategia chiave della sua gioventù. La sfera familiare – il rapporto con i genitori, le cinque sorelle, il fratello e soprattutto i nonni, che ai suoi occhi erano la prova che le relazioni tra uomini e donne possono avere una forma diversa da quella della disuguaglianza, della violenza e della rigida divisione dei ruoli – secondo lei non è sem­plicemente un contesto da cui è impossibile sottrarsi. Al contrario, è la principale “prova” che mostra il funzionamento del patriarcato e, soprattutto, il suo indiscriminato effet­to dannoso sia sugli uomini sia sulle donne.

È sul concetto di amore e nell’ordinamento delle relazioni intime che la violenza del patriarcato è più evidente. Le varie correnti del femminismo radicale hanno spesso trattato l’amore come una trappola, e le donne che lo accolgono come vittime. Vittime perché lo concepiscono come amore in senso romantico, limitandolo alla relazione tra due persone in cui la donna è sedotta dall’uomo; oppure come amore materno, il cui paradigma prevede la subordinazione della donna al bene dei figli. Bell hooks lo dice nel libro Il femminismo è per tutti (Tamu 2021), in cui afferma che è necessaria una ridefinizione delle relazioni amorose nel pensiero e nella pratica femminista, se vogliamo liberarci dalla visione romanticizzata e feticistica della violenza (il cosiddetto “crimine passionale”). Allo stesso tempo, tuttavia, la studiosa sottolinea che questi femminismi non hanno criticato l’amore in sé, ma hanno riconfermato il paradossale collegamento, in atto nel patriarcato, tra amore e potere. Alla donna (eterosessuale o omosessuale) è inculcato che deve guadagnarsi l’amore e che può ottenerlo solo attraverso il riconoscimento da parte dell’altro. Le viene insegnato a desiderare l’amore disperatamente, poiché raramente si realizza. L’amore di un uomo (padre, fratello, partner) equivale alla conferma del valore della donna e, al tempo stesso, al successo della sua missione nel suo ambiente più prossimo. È il requisito necessario perché possa adempiere al suo compito principale nel sistema patriarcale: la cura degli altri.

Alla lotta femminile – e femminista – con l’amore è dedicato Communion. The female search for love (2002). Lo studio complementare è The will to change: men, masculinity and love (2004), che affronta la questione dal lato maschile e mostra che nel patriarcato anche gli uomini sono perdenti. Sì, perché mentre le donne sono addestrate dalla società a diventare esperte delle proprie emozioni e di quelle degli altri, anche se sono private dei mezzi per gestirle liberamente, gli uomini sono letteralmente mutilati emotivamente durante l’infanzia e l’adolescenza: i ragazzi non piangono, non hanno paura, non amano le coccole. Prima di tutto, devono sapersi battere.

Chiara Dattola

Hooks sottolinea che il movimento femminista affronta anche il problema della sofferenza degli uomini: per troppo tempo è stato insegnato alle donne che il loro compito è quello di farli felici e che se si sentono tristi o feriti significa che lei ha fallito nella sua missione. Forse la pandemia e la crescita dell’interesse per la salute mentale cambieranno qualcosa, ma per ora si può ancora affermare che “alla sofferenza maschile l’intera cultura reagisce voltandosi dall’altra parte”. E di conseguenza l’unica emozione che gli uomini posso permettersi di esprimere è la rabbia repressa, mentre l’intera gamma di sentimenti che provano, che spesso non riescono nemmeno a riconoscere, rimane un tabù.

Qual è il motivo di tutto questo apparato di mutilazione? Il ruolo essenziale dell’uomo nel patriarcato non è quello del cacciatore o del guerriero, ma quello del soldato: una macchina per uccidere, in una gerarchia in cui il “più forte” comanda sul “più debole”, una macchina in cui qualsiasi capacità di esprimere dubbi, dolore o compassione sarebbe considerata una seccatura. La ricompensa riservata al soldato è il potere su chi è identificato come “più debole” (altri uomini, donne e bambini), un potere che spesso si realizza attraverso il sesso, uno dei pochi campi in cui al patriarcato è permesso vincere senza difficoltà. Gli uomini non violentano né uccidono per natura. Lo fanno perché la cultura in cui sono nati lo considera parte del loro ruolo. “Il patriarcato incita alla follia”, dice bell hooks, ed è difficile non essere d’accordo.

Il vero amore tra uomo e donna non può mai nascere in un contesto di violenza e dominio. Bell hooks osserva che paradossalmente il movimento femminista ha promosso manuali di autoaiuto e sviluppo personale come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere di John Gray (Rizzoli 2008) per un pubblico ampio ed entusiasta, offrendogli una comoda conferma dello status quo dei ruoli fissi invece della liberazione. Sedurre e soddisfare i bisogni degli altri non è la “natura” delle donne più di quanto lo sia l’incapacità degli uomini di far fronte alle loro emozioni. La lentezza dei cambiamenti nelle relazioni di coppia si riflette nella cultura: per le femmine ci sono drammi romantici e soap opera (condite essenzialmente di scene sessualmente esplicite), per i maschi gangsta rap e thriller. Insomma, per quanto riguarda i rapporti intimi è più facile immaginare la fine del mondo che quella del patriarcato.

In alternativa alla mascolinità patriarcale, sempre in qualche modo tossica, bell hooks offre la mascolinità femminista, in cui il potere è definito “come la capacità di una persona di essere responsabile per sé e per gli altri”, e non come potere esercitato su un altro essere umano. Questo modello ha fornito agli uomini che si rifiutavano di arruolarsi nella guerra del Vietnam, negli Stati Uniti degli anni settanta, la capacità di ribattere: “Il femminismo gli ha dato una teoria con la quale potevano spiegare la loro opposizione alla mascolinità sessista. Gli ha confermato che è possibile sottoscrivere pubblicamente l’amore per la vita”. Bell hooks mostra che senza il femminismo un movimento contro la guerra sarebbe stato impensabile. La battuta che l’allora governatore della California Ronald Reagan fece su chi manifestava contro la guerra (“Sugli striscioni avevano scritto ‘fate l’amore, non fate la guerra’, ma non sembravano in grado di fare né l’uno né l’altra”) non fa che confermare come questo concetto di mascolinità completamente nuovo, che libera gli uomini dal ruolo di soldato, aveva messo in allarme l’élite al potere. È davvero significativo come i conservatori di tutti i tempi amino svalutare ogni tentativo di resistenza civica scollegandolo dal suo contesto storico o sociale per poi dipingerlo come un frutto della noia, della debolezza o della stupidità. Agli occhi di un pubblico di massa che non si dà mai la pena di approfondire le cose, questa strategia funziona bene.

Alla donna (eterosessuale o omosessuale) è inculcato che deve guadagnarsi l’amore e che può ottenerlo solo attraverso il riconoscimento da parte dell’altro

In ogni caso, il compito del femminismo non è quello di dare una definizione precisa di mascolinità o femminilità, ma di rendere accessibili queste categorie in una discussione che non escluda nessuno, agendo come una forza antiegemone che ostacoli la distribuzione disuguale del potere, che sappia ribattere e opporsi all’ordine stabilito. In un momento in cui sta diventando sempre più ovvio che qualsiasi tentativo di definire l’identità sessuale o di genere paralizza degli esseri pensanti molto precisi con precise esperienze di vita, il tentativo di liberarci dai costrutti culturali imposti dal patriarcato continuando a definire l’uomo come “corpo umano che ha un pene” non è più valido. Quel che è certo, però, è che “solo una rivoluzione dei valori nella nostra società porrà fine alla violenza maschile, e questa rivoluzione sarà inevitabilmente radicata nell’etica dell’amore”.

Bell hooks si era già occupata dell’amore e del suo potere politico nel suo libro sulla controcultura nera Outlaw culture: resisting representations (1994). Criticava le forze politiche progressiste di quegli anni affermando che il loro disprezzo per l’amore non era altro che incapacità di riconoscere i bisogni dello spirito, e la conseguenza della loro fissazione sugli aspetti materiali. Contrapponeva l’etica del dominio all’etica dell’amore: “Senza un’etica dell’amore che imposti la direzione dell’immaginazione politica e delle visioni radicali, continueremo a rimanere fedeli alle strutture del dominio: imperialismo, sessismo, razzismo, discriminazione basata sulla classe sociale”.

Bell hooks ha attaccato la “cecità” dei leader di vari movimenti sociali che rifiutavano di lottare contro un’oppressione che non li riguardava direttamente: questi, in breve, perseguivano il loro interesse invece di battersi per una vera trasformazione sociale che creasse un sistema più giusto. Erano più interessati a usurpare il potere e a far sì, tacitamente, che la struttura di dominio gerarchico restasse uguale. Hooks era convinta che l’etica dell’amore avrebbe impedito questo desiderio egoista, che avrebbe collegato tutti i movimenti libertari per portare veramente a un cambiamento sociale, e non semplicemente a un ritocco estetico del sistema. La scelta dell’amore come pratica di libertà dovrebbe condurre alla vita in comunità e al sostegno reciproco nella trasformazione, perché pone l’accento sull’aiuto del prossimo.

Mentre Tutto sull’amore è principalmente un’analisi e una critica della società “senza amore” (loveless­ness), Salvation: black people and love (2001) è una guida completa che si prefigge di mostrare un’alternativa al marasma di tutte le forme di violenza patriarcale. L’etica dell’amore diventa qui un concetto chiave, “una piattaforma su cui rinnovare la progressiva lotta contro il razzismo, una guida alla sopravvivenza e all’autodeterminazione”. Le caratteristiche chiave di questo tipo di amore rimangono le stesse: cura, impegno, fiducia, responsabilità, rispetto e conoscenza. Anche se le sue analisi e i suoi appelli riguardano principalmente la comunità afroamericana, bell hooks continua a sottolineare che non è possibile trasformare con successo la struttura e i processi della società se alcune sue parti rimangono uguali. Una prova del successo di questo approccio è il movimento per i diritti civili di Martin Luther King (“Ho scelto l’amore”), in contrasto con il misogino Black power, che, pur avendo fatto suo il momento rivoluzionario, ha messo da parte l’etica dell’amore e si è concentrato sul potere. Allo stesso modo bell hooks critica l’utilitarismo degli afroamericani, che fa della ricchezza materiale e dell’opportunità di goderne l’obiettivo fondamentale. Anche qui il rimedio è da cercare nell’etica dell’amore.

Il femminismo è il passaggio obbligato per chi vuole conoscere l’amore. E come il vero amore non potrà mai crescere in un contesto di dominio e d’ingiustizia sociale, così anche la politica basata sull’etica dell’amore, e non sull’usurpazione del potere e del controllo, sarà qualitativamente distante da quelle che emergono nel contesto del patriarcato. “Dobbiamo tornare all’amore e proclamarne il potere trasformativo”: così bell hooks conclude il primo capitolo di Communion. Qualsiasi movimento politico che agisca nell’ambito della lotta per la libertà avrà successo. “Nel momento in cui scegliamo l’amore, ci opponiamo al dominio, all’oppressione. Nel momento in cui scegliamo di amare, comincia la nostra liberazione, quindi agiamo per liberare noi stessi e gli altri. Questa azione ci viene in eredità dall’amore in quanto pratica di libertà”, conclude in Outlaw culture.

Ho comprato online una copia di Salvation su internet. Ho scelto quella usata più economica, tutta stropicciata e piena di appunti. Contiene anche le seguenti parole, piene di errori d’ortografia: “Ho seri problemi ad affrontare l’abbandono. Come madre single, come figlia cresciuta senza padre, divorziata. Mi sento come se l’amore stesse evitando la mia vita. E poi guardo negli occhi dei miei figli e so che l’amore esiste”. Bell hooks è una studiosa che, con il suo stile accessibile, l’empatia e l’intuizione è stata capace di parlare alle profondità dell’animo di tutti i lettori, dal laureato alla madre lavoratrice, e di ribaltarne la visione del mondo. Fortunatamente, grazie al suo stile, possiamo discutere appassionatamente dei suoi libri anche dopo la sua morte. ◆ ab

Marta Martinová
è una sociologa ceca. Insegna all’università Carolina di Praga. Questo articolo è uscito sul quindicinale ceco A2 con il titolo Etika lásky.

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Questo articolo è uscito sul numero 1450 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati