Nelle profondità di una grotta sudafricana è stato trovato il cranio parziale di un bambino della specie umana Homo naledi. Secondo i ricercatori, che hanno chiamato il bambino Leti, la scoperta dimostra che questa specie seppelliva i morti.

Dato che il cranio di Leti si trovava in una fenditura stretta e quasi irraggiungibile, la squadra è convinta che sia stato sistemato lì di proposito, nell’ambito di una pratica funebre. Nel corso della conferenza stampa organizzata online per presentare il ritrovamento, i ricercatori hanno definito il cranio la prova che ominidi con il cervello molto più piccolo del nostro hanno celebrato riti funebri per centinaia di migliaia di anni. “È difficile immaginare altri motivi per mettere il cranio in un punto così difficile”, ha detto Lee Berger dell’università del Witwatersrand di Johannesburg, in Sudafrica.

Berger e i suoi colleghi esplorano il sistema di grotte Rising Star da molti anni e nel 2015 hanno descritto l’Homo naledi, una nuova specie di ominide. Sul pavimento della camera di Dinaledi, raggiungibile solo da speleologi capaci di infilarsi in spazi angusti, c’erano più di mille resti ossei. L’Homo naledi aveva dei tratti in comune con gli esseri umani moderni, ma per altri aspetti, soprattutto il cervello di dimensioni ridotte, ricordava specie più antiche.

Duecentocinquantamila anni fa

Due anni dopo in un’altra zona della grotta, la camera di Lesedi, i ricercatori hanno trovato uno scheletro intero di Homo naledi, che hanno chiamato Neo. Sono riusciti a stabilire che era vissuto circa 250mila anni fa, in concomitanza quindi con la nostra specie e con altri ominidi dal cervello grande, come i neandertal.

Nel settembre del 2017 i ricercatori, tra cui Marina Elliott dell’università Simon Fraser di Burnaby, in Canada, hanno cominciato a esplorare alcune zone più interne delle grotte. “La distanza non era tanta, appena dodici metri dai resti nella camera di Dinaledi, ma il percorso era difficile e claustrofobico”, racconta Elliott. In alcuni tratti il cunicolo era largo poche decine di centimetri e bisognava procedere di lato e perfino a testa in giù. In uno di questi passaggi, alto 80 centimetri e largo 20, c’era una piccola sporgenza su cui i ricercatori hanno trovato 28 frammenti di cranio e sei denti. Una volta in superficie hanno stabilito che quasi certamente appartenevano a un unico individuo, che hanno chiamato Leti, ispirandosi alla parola della lingua tswana letimela, che significa “smarrito”. La squadra ha descritto Leti e le grotte circostanti in due articoli. Due denti erano da latte e quattro permanenti (ma non consumati, quindi spuntati da poco). “Probabilmente Leti aveva tra i quattro e i sei anni”, dice Juliet Brophy della Louisiana state university di Baton Rouge, negli Stati Uniti.

Fin dall’inizio Berger aveva sostenuto che le ossa di Homo naledi fossero state sistemate nelle grotte da loro simili dopo la morte, e la scoperta di Leti, avvenuta ancora più all’interno, ha rafforzato le sue convinzioni.

Altre possibili spiegazioni sono improbabili, spiega Darryl de Ruiter della Texas A&M university di College Station, negli Stati Uniti: “Non ci sono indizi di attività carnivore: né segni di denti né tracce di rosicchiamento”. Questo esclude che le ossa siano state portate nelle grotte da animali. “Mancano anche indizi di uno spostamento massiccio di acqua che possa averle depositate lì”, aggiunge.

Come avrebbero fatto, quindi, gli Homo naledi a portare i resti così in profondità? “Secondo i geologi, i luoghi più impervi della grotta sono sempre stati al buio”, afferma Steven Churchill della Duke university di Durham, negli Stati Uniti. Gli speleologi hanno incontrato babbuini che si spostavano nei cunicoli affidandosi al tatto, e probabilmente l’Homo naledi faceva lo stesso. È anche possibile che usasse il fuoco per fare luce. “Abbiamo trovato resti di carbone, ma non siamo in grado di attribuirli con certezza agli ominidi”, aggiunge Churchill. La capacità di controllare il fuoco risale a 400mila anni fa, almeno in Europa. “L’ipotesi che l’Homo naledi usasse delle torce non mi sorprenderebbe”, conclude. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 109. Compra questo numero | Abbonati