Da piccolo, in Missouri, Christopher Yost conservava intere scatole di fumetti Marvel, che la madre comprava al supermercato. Nessuno dei suoi amici aveva la stessa passione. Era il suo mondo, una “grande storia in cui tutti i personaggi vivevano insieme in questo universo”, ricorda. Wolverine poteva fare squadra con Capitan America, il Dottor Destino poteva combattere contro Teschio Rosso. A differenza dei fumetti della DC, i cui personaggi (Superman, Batman) svettavano come divinità, quelli della Marvel erano umani. Con loro era facile identificarsi, in particolare con Peter Parker, l’Uomo Ragno.

Nel 2001 Yost, che all’epoca aveva 27 anni, stava seguendo un corso di laurea magistrale sul cinema a Los Angeles, ma voleva diventare uno scrittore. Aveva buttato giù una sceneggiatura su un’invasione aliena, ma nessuno studio aveva voluto produrla. Venne a sapere che la Marvel aveva aperto una sede distaccata sulla costa occidentale e chiamò per un colloquio. Lo studio condivideva un piccolo ufficio con una società che produceva aquiloni. Erano sei dipendenti, tra cui Kevin Feige, un ragazzo con un cappellino da baseball che aveva poco più di vent’anni. Feige fece sedere Yost per quella che si trasformò in una gara a chi ne sapeva di più sui fumetti.

Robert Downey Jr. in Avengers: endgame (2019) (© Walt Disney Studios Motion Pictures / © Marvel Studios/Everett Collection/Contrasto)

Yost fu preso per uno stage estivo. Lavorava alla scrivania di Stan Lee, leggendario ex caporedattore della Marvel, che raramente andava in ufficio. L’azienda, che qualche anno prima aveva dichiarato bancarotta, aveva aperto la filiale di Los Angeles per concedere in licenza i personaggi della Marvel agli studi di Holly­wood. Il lavoro di Yost era scavare nel vasto catalogo di personaggi e dare una mano a confezionarli per il cinema. “In poche parole, cercavo di risvegliare l’interesse per i personaggi”.

Nel 2010 a Yost fu proposto di entrare nella squadra di scrittori della Marvel Studios, che stavano producendo lungometraggi live-action (con attori in carne e ossa) di sorprendente successo. L’anno precedente, dopo che il primo film della Marvel, Iron Man, aveva incassato più di cinquecento milioni di dollari, la Disney aveva comprato lo studio per quattro miliardi di dollari e aveva spostato la sede vicino a Manhattan beach, a sud di Los Angeles.

Feige nel frattempo era diventato presidente dei Marvel Studios. Si spostava da una sala conferenze all’altra, mentre le varie squadre pianificavano le fasi successive di quello che sarebbe diventato noto come il Marvel cinematic universe, Mcu. Che siate degli appassionati dei film Marvel o che li detestiate, è impossibile sfuggire alla loro influenza. Nel complesso le pellicole dell’Mcu – Guardiani della galassia Vol. 3, la 32a, è uscita a maggio del 2023 – hanno incassato più di ventinove miliardi di dollari, rendendo il marchio il maggior successo nella storia dell’intrattenimento. Questa valanga di contenuti si estende anche alle serie tv e ad altre piattaforme, con una base internazionale di fan che setacciano ogni annuncio e ogni riassetto aziendale in cerca di indizi sui nuovi progetti.

Come nei fumetti, l’innovazione principale dell’Mcu è una cornice narrativa condivisa, in cui l’Uomo Ragno può chiedere aiuto al Dottor Strange e Iron Man sfida l’astuto fratello di Thor. Nel cinema di Hollywood i sequel sono sempre esistiti, ma l’Mcu ha creato una tela di trame interconnesse; nuovi personaggi, introdotti sia in film a sé sia come comprimari in storie con altri protagonisti, si scontrano poi nei film culminanti degli Avengers. Negli anni settanta Lo squalo e Guerre stellari diedero a Hollywood un nuovo modello per fare soldi: il blockbuster estivo pubblicizzato in modo continuo. L’Mcu ha moltiplicato la formula, in modo che ogni successo di botteghino ne generi un altro. David Crow, redattore del sito Den of Geek, la definisce un “piano strategico per un prodotto che non si esaurisce mai”.

Black Panther (2018) (© Marvel Studios)

Espansione

Vent’anni fa poche persone pensavano che una casa editrice di fumetti in difficoltà potesse trasformare un gruppo di supereroi di seconda scelta in icone del cinema, e ancora meno che avrebbe fagocitato l’industria cinematografica. Eppure il fenomeno Marvel ha trascinato Hollywood in una nuova epoca ubriaca di franchising, in cui la proprietà intellettuale, più che il potere delle star o la creatività dei registi, guida la produzione, mentre gli studi cinematografici si affannano a combinare insieme gli universi narrativi.

Questo cambiamento è arrivato in un momento pericoloso per il cinema. Il pubblico, soprattutto dopo la pandemia, vede meno film in sala e ne guarda di più in strea­ming da casa, costringendo le case cinematografiche a puntare su film costruiti intorno a prodotti famosi, come nel caso di Super Mario Bros. - Il film. Kevin Goetz, fondatore di Screen Engine, una società che studia il comportamento degli spettatori, ha sottolineato la vocazione al “divertimento di alta qualità” della Marvel per spiegare come fa a portare la gente in sala: “Creano giostre, grandi giostre da luna park”. Il successo della Marvel, ha aggiunto, ha “soffocato” altri contenuti d’intrattenimento. Intere categorie di film – drammi per adulti, commedie sentimentali – sono in via di estinzione, perché il pubblico è disposto ad aspettare che quei film arrivino sulle piattaforme di streaming o si appassiona a serie tv come Succession o The white lotus. Tuttavia, anche la televisione di qualità è stata invasa dalle serie della Marvel, da Star wars al Signore degli anelli, che usano il piccolo schermo per mappare nuovi angoli delle loro galassie. Gli sceneggiatori di Hollywood, che stanno scioperando per avere una parte maggiore degli incassi dello streaming, si lamentano anche della limitata immaginazione dei dirigenti televisivi: invece di cercare il prossimo Mad men, vanno a caccia di spin-off di Batman.

Lo stile fantasmagorico della Marvel ha contagiato anche alcuni vincitori di premi Oscar. La pellicola premiata come miglior film nel 2023, Everything everywhere all at once, è una fusione marveliana di azione travolgente, umorismo strampalato e mitologia del multiverso. La Marvel, nel frattempo, ha colonizzato quasi tutti gli altri generi. WandaVision, per esempio, prende spunto da sitcom classiche.

Alcune persone criticano la tendenza della Marvel a invadere ogni settore. Un dirigente di uno studio concorrente, che ha definito l’Mcu “la morte del cinema”, mi ha detto che il dominio dei film Marvel “ha accelerato la scomparsa dei film di fascia media”. Le commedie del suo studio hanno faticato al botteghino: “Ora le persone che vogliono vedere una commedia scelgono Thor o Ant-Man”.

Manette ai polsi

In un certo senso, la Marvel si rifà al vecchio sistema degli studi di Hollywood, in cui la Paramount e la Warner Bros mantenevano scuderie di star con contratti settennali e la Metro-Goldwyn-Mayer sfornava musical cinematografici.

Spider-Man: homecoming (2017) (© Columbia Pictures / © Marvel Studios)

Samuel L. Jackson, che interpreta la spia Nick Fury nel film tratto dal fumetto Marvel, ha firmato un contratto di nove film con l’azienda e ora è arrivato con lo stesso personaggio su Disney+, con la miniserie Secret invasion. La rosa dell’Mcu comprende star non più giovani (Robert Redford, Glenn Close), attori a metà carriera (Scarlett Johansson, Chris Pratt) e talenti emergenti (Florence Pugh, Michael B. Jordan). Forse si fa prima a contare gli interpreti che si sono rifiutati di entrare nel mondo della Marvel, come Timothée Chalamet, al quale Leonardo DiCaprio una volta ha consigliato: “Niente droghe pesanti e niente film di supereroi”. I film tratti dai fumetti hanno attirato stelle già dai tempi di Superman (Marlon Brando, 1978) e Batman (Jack Nicholson, 1989), ma l’universo Marvel, per come è costruito, può vincolare un attore per anni. Benedict Cumberbatch è passato dall’interpretare Amleto a invocare “il grande calcolo del multiverso” nei panni di Doctor Strange. Interpretare un personaggio Marvel spesso significa non solo essere protagonista di film, ma anche girare camei e crossover, al punto che perfino gli attori si confondono. Gwyneth Paltrow, che interpreta Pepper Potts, la compagna di Iron Man, non aveva idea di essere apparsa in Spider-Man: homecoming, fino a quando il regista Jon Favreau non gliene ha parlato durante una puntata del suo programma di cucina.

Può essere scoraggiante vedere tanti attori di talento risucchiati nel regno quantico dell’Mcu. Sicuramente guadagneranno molto, ma i soldi non possono spiegare tutto. “Arriva un momento in cui vuoi fare la differenza”, ha detto un agente che rappresenta diversi attori dell’Mcu. “Il successo è la droga più potente”. Quest’anno Angela Bassett è diventata la prima attrice a ricevere una nomination all’Oscar per un ruolo in un film della Marvel, Black Panther: Wakanda forever. A febbraio mi ha detto: “Noi attori cerchiamo di rimanere al passo con i tempi e la Marvel ha una formula vincente”. Intere generazioni ormai conoscono Anthony Hopkins non come Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti ma come il padre di Thor, il re Odino di Asgard. “Mi hanno messo un’armatura e appiccicato una barba in faccia”, mi ha detto Hopkins. “Ti siedi sul trono e urli un po’. Se sei seduto davanti a uno schermo verde, è inutile recitare”.

Così molti gridano alla “morte delle stelle del cinema”. In un ecosistema trainato dalle proprietà intellettuali, le singole star non attirano più il pubblico nelle sale come un tempo, a parte poche eccezioni come Tom Cruise e Julia Roberts. Si va a vedere un film della Marvel per vedere Capitan America e non per vedere l’attore che lo interpreta, cioè Chris Evans.

Allo stesso modo, la Marvel ha messo sotto contratto sceneggiatori, artisti degli effetti speciali e addetti di quasi tutte le altre professioni di Hollywood, compresi i registi, che spesso sono strappati ad altri generi. Il regista neozelandese Taika Waititi ha realizzato il falso documentario sui vampiri Vita da vampiro – What we do in the shadows e poi è finito a girare Thor. Chloé Zhao è passata da western malinconici girati in economia agli Eternals della Marvel. I percorsi di carriera che una volta portavano agli Oscar ora conducono inesorabilmente allo sviluppo dell’universo Marvel. Un agente che lavora con gli sceneggiatori si è lamentato: “Mi preoccupo per l’industria cinematografica, perché se sei Chloé Zhao e vuoi una grande tela per raccontare una storia, sei per lo più costretta a usare la tela di un grande supereroe”. E ha aggiunto: “È come avere delle manette d’oro ai polsi”.

La fase quattro ha dato il via alla “saga del multiverso”, che si svilupperà fino al 2026

Le critiche non sono mancate. Nel 2019 Martin Scorsese ha dichiarato che i film della Marvel “non sono cinema”, guadagnandosi l’eterna inimicizia dei fan dei fumetti. Nel 2022 Quentin Tarantino ha detto: “Solo un mercenario può fare certe cose”. Ho citato questo commento a Joe e Anthony Russo, due fratelli che hanno diretto quattro film della Marvel, tra cui il maggiore incasso di sempre, Avengers: end­game. Anthony ha risposto: “Non credo che Quentin si senta tagliato per fare un film della Marvel, e forse è per questo che si sentirebbe un mercenario. Dipende dal rapporto che hai con il materiale di partenza”. Joe ha aggiunto: “Ci appaga l’idea di costruire un senso di comunità intorno al nostro lavoro”. Le persone coinvolte nei progetti della Marvel usano spesso l’espressione “giocare nella sandbox” (la sabbiera per bambini, cioè un ambiente circoscritto e protetto), per far intendere che il marchio ha la precedenza su qualsiasi espressione individuale, tranne quella di Feige, il volto amichevole del franchise.

Gli addetti ai lavori amano speculare su una possibile “stanchezza da Marvel”, che sembra però un’illusione, anche se una recente serie di passi falsi creativi e di screzi aziendali ha fatto sognare i rivali. Resta il fatto che i concorrenti della Marvel, anche quelli che si lamentano del suo modello di produzione, hanno passato l’ultimo decennio a cercare d’imitarla. I DC Studios, di proprietà della Warner Bros, hanno un bilancio altalenante, con film spesso aggressivi che si prendono molto sul serio e che non hanno l’energia e il controllo di qualità della Marvel. Nel 2022 la Warner Bros ha assunto James Gunn (che ha diretto la trilogia dei Guardiani della Galassia della Marvel) e Peter Safran, per rilanciare l’universo cinematografico della DC, presumibilmente a immagine e somiglianza dell’Mcu. Anche la Sony ha cercato di fare qualcosa di simile, ma non c’è riuscita.

La lezione è che per creare un universo non basta la semplice volontà. La Marvel, che aveva un groviglio preesistente di trame di fumetti a cui attingere, ha lanciato i suoi film con metodo, guadagnandosi la fiducia del pubblico.

Idee postcoloniali

Il Marvel cinematic universe nasce, in modo inatteso, su un arido paesaggio afgano. L’esplosione di un pezzo degli AC/DC annuncia l’arrivo di un Humvee con a bordo Tony Stark, il produttore di armi e playboy interpretato da Robert Downey Jr in Iron Man. Nei primi dieci minuti del film, uscito nel maggio 2008, Tony gioca d’azzardo, difende il complesso militare-industriale e seduce una giornalista. L’Mcu è una realtà aumentata, un mondo che somiglia al nostro, a cui si sovrappongono i supereroi, ma il tono adulto di Iron Man, con le sue sfumature di geopolitica da era Bush, non è durato. “È molto diverso da quello che è la Marvel oggi”, ha osservato lo sceneggiatore di Thor, Zack Stentz.

Per altri versi, Iron Man ha tracciato una chiara rotta per il modello delle serie di film, con scoppi d’azione punteggiati da un umorismo arguto e autoreferenziale, alimentato dall’interpretazione logorroica e in gran parte improvvisata di Downey Jr. In una scena che segue i titoli di coda Samuel L. Jackson, nei panni di Nick Fury, irrompe nel film e dice a Tony: “Signor Stark, lei è diventato parte di un universo più grande”. L’incredibile Hulk, uscito il mese successivo, si conclude con l’apparizione di Tony in un bar che parla di “mettere insieme una squadra”. Il modello era già pronto: ogni film avrebbe contenuto il germe del successivo e si sarebbe concluso con un mistero avvincente o un crossover.

Trenta film dopo, i critici della Marvel (e anche alcuni fan) si lamentano di questa formula. C’è lo scontro finale animato con gli effetti digitali, che spesso contrappone un Iron Man buono a un Iron Man cattivo, o un drago buono a un drago cattivo, o una strega buona a una strega cattiva. C’è l’autoironia, i cattivi intercambiabili. Ci sono personaggi morti che riappaiono, come in una soap opera. La maggior parte delle trame si riduce a “proteggi l’oggetto luminoso dal cattivo”, e la posta in gioco è addirittura il destino del mondo, talmente grande che è come dire tutto e niente.

Tuttavia, all’interno di questa cornice l’Mcu consente una serie di variazioni stilistiche. Il Thor shakespeariano di Kenneth Branagh ha ceduto il passo ai sequel demenziali di Waititi, pieni di battute volgari ed heavy metal. Jon Watts ha modellato i suoi film di Spider-Man sui drammi adolescenziali di John Hughes. Per Captain America: the winter soldier, i fratelli Russo si sono ispirati ai thriller degli anni settanta come I tre giorni del Condor. E i film del ciclo Black Panther di Ryan Coogler, che fanno parte di una categoria a parte, sono intrisi di afrofuturismo e di idee politiche postcoloniali.

Apparato opprimente

Ci si potrebbe immaginare di arrivare al primo giorno di lavoro per un film della Marvel e vedersi consegnare una bibbia rilegata in pelle sulla mitologia dei personaggi. Invece ai registi in lizza per un progetto Marvel viene consegnato solo un “documento di discussione” di una quindicina di pagine. Per ricevere l’incarico non è necessaria un’adesione pedissequa al documento, ma un approccio ingegnoso alla sua esecuzione. I film vengono girati in tutto il mondo ma montati a Burbank, in California, vicino all’ufficio di Feige. Il team creativo di ogni film si incontra più volte alla settimana con i vertici della Marvel, fino a poco tempo fa un gruppo noto come il Trio, composto da Feige, Louis D’Esposito e Victoria Alonso. I registi ricevono anche gli appunti del “parlamento”, un gruppo di alti dirigenti creativi assegnati ai singoli progetti, ma li esaminano tutti come comitato.

Tutto questo apparato aziendale può sembrare opprimente, ma i collaboratori della Marvel tendono a descrivere le loro esperienze come libere e prive di vincoli. Joe Johnston, che ha diretto il primo film di Capitan America, mi ha detto: “Non ci è stato imposto nulla”. Erik Sommers, co-sceneggiatore della trilogia di Spider-Man, ha ricordato che gli assistenti della Marvel avevano messo insieme un documento che spiegava la differenza tra “universo” e “dimensione”. Ma non c’era “un gigantesco diagramma di punti preesistenti che dovevano essere collegati in un certo ordine”.

Guardiani della galassia Vol. 2 (2017) (© Marvel Studios)

Alcuni registi, come Patty Jenkins ed Edgar Wright, hanno abbandonato i progetti Marvel dopo aver lottato per un maggiore controllo creativo. “I problemi nascono quando un regista dice ‘ecco cosa voglio fare’, e poi torna e dice di voler fare qualcosa di completamente diverso”, mi ha riferito un ex dirigente della Marvel. “Poi si lamenta che ‘Kevin Feige è arrivato e ha preso il controllo di tutto. Ma se conosci lo schema, alla Marvel hai tanta libertà creativa, perché si lavora all’interno di una cornice”. Scorsese rabbrividirebbe. I registi sono spesso lasciati all’oscuro dei piani più ampi dell’Mcu. Nel film di Johnston il migliore amico di Capitan America, Bucky, interpretato da Sebastian Stan, cade da una montagna. Torna nei film successivi come Soldato d’Inverno, un personaggio importante, ma Johnston non era a conoscenza del destino del personaggio quando ha diretto la drammatica scena della sua morte.

Feige, che non ha voluto farsi intervistare per questo articolo, ha la fama di essere un mago di Oz onnisciente, ma i collaboratori lo descrivono come un appassionato di fumetti che interviene e offre soluzioni attingendo alla sua enciclopedica conoscenza della Marvel. “Ogni volta che qualcuno gli propone qualcosa, lui si immagina in un cinema con un cestino di popcorn”, mi ha detto Yost. Uno scambio di opinioni può portare a grandi stravolgimenti. Quando i Russo hanno spinto per basare il terzo film di Capitan America sui fumetti di Civil War – una serie crossover che coinvolgeva un plotone di supereroi – Feige ha lavorato per mesi per far allineare gli attori e le proprietà intellettuali. Anthony Russo ha ricordato: “Un giorno ha aperto la porta, ha fatto capolino e ha detto: ‘La guerra è alle porte’”. Ma lo zelo di Feige nasconde un’abilità manageriale più sottile. “È davvero bravo a ottenere ciò che vuole, e allo stesso tempo a far sentire tutti come se avessero ottenuto ciò che volevano”, ha spiegato l’ex dirigente.

Storia della creazione

Nelle storie di supereroi, le origini sono fondamentali. L’universo Marvel ne ha diverse. La prima comincia nel 1939, quando l’editore Martin Goodman lanciò la Timely Comics, a Manhattan. Il suo primo numero, Marvel Comics n. 1, conteneva le storie della Torcia Umana e di Namor. Nel numero sette, una poliziotta nomina la Torcia a Namor, rivelando che i personaggi abitano nello stesso mondo immaginario. Poco tempo dopo Stanley Lieber, un giovane cugino della moglie di Goodman, entrò alla Timely come fattorino. Ben presto iniziò a scrivere le storie sotto lo pseudonimo di Stan Lee.

Lee era ancora un adolescente che suonava l’ocarina quando diventò caporedattore di Timely, presidiando il periodo d’oro dell’azienda durante la guerra. Il suo eroe di punta, Capitan America, sconfiggeva Hitler guadagnandosi un vasto seguito tra i soldati oltreoceano. A differenza della DC Comics, i cui personaggi vivevano a Metropolis o a Gotham City, gli eroi Marvel vivevano tra noi. Namor scalava l’Empire State Building di New York, dove la Timely aveva gli uffici al quattordicesimo piano. Una volta finita la guerra, la mania per i supereroi si affievolì, e il congresso degli Stati Uniti diede ai fumetti la colpa della delinquenza giovanile. Nel 1957 Lee dovette licenziare tutto lo staff. Poi c’è la seconda storia delle origini, cioè la resurrezione. Nel 1961 Goodman stava giocando a golf con l’editore della DC e venne a sapere che i suoi eroi sarebbero presto apparsi insieme nella Justice League of America. Goodman disse a Lee di copiare il concetto di supergruppo, e Lee e il disegnatore Jack Kirby pubblicarono I Fantastici Quattro n. 1. Durante la sua “età d’argento”, la rinominata Marvel Comics lanciò una serie di nuovi personaggi – l’Uomo-Ragno, l’incredibile Hulk, Iron Man – diventando un’alternativa moderna alla DC. Nel 1965 la tiratura era triplicata, raggiungendo i trentacinque milioni di copie all’anno. Tra i fan c’erano Federico Fellini, i seguaci del movimento beatnik e gli universitari.

Per un certo periodo Lee assicurò la continuità di questo universo in espansione, ma a un certo punto le sue attenzioni si spostarono verso Hollywood, dove si trasferì nel tentativo di portare la Marvel sullo schermo. Ebbe fortuna in tv, con i cartoni animati del sabato mattina e la serie live-action L’incredibile Hulk, in onda dal 1977 al 1982. Ma anche se i film di Superman dimostrarono che i supereroi potevano funzionare sul grande schermo, i progetti della Marvel si bloccarono. La Cannon Pictures comprò i diritti di Spider-Man. All’inizio degli anni ottanta si parlava di Tom Selleck come interprete del Dottor Strange. Non se ne fece niente. Nel 1986 la Universal distribuì il primo film basato su una proprietà Marvel, Howard il papero, su uno spiritoso papero alieno che cade sulla Terra. Fu un fiasco.

Thor: Ragnarok (2017) (© Marvel Studios)

Terza storia delle origini: un’altra resurrezione. Nel 1989 il miliardario statunitense Ron Perelman comprò la Marvel per 82,5 milioni di dollari, definendola una “mini-Disney in termini di proprietà intellettuale”. Ma pensava che i film fossero troppo rischiosi. Quindi gonfiò la società, ribattezzata Marvel entertainment group, con carte collezionabili e figurine. A metà degli anni novanta il famoso ufficio di scrittori e disegnatori di fumetti della Marvel aveva perso molte delle sue star e il grosso del personale fu licenziato. Esasperati dal calo di qualità, i fan cominciarono un boicottaggio.

Ad aggravare i problemi finanziari della Marvel, uno sciopero della Major League Baseball fece crollare il settore delle figurine. Nel quarto trimestre del 1996 l’azienda registrò perdite per quattrocento milioni di dollari. Il prezzo delle azioni crollò. Perelman dichiarò bancarotta. Un altro miliardario, Carl Icahn, guidò una cordata di obbligazionisti insorti in un tentativo di acquisizione. Per un anno e mezzo i due uomini si scontrarono in un tribunale fallimentare del Delaware per il controllo della Marvel, come Goblin contro l’Avvoltoio.

Non vinse nessuno dei due. A sorpresa la spuntò Isaac (Ike) Perlmutter, un imprenditore israeliano. La sua azienda, la Toy Biz, aveva un contratto di licenza esclusiva con la Marvel. Perlmutter aveva prestato servizio nell’esercito israeliano e teneva una pistola in una valigetta che apriva durante le trattative. Nel 1998 il tribunale approvò il suo piano di ristrutturazione dell’azienda.

Personaggi da recuperare

Perlmutter non sapeva distinguere Iron Man da Silver Surfer. Ma il suo socio in affari, Avi Arad, era un grande appassionato di fumetti. Arad, un israeliano che indossava giacche Harley-Davidson, si era fatto un nome come designer di giocattoli. Sapendo che la Marvel aveva bisogno di soldi, aprì un ufficio a Los Angeles per concedere in licenza i personaggi. In breve tempo, riuscì dove Lee aveva fallito. Vendette gli X-Men alla Fox, che nel 2000 distribuì il primo film basato su quei personaggi. Assunse Feige, un giovane produttore associato di quel film, per lavorare a tempo pieno per la Marvel. I diritti dell’Uomo Ragno, che erano stati sparpagliati tra sei diverse entità, furono miracolosamente raggruppati e venduti per dieci milioni di dollari a film alla Sony, che distribuì il primo film con Tobey Maguire nel 2002, incassando più di ottocento milioni di dollari in tutto il mondo. La Marvel era finalmente entrata nel mondo del cinema. Ma, parcellizzando la sua proprietà intellettuale tra gli studi cinematografici di tutta la città, aveva sacrificato una parte essenziale del suo dna: i suoi eroi non potevano interagire sullo schermo.

Esiste poi una storia delle origini che è stata ignorata per molto tempo. Alla fine dell’estate del 2003 David Maisel, un agente di spettacolo, era nel suo appartamento a Los Angeles. Aveva lavorato per due anni all’agenzia Endeavor e stava valutando la sua prossima mossa. Cercava qualcosa di diverso, voleva gestire uno studio cinematografico. “Fu allora che pensai: ‘Se riuscissi a produrre un film in cui credo, e ogni film successivo fosse un sequel – con gli stessi personaggi – si potrebbe andare avanti per sempre’”, mi ha detto, poi ha aggiunto: “Non si trattava di fare trenta nuovi film ma di fare un film con ventinove sequel. Quello che si può chiamare universo”. Secondo lui da quell’idea è nato l’Mcu.

Ho incontrato Maisel, un uomo snello dalla voce bassa, in un ufficio tappezzato di poster Marvel, action figures e sedie da regista. Indossava pantaloni cargo e una felpa con cappuccio di Silver Surfer. È convinto che senza di lui l’Mcu non esisterebbe: “La maggior parte delle persone pensa che Kevin Feige abbia fondato lo studio. Non sanno nemmeno che esisto”. John Turitzin, che fino a poco tempo fa era il capo dei consulenti legali della Marvel Entertainment, mi ha detto: “David è stato in un certo senso cancellato dalla storia dello studio, ed è una cosa molto strana. È una sua creatura”.

Da sapere
Battaglia sindacale

Da più di un mese è in corso lo sciopero degli attori di Holly­wood, il più grande dagli anni ottanta. È stato organizzato dal sindacato Sag-Aftra, che chiede alle aziende di produzione cinematografica di negoziare un nuovo accordo collettivo. L’obiettivo è ottenere per gli attori migliori condizioni di lavoro e compensi più alti. Il sindacato chiede soprattutto di rivedere i compensi generati dai diritti d’autore, che rappresentano il grosso delle retribuzioni per la maggior parte degli attori. Il sistema attuale, negoziato molti anni fa, si basa sul concetto di replica, che secondo il sindacato è stato superato dalla nascita delle piattaforme di streaming. Gli attori chiedono anche maggiori tutele rispetto all’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle produzioni cinematografiche. Temono che gli studi possano usare le nuove tecnologie per riprodurre digitalmente gli attori, in modo da non doverli pagare per ogni produzione e risparmiare sui costi. Una situazione di questo tipo viene raccontata in Joan è terribile, il primo episodio della nuova stagione della serie tv Black mirror.

Lo sciopero degli attori si somma a quello degli sceneggiatori, cominciato all’inizio di maggio. Anche loro chiedono alle casi di produzione di negoziare un nuovo accordo che tenga conto di come è cambiato il settore negli ultimi anni. Gli sceneggiatori di Hollywood sostengono che il loro lavoro è diventato più precario e peggio retribuito. Molti fanno fatica a vivere a Los Angeles, a New York e in altre città dove hanno sede le case di produzione, e dove il costo della vita è molto alto.

Era dal 1960 che attori e sceneggiatori non scioperavano insieme. Le due proteste stanno bloccando la produzione di molte serie, film e programmi tv negli Stati Uniti, e anche la promozione dei prodotti già pronti, visto che gli attori iscritti al sindacato non parteciperanno a mostre del cinema e non rilasceranno interviste. La settimana scorsa è cominciata una nuova fase di negoziati tra i rappresentanti sindacali e quelli delle case di produzione. Variety


Maisel è cresciuto a Saratoga Springs, figlio di un dentista e di una casalinga di origine cecoslovacca. “I fumetti della Marvel, e soprattutto Iron Man, erano la mia passione”, ha raccontato seduto su un divano con cuscini di Iron Man, con i piedi su un tappeto di Spider-Man. Negli anni ottanta Maisel cercò di convincere i suoi compagni di corso alla Harvard Busi­ness School a “comprare la Marvel”, ma l’idea non andò in porto. Lavorò per delle società di consulenza, ma dopo la morte della sorella, malata di lupus, si rese conto che “la vita è preziosa” e si trasferì a Hollywood, dove cominciò a lavorare per il superagente Michael Ovitz. “Aveva bisogno di un laureato ad Harvard da sfoggiare a casa di Warren Beatty”, mi ha detto Maisel. Quando Ovitz diventò presidente della Disney – un periodo turbolento durato sedici mesi – Maisel lo seguì e si occupò di pianificazione strategica alla Abc, controllata dalla Disney e diretta da Bob Iger. “Alla Disney ho imparato il potere dei franchising”, ha ricordato Maisel. Entrò alla Endeavor su invito dei soci Ari Emanuel e Patrick Whitesell.

A Hollywood Maisel cominciò a pensare che la Marvel avrebbe dovuto finanziare i propri film intrecciando le storie dei personaggi. Il problema era che lui non lavorava alla Marvel. Ne parlò a Perlmutter, che però era scettico: per lui i film erano soprattutto uno strumento per vendere prodotti. Accettò comunque di dare una possibilità a Maisel, nominandolo presidente dei Marvel Studios. Maisel convinse il consiglio d’amministrazione a non dare in licenza altri personaggi Marvel agli studi cinematografici e, come Nick Fury che riunisce gli Avengers, recuperò tutti i personaggi che poté. Si fece restituire Vedova Nera dalla Lions Gate Entertainment Corporation. Trovò un accordo che consentiva alla Universal di mantenere il diritto di distribuire film su Hulk, ma con una scappatoia che permetteva alla Marvel di usare Hulk come personaggio secondario (questo spiega perché la Marvel non ha mai distribuito un Hulk 2). La New Line restituì i diritti su Iron Man. Maisel raccolse inoltre 525 milioni di dollari, sufficienti per realizzare quattro film. Lo studio organizzò dei focus group con dei bambini, ai quali furono mostrati i supereroi disponibili e fu chiesto quale avrebbero voluto di più come giocattolo. La risposta, sorprendentemente, fu Iron Man.

Arriva la Disney

Negli uffici dei Marvel Studios, che ora si trovano sopra una concessionaria Mercedes-Benz a Beverly Hills, una squadra composta per lo più da uomini nati tra il 1965 e il 1980 e cresciuti con i fumetti Marvel – tra cui Feige e Ari Arad, il figlio di Avi – pianificò la prima serie di film, che avrebbe introdotto gli eroi uno per uno, per poi congiungerli in The Avengers.

Da sapere
Scontro tra titani
Serie di film che hanno incassato di più al botteghino negli Stati Uniti, miliardi di dollari (Fonte: The numbers)

Per dirigere Iron Man la Marvel ingaggiò Jon Favreau, noto soprattutto per la commedia Swingers e per il successo natalizio Elf. Per il ruolo di protagonista bisognava scegliere tra Timothy Olyphant e Robert Downey Jr., la cui carriera era ferma dopo anni di arresti per droga e tentativi di disintossicazione. “Il consiglio di amministrazione pensava che fossi pazzo a mettere il futuro della compagnia nelle mani di un tossicodipendente”, mi ha detto Maisel. “Li aiutai a capire che Downey Jr. era perfetto per la parte. Ci fidavamo di lui e sapevamo che sarebbe rimasto pulito”. Il film, che aveva un budget di appena centoquaranta milioni di dollari, non puntava tanto sulla spettacolarità quanto sulla distaccata giocosità di Downey Jr. e sulla sua intesa con Gwyneth Paltrow. Quando Perlmutter, famoso per risparmiare su tutto, visitò il set, i produttori dovettero nascondere gli snack e le bevande gratuite per la troupe. Allergico ai giornalisti, si presentò alla prima del film camuffato con un cappello e dei baffi finti.

All’inizio del 2009 Maisel incontrò il suo ex collega Bob Iger, che era diventato amministratore delegato della Disney. Gli suggerì di comprare la Marvel, che un po’ alla volta stava crescendo. A Perlmutter fu assicurato che la Disney avrebbe preservato la cultura aziendale della Marvel, come aveva fatto con la Pixar, e che lui sarebbe rimasto amministratore delegato. L’acquisizione fu completata l’ultimo giorno dell’anno. Maisel si dimise, con cinquanta milioni di dollari in più in tasca. “Volevo andarmene e vivere una vita, trovare una moglie, cosa che non ho ancora fatto”, mi ha detto. Aveva fatto in modo che Feige diventasse presidente dello studio e pensava che il marchio fosse in buone mani.

L’Mcu è arrivato tardi nella storia della Marvel, ma con un buon tempismo. Alla fine degli anni duemila serie televisive come Lost avevano educato il pubblico a seguire una narrazione seriale complessa. E la tecnologia degli effetti visivi aveva finalmente raggiunto l’azione sconfinata e al di là delle leggi della fisica dei fumetti. Una cosa era far volare Superman con dei fili e uno schermo verde, un’altra era far trasformare Bruce Banner in Hulk o far sfrecciare Tony Stark nella sua tuta meccanizzata senza che sembrasse finto. La digitalizzazione rendeva filmabile tutto quello che i fumetti avevano solo immaginato.

Feige diventò il testimonial del successo fulminante della Marvel, ma il baule dei giocattoli apparteneva ancora a Perlmutter, che continuava a intromettersi da New York. Da quando aveva preso il controllo della Marvel, aveva imposto una frugalità ossessiva. Ripescava le graffette dalla spazzatura. “Invece di lasciarci arredare i nostri uffici, ci fece arrivare un camion pieno di mobili che aveva in un magazzino”, ha ricordato un ex dirigente. Perlmutter voleva che anche per i film si spendesse il meno possibile. Scoppiò una faida tra Feige e Perlmutter, che fu risolta da Iger in favore del primo. Perlmutter fu messo da parte, ma nel frattempo aveva rimosso il più grande ostacolo sulla strada della Marvel: aveva siglato un accordo con la Sony per riportare Spider-Man nell’universo Marvel.

Con la comparsa di nuovi personaggi, l’Mcu è diventato sempre più ingombrante. Dopo la prima fase, culminata in The Avengers nel 2012 – l’apoteosi dello stile Marvel, con gli eroi spiritosi che combattono contro un esercito alieno e poi festeggiano davanti a uno shawarma – la fase due ha replicato la formula aggiungendo personaggi meno conosciuti, come i Guardiani della Galassia e Ant-Man. Gli scettici si sono chiesti se la Marvel stesse raschiando il fondo del barile dei supereroi, ma i film sono stati un successo. La fase tre ha portato Doctor Strange e Black Panther, poi ha riunito l’intero cast in Avengers: infinity war, in cui il supercattivo Thanos, preoccupato per la sovrappopolazione galattica, spazza via metà degli esseri viventi con uno schiocco di dita. In realtà l’Mcu era sovrappopolato e aveva bisogno di un reset. Avengers: endgame ha mandato in pensione il Capitan America di Chris Evans e ha ucciso il Tony Stark di Downey Jr., che era stato la personalità trainante del franchise.

Lavoratori sfiniti

Come avevano fatto i fumetti negli anni sessanta e settanta, lo studio ha diversificato tardi i suoi eroi. Dopo l’allontanamento di Perlmutter, la Marvel ha cominciato a puntare sui personaggi femminili – realizzando Black Widow con Scarlett Johansson – e su attori appartenenti alle minoranze, con Simu Liu nel film Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli. Ma senza Tony Stark alla guida del gruppo, la serie sembrava priva di direzione. Un potenziale successore, Black Panther, è stato eliminato dalla morte di Chadwick Boseman, nel 2020. Tuttavia, il rubinetto dei contenuti si è aperto ancora di più. Nel 2021 la fase quattro ha dato il via alla “saga del multiverso”, che si svilupperà in più fasi almeno fino al 2026. Il multiverso può essere un concetto filosofico – secondo cui gli universi paralleli contengono infinite realtà possibili – ma è più comprensibile come principio organizzativo per i filoni di proprietà intellettuale in conflitto. Il 2023 è stato un anno complicato per la Marvel. A febbraio Ant-Man and the Wasp: Quantumania, il primo film della quinta fase, è stato accolto da incassi tiepidi e da alcune delle peggiori recensioni nella storia della Marvel. Gli effetti visivi sono stati giudicati confusi e generici, contribuendo alla percezione che la Marvel stia sfornando più contenuti di quanti ne possa gestire. Un singolo film può avere fino a tremila effetti speciali, e i registi, che spesso vengono dal mondo delle sitcom o dei film indipendenti, hanno poca esperienza nel girare le grandi scene d’azione. Negli ultimi anni sono aumentati i casi di burnout e proteste nell’industria degli effetti visivi. La Marvel, la più grande committente del settore, è nota per pagare poco chi si occupa degli effetti speciali, quindi le aziende devono offrire prezzi bassi per poter lavorare, avviando progetti con poco personale e poco finanziati. Gli artisti degli effetti sono stati visti piangere alle scrivanie durante settimane di ottanta ore, torturati dalle scadenze inamovibili della Marvel e dalle riscritture dell’ultimo minuto.

Quantumania ha creato un nuovo supercattivo, Kang, interpretato da Jonathan Majors, che tornerà in tutta la saga del multiverso. A marzo Majors è stato arrestato con l’accusa di aggressione, molestie e strangolamento nei confronti della sua compagna. Majors ha negato di aver commesso i reati, ma lo scandalo ha messo in difficoltà la Marvel.

Per via della saturazione narrativa, degli intrighi di palazzo e del deterioramento del marchio, il colosso dell’Mcu sembra finalmente mostrare delle crepe. L’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3 – che nel weekend d’apertura ha incassato ventotto milioni di dollari in meno rispetto al capitolo precedente – ha fatto ben poco per dissipare la sensazione che la stanchezza della Marvel sia reale e che Feige non riesca a stare dietro alla valanga di contenuti. “L’unico aspetto negativo della Marvel è che tutto si accentra su Kevin”, mi ha detto l’ex dirigente. Gli scienziati prevedono che il nostro universo inizierà a contrarsi nei prossimi cento milioni di anni; il Marvel cinematic universe, avendo raggiunto i suoi limiti esterni, potrebbe essere soggetto a una legge di natura simile. ◆ svb

Michael Schulman è un giornalista del New Yorker. Si occupa di arte e cultura.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati