La musica può provocare un orgasmo? La risposta breve è sì; quella più lunga può aiutarci a svelare i segreti dell’evoluzione della musica. Partiamo dagli orgasmi. Prendiamo Whitney Houston che canta I will always love you, dalla colonna sonora del film Guardia del corpo (1992). Comincia a bassa voce, ansimante, senza strumenti; il registro è basso, le parole intervallate da respiri esitanti. Quando il brano entra nel vivo, allunga le parole con le vocalizzazioni tipiche della musica gospel, il cui effetto, in questo caso, è trasmettere un’emozione di trepida incertezza. È una preparazione perfetta per il momento culminante del brano, quando ritrova sicurezza su una lunghissima nota tonica, cantata al vertice del suo registro vocale, con le parole che completano il senso della canzone: “And I will always love you”, ti amerò per sempre. Il climax melodico è sottolineato dall’ingresso della chitarra e degli archi.

Poi il ciclo si ripete: la cantante riparte piano per poi raggiungere il climax altre due volte, cantando note sempre più alte e più sicure a ogni passaggio. La seconda strofa cresce d’intensità, perché finalmente entra la sezione ritmica (fino a quel momento assente) e Whitney Houston canta più forte e con maggiore convinzione. Nella terza strofa arriva anche il sassofono. Infine, per il climax conclusivo, arriva il vecchio trucco di alzare la tonalità, e la sua voce prorompe una quinta più in alto nell’ultimo, stratosferico “you”.

Quando ascoltiamo qualcuno che canta la nostra laringe si contrae insieme alle sue contorsioni vocali. Anche se non stiamo cantando, immaginiamo di farlo anche noi

Quando arriva il finale di I will always love you avverto un formicolio alla spina dorsale e un’accelerazione del battito cardiaco. Mi salgono i brividi in tutto il corpo e a volte sento perfino una vampata. Provo sensazioni simili quando ascolto musica classica occidentale o anche musica non occidentale. Vado in estasi per i salti stratosferici del soprano nelle arie da concerto di Mozart e al climax estatico di un qawwali pachistano (un canto devozionale sufi) cantato da Nusrat Fateh Ali Khan. Non deve necessariamente essere musica cantata: Nimrod, dalle Variazioni Enigma di Edward Elgar, o un raga eseguito al sitar da Ravi Shankar mi fanno lo stesso effetto.

I sintomi fisiologici, però, mi sembrano più viscerali quando c’è una voce, forse perché quando ascoltiamo qualcuno che canta la nostra laringe si contrae insieme alle sue contorsioni vocali. Anche se non stiamo cantando, immaginiamo di farlo anche noi, proprio come imitiamo la postura e i movimenti di chi ci sta di fronte quando parliamo. Succede grazie ai neuroni specchio del nostro cervello, che ci danno la sensazione del moto quando percepiscono il moto nel mondo esterno. Proprio basandosi sui neuroni specchio, il professore di psicologia Frank A. Russo spiega che l’osservazione del canto umano innesca “una simulazione motoria interna spontanea” accoppiando le regioni sensoriali e motorie del nostro cervello. In altre parole, ascoltare qualcuno che canta può farci sentire come se cantassimo noi stessi. Non sarò mai in grado di arrivare al si acuto di Luciano Pavarotti in Nessun dorma, ma le mie povere corde vocali non possono fare a meno di provarci, ed è proprio questo che mi fa girare la testa e formicolare la spina dorsale.

Perché la musica ci dà una sensazione analoga al climax sessuale? La neuroscienza definisce questi effetti fisiologici come frisson (brivido, in francese) oppure orgasmo cutaneo. I sistemi motori e di gratificazione del cervello sono uniti nello striato, in fondo ai gangli sottocorticali del prosencefalo. Lo striato ventrale inferiore è collegato alla parte più vecchia ed emotiva del cervello, il sistema limbico. Un gruppo di neuroscienziati della McGill university di Montréal coordinato da Robert Zatorre ha scoperto un collegamento diretto tra queste regioni del cervello e i “brividi” musicali, basato sul rilascio della dopamina.

La dopamina è un neurotrasmettitore del piacere associato al cibo, al sesso e alle droghe, e anche alla musica (a differenza dei primi tre, però, la musica non è mai troppa: crea lo stesso livello di dipendenza, ma il suo consumo in eccesso non è nocivo). Usando la tomografia a emissione di positroni (pet), il gruppo di Zatorre ha misurato il rilascio della dopamina nel cervello di otto volontari mentre ascoltavano i loro brani preferiti. L’ordine degli eventi è affascinante. Quando la musica comincia a crescere verso il climax, la dopamina si riversa nello striato dorsale. Quando il climax musicale arriva, scatena una reazione emotiva nello striato ventrale. In sostanza, gli ascoltatori provano lo stesso piacere sia quando si avvicinano al culmine musicale sia quando lo raggiungono.

“Orgasmo cutaneo” è solo uno dei tanti nomi attribuiti a questo fenomeno, come brividi, pelle d’oca e piloerezione (quando si rizzano i peli), termini che tradiscono la sorprendente affinità tra sesso e paura. Forse non è così sorprendente. Richard Wagner lo sapeva e infatti, da buon protofreudiano, nell’Anello del Nibelungo (1869-1876) fa sperimentare per la prima volta la paura al suo eroe Sigfrido – “colui che non conosce la paura” – quando il suo sguardo si posa su una donna, Brunilde, addormentata su una roccia. Del resto, gli effetti che provocano l’orgasmo cutaneo nella musica, come scosse, grida e contrasti improvvisi di tempo, dinamica o tonalità, se sperimentati nel mondo reale sono spaventosi. Le note acutissime cantate a squarciagola da Whitney Houston o da un’eroina wagneriana sono percepite come delle grida quando vengono ascoltate in parti del mondo che non sono abituate a quello stile, per esempio il sud dell’Asia e gran parte dell’Africa. Chi è nato in una cultura musicale occidentale, ha imparato a non avere paura di questi suoni e addirittura ad apprezzarli.

Francesca Ghermandi

Le canzoni d’amore, inoltre, replicano la forma del sesso: abbiamo visto come I will always love you cresca gradualmente d’intensità fino a raggiungere una risoluzione estatica. Il brano non si limita a esprimere amore, ma mima l’atto stesso dell’amore nel suo lento crescendo verso l’orgasmo dell’ultima nota. La forma dell’amore – ondate di desiderio che crescono progressivamente ritardando il più possibile il climax – trova una corrispondenza anche nel Tristano e Isotta (1865) di Wagner, un’opera che rimanda la gratificazione finale per quasi cinque ore.

È possibile, tuttavia, che il collegamento tra musica e sesso sia ancora più fondamentale. Charles Darwin riteneva che la musica umana si fosse evoluta dalla selezione sessuale, come il canto degli uccelli. Gli uccelli cantano per attrarre una compagna, ed è per questo che le femmine preferiscono pretendenti in grado di cantare melodie più lunghe, complesse e numerose come gli usignoli, uccelli serialmente monogami e abituati a viaggiare. Non tutti gli animali cantano, ma quelli che lo fanno sembrano in effetti confermare la teoria di Darwin. Molte specie si riuniscono in coro per cantare insieme durante la stagione degli amori, un fenomeno definito lekking ed esemplificato dal canto sincronizzato dei grilli maschi. Anche se la selezione sessuale è un processo competitivo, i grilli cantano tutti insieme perché la quantità crea forza sonora e mettere le risorse in comune è utile per sconfiggere i cori rivali.

Spostandoci dagli animali più piccoli ai più grandi – e a quelli con i cervelli più pesanti – il lekking si ritrova anche nelle megattere, i cui maschi sono soliti cantare in primavera, durante la stagione degli amori. Quanto all’Homo sapiens, la musica è sempre stata il cibo dell’amore, molto prima che arrivassero il magnetismo fallico della chitarra di una rock star o le serenate.

Naturalmente, la competizione sessuale non si limita alla dimensione sonora. La bellezza visiva della coda del pavone o del nido degli ptilonorinchidi assolve alla stessa funzione. Questo tipo di sfoggio sessuale spiega anche perché 1,8 milioni di anni fa l’Homo ergaster, uno dei nostri antenati ominidi, creò il bifacciale simmetrico, un utensile tagliente. Per le femmine degli ominidi, il bifacciale rappresentava un’attrazione sessuale paragonabile alla coda del pavone, non da ultimo perché segnalava il vantaggio adattivo dell’intelligenza necessaria a realizzarlo: un tipo capace di costruire uno strumento simile non poteva che essere un compagno sessuale superiore. C’è un legame con le origini della musica umana? Secondo gli psicologi, la facoltà della simmetria è trasversale alla vista e al suono. Il corrispettivo della simmetria visiva è il battito a tempo: il ritmo. I motivi ritmici simmetrici possono essere apprezzati di per sé, proprio come una femmina di uccello può apprezzare la bellezza visiva del piumaggio di un pavone maschio, al di là della sua funzione. E c’è una differenza cruciale tra battere a tempo per tagliare una selce e un motivo ritmico regolare, svincolato dalla sua funzione materiale.

Darwin, tuttavia, riteneva che il collegamento evolutivo tra la musica umana e i richiami sessuali animali fosse ancora più diretto. Secondo lui l’evoluzione musicale è il processo attraverso il quale gli ominidi hanno gradualmente raffinato ed espresso in forma compiuta le passioni dei versi animali. Naturalmente, l’idea che la musica sia la “lingua” delle emozioni non è una novità (anche se, strettamente parlando, la musica non è una lingua, perché non rappresenta oggetti concreti come matite o cucchiaini, ed esprime i nostri sentimenti con molta più immediatezza delle parole o dei concetti): era stata divulgata già nel settecento da filosofi come Jean-Jacques Rousseau. Il contributo di Darwin, però, fu quello di dare a questo pensiero una lettura evolutiva radicale, con la sua intuizione della somiglianza tra emozioni umane e animali. La nostra specie condivide con gli uccelli, le balene e i primati non umani alcune emozioni fondamentali come l’amore, la tristezza, la paura e la rabbia. Nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) Darwin osserva che, lungi dall’essere irrazionali o decorative, le emozioni hanno funzioni adattive che aiutano gli animali a sopravvivere in ambienti ostili. La paura spinge a fuggire; la rabbia dà la forza di attaccare; l’amore è una manifestazione di attaccamento; la tristezza è una reazione terapeutica alla perdita. Che l’ambiente in questione sia la foresta pluviale, la sala delle contrattazioni in borsa o il cortile della scuola, il ruolo di queste emozioni è lo stesso. Le emozioni animali e umane non solo sono simili, ma svolgono funzioni adattive paragonabili.

Francesca Ghermandi

In che modo, allora, queste passioni animali si traducono nelle emozioni della musica umana? Nel 1989, quando il dittatore panamense Manuel Noriega si rinchiuse nell’ambasciata vaticana per sfuggire alla cattura dell’esercito degli Stati Uniti, i militari circondarono l’edificio con degli altoparlanti e spararono musica a tutto volume per costringerlo ad arrendersi. Ovviamente, non lo bombardarono con le canzoni di Céline Dion, ma con una sequenza interminabile di brani hard rock, perché gli aggressivi accordi del genere esprimevano meglio l’emozione della rabbia.

Oppure prendiamo i violini dissonanti nella scena della doccia del film Psyco (1960) di Alfred Hitchcock, frutto dell’ingegno di Bernard Herrmann. Sono il corrispettivo sonoro delle coltellate dell’assassino Anthony Perkins, ma accompagnano altrettanto bene le urla di terrore della sua vittima Janet Leigh: Hitch­cock sapeva bene che rabbia e paura sono due facce della stessa medaglia. L’Adagio di Albinoni – al quinto posto della classifica delle 78 migliori musiche da funerale secondo i lettori del Daily Telegraph – è triste perché emula ripetutamente il pianto con la tecnica dell’appoggiatura (stranamente, in cima alla classifica c’è Always look on the bright side of life dei Monty Python). Nel 2012, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo che spiegava perché Someone like you di Adele faceva piangere le persone, e anche in quel caso si faceva riferimento alle appoggiature, una serie di abbellimenti discendenti, simili a sospiri, che cozzano con l’armonia.

I brani tristi tendono ad avere un contorno melodico discendente, che rispecchia il modo in cui il dolore ci trascina in basso e ci succhia le energie. Invece quando ci sentiamo fieri ci alziamo in piedi e buttiamo il petto in fuori: è spontaneo cogliere il fervore rivoluzionario della Marsigliese dalle sue fanfare iniziali, che spingono la musica in avanti proprio come la musica militare sospinge gli eserciti. Un grande colpo di genio nella storia delle colonne sonore è stato l’uso del contrabbasso per sottolineare l’avvicinamento di uno squalo. Già molto prima dello Squalo (1975) di Steven Spielberg, però, Hector Berlioz aveva usato la stessa tecnica nel movimento lento della sua Sinfonia fantastica (1830) per evocare il tuono lontano di un temporale in arrivo. A Spielberg l’idea è piaciuta talmente che ha voluto sfruttarla altre due volte, prima per il T-rex in Jurassic park (1993) poi per il carro armato in Salvate il soldato Ryan (1998).

L’allegria nella musica è più sfuggente perché, in un certo senso, tutta la musica ci rende felici, anche quella triste. La musica allegra è formalmente più semplice e più convenzionale perché, da un punto di vista evolutivo, felicità significa realizzare un obiettivo. La canzone Tanti auguri a te è un gioiello di semplicità convenzionale e raggiungimento dell’obiettivo. La musica allegra ama la simmetria e la ripetizione: a una concisa frase iniziale – “Tanti auguri a te” – segue una lieve variazione melodica. Prima di arrivare al trionfo, però, c’è bisogno di una deviazione: la seconda metà della canzone è più continua (manca la ripetizione simmetrica) e più complessa, raggiunge il culmine melodico – “Tanti auuguri a Tizio” – e fa rientrare dalla finestra un’ultima ripetizione alla fine. L’Inno alla gioia (1824) della nona sinfonia di Beethoven segue lo stesso principio: ripetizione iniziale, digressione, ritorno. Non solo: tutte e due esemplificano la predilezione della musica allegra per le scale discendenti, a imitazione della legge di gravità. Quello che sale deve scendere, seguendo una parabola equilibrata.

Dietro queste considerazioni sembra spuntare la solita vecchia tiritera secondo cui “la musica è un linguaggio universale”. Certo, ogni cultura sul nostro pianeta conosce la musica e ogni essere umano nasce con la capacità di diventare musicista. Questo, però, non significa nella maniera più assoluta che le musiche dell’India, del Vietnam, del Ghana, del Brasile e delle isole Salomone condividano le stesse scale, gli stessi schemi ritmici e gli stessi strumenti musicali. Le scale pelog e slendro giavanesi si basano su sistemi di accordatura distinti, e non possono essere ricondotte alle scale europee di sette note. La propensione occidentale per gli schemi metrici binari – come la “cassa in quattro” nella musica pop o le frasi simmetriche di Mozart – suona fin troppo semplicistica alle orecchie dei percussionisti dell’Africa occidentale, abituati a poliritmi complessi. La combinazione di melodia del sitar, percussioni tabla e bordone di tanpura è immediatamente riconoscibile in tutto il mondo come il suono della musica classica dell’India settentrionale. Più in generale, gran parte della musica non occidentale fa a meno dell’armonia e del contrappunto, preferendo accompagnare una singola melodia con più voci o sostenerla con il bordone. Dunque, almeno alle apparenze, le molteplici musiche del mondo suonano distinte e non paragonabili l’una con l’altra.

Anche qui, Darwin ha una risposta. Il titolo del suo libro fa astutamente riferimento all’espressione delle emozioni, non semplicemente alle emozioni. Darwin aveva capito che le persone e gli animali provano emozioni simili, ma le comunicano attraverso espressioni del volto e gesti fisici diversi. C’è un’utile analogia con le emozioni del linguaggio. Per comprendere la tristezza dei versi di un haiku giapponese bisogna sapere il giapponese. Allo stesso modo, nella cultura giapponese sorridere è una convenzione sociale, e non esprime necessariamente felicità. È certamente possibile che gli animali e gli esseri umani delle diverse epoche, culture e specie condividano le stesse emozioni. Questo però non vuol dire che condividano le regole sociali per esprimerle.

Francesca Ghermandi

Come si collegano questi concetti alla musica e al sesso? Le cose sono più complesse di quanto pensasse Darwin, come dimostrano un secolo e mezzo di ricerche nel campo della biologia. Ciò che sappiamo oggi sulla comunicazione animale sembra contraddire la teoria darwiniana secondo cui la musica nasce dai richiami di accoppiamento. Anche se tra le megattere cantano solo i maschi, e solo durante stagione degli amori, quando si radunano per strombazzare i loro seducenti e complessi canti non ci sono le femmine ad ascoltarli. I maschi cantano per se stessi, probabilmente per solidarietà. I canti delle balene, insomma, sono più simili ai cori da stadio che alle serenate. Anche il canto degli uccelli, probabilmente, ha una funzione più sociale che sessuale. Il dogma secondo cui le femmine degli uccelli non cantavano, infatti, era il riflesso di una pudicizia vittoriana e del pregiudizio dell’epoca contro le compositrici (non è un caso che la storia della musica occidentale tenda a ometterle). Oggi sappiamo che anche le femmine degli uccelli cantano, e più per scopi di socialità che di selezione sessuale.

Quanto ai primati non umani, abbiamo imparato che la maggior parte delle vocalizzazioni delle scimmie non ha nulla a che fare con il sesso. Molti richiami favoriscono la socialità tramite quello che l’antropologo Robin Dunbar chiama vocal grooming, la toelettatura attraverso la voce anziché il tatto. Ci sono poi i segnali di pericolo, come i quattro famosi richiami del cercopiteco verde che segnalano la presenza di quattro predatori: leopardo, aquila, serpente e babbuino. Darwin sbaglia, dunque, nel senso che le sue due teorie sono in disaccordo tra di loro. La teoria secondo cui le emozioni animali nascono da comportamenti adattivi è ancora abbastanza plausibile. Esistono però moltissimi tipi di comportamenti oltre l’accoppiamento. Ecco perché l’idea che la musica si sia evoluta da un singolo comportamento – il corteggiamento finalizzato alla riproduzione – è necessariamente riduttiva.

Le origini della musica e del linguaggio, insomma, sono molto più intrecciate di quanto pensasse Darwin. La tesi oggi prevalente è che questi due canali di comunicazione non siano stati significativamente distinti finché l’Homo sapiens non è diventato intellettualmente maturo, cioè circa centomila anni fa. Quando parliamo del “canto” degli uccelli o delle balene, in parole povere, è come se parlassimo di un linguaggio. Non a caso, quando la Nasa ha compilato un disco da portare nello spazio ha scelto di catalogare il canto delle balene non come una forma musicale, ma raggruppandolo insieme ai 55 saluti nelle lingue della Terra quindi, implicitamente, come una specie di linguaggio. L’australopiteco, uno dei nostri primi antenati ominidi, probabilmente emetteva gli stessi suoni di un gorilla o uno scimpanzé, con cui la nostra specie condivide il 98 per cento dei geni. Una forma primitiva del gene Foxp2, associato all’acquisizione del linguaggio, è stata recuperata dai resti di un uomo di Neanderthal, segno che probabilmente i nostri cugini comunicavano in un linguaggio vicino al canto.

Con l’arrivo dell’Homo sapiens, circa 300mila anni fa, la musica e il linguaggio si sono separati e si sono evoluti come idiomi distinti, anche se hanno conservato l’uno tracce dell’altro. Per esempio, il linguaggio imita la musica nella sua prosodia: il discorso è musicale perché ha ritmo, contorno, volume, oltre che per la qualità timbrica della voce, anche se in primo piano ci sono la grammatica e la semantica. La musica, a sua volta, imita il linguaggio perché ha una grammatica, anche se ritmo, contorno, volume e timbro sono predominanti.

Il fatto che la musica non sia appassita e morta dopo l’evoluzione completa del linguaggio dimostra che svolge ancora un ruolo vitale e prezioso nell’esistenza umana. E dato che la comunicazione animale è molto più antica del linguaggio, è probabile che la musica abbia svolto un ruolo ancora più significativo nell’evoluzione umana. Credo che la musica sia la cosa più importante che la nostra specie abbia mai imparato a fare.

Tornando a I will always love you di Whitney Houston, possiamo quindi concludere che l’emozione trasmessa dal brano non è di tipo sessuale. Gli effetti di anticipazione e rilascio che abbiamo descritto sopra si basano sui princìpi molto più generali di come il cervello interpreta i modelli. Leonard Meyer, il teorico musicale statunitense che negli anni cinquanta ha risolto l’enigma dell’emozione musicale, ha scoperto che tutta la musica si basa su modelli. Alcuni sono naturali (o psicologicamente programmati), come l’aspettativa che una scala proseguirà nella stessa direzione in cui è cominciata, altri sono acquisiti, come la convenzione secondo cui in un brano pop la strofa conduce al ritornello. I compositori camminano su una corda sospesa tra novità e ridondanza. Se le variazioni sono troppe, l’ascoltatore si perde; se sono troppo poche, l’ascoltatore si annoia. L’emozione si innesca quando un modello viene in qualche modo interrotto o sovvertito, come quando qualcuno ci spunta alle spalle e ci fa “bu!”. Nella musica come nella vita, l’emozione ha origine nella paura e nel riflesso di trasalimento. L’emozione musicale è il distillato della sorpresa. Meyer, tuttavia, ha scoperto che l’emozione s’innesca anche quando un modello è compiuto, cioè quando raggiunge il suo obiettivo. L’emozione musicale, quindi, oscilla tra sovversione e risoluzione dell’aspettativa, tra anticipazione e climax.

L’emozione musicale è ancora più intensa quando il nostro giudizio su qualcosa passa da negativo a positivo. Anzi, l’intensità è proporzionale al contrasto. Gli psicologi chiamano questo principio “valenza contrastiva”. A giudicare dalle centinaia di milioni di visualizzazioni su YouTube, la valenza contrastiva si è scatenata su scala globale con la prima apparizione di Susan Boyle al programma televisivo Britain’s got talent nel 2009. Il video è una dimostrazione da manuale degli stereotipi sociali, ed è stato oggetto di autorevoli studi accademici. Annunciata come una sgraziata signora di mezza età, Boyle si presenta sul palco tra i sorrisini di scherno dei giudici e del pubblico. Poi, non appena comincia a cantare I dreamed a dream dal musical Les misérables, la derisione si trasforma in sorpresa e poi, poco a poco, in entusiasmo estasiato. Il pubblico si alza in piedi e l’entusiasmo raggiunge il climax proprio nel momento culminante della melodia, la nota più alta della scala ascendente. È una perfetta tempesta emotiva, un incontro straordinario di sorpresa, valenza contrastiva, anticipazione melodica e climax. Non mi vergogno di dire che mi viene da piangere ogni volta che guardo il video; tocca tutte le mie corde emotive. È istruttivo, da questo punto di vista, paragonare l’esibizione di Boyle a quella, altrettanto notevole, di I dreamed a dream nel film Les misérables (2012), che è valsa ad Anne Hathaway il premio Oscar. Hathaway ci fa piangere perché simpatizziamo con l’eroina tragica di Victor Hugo, Boyle ci fa piangere perché sovverte uno stereotipo sociale.

Non credo che il climax emotivo dell’esibizione di Susan Boyle abbia niente a che fare con il sesso, anche se la sua parabola coincide in modo praticamente identico con quella del brano di Whitney Houston. Possiamo anche decidere di chiamare “orgasmo cutaneo” l’effetto che ci fa, ma sarebbe solo un eufemismo per qualcosa di ancora più fondamentale. Modelli e anticipazione sono possibili solo perché gli esseri umani sono in grado di riconoscere intervalli di tempo regolari. La nostra capacità di prevedere ciò che succede dopo è collegata all’evoluzione del bipedismo, cioè la capacità di camminare su due gambe. Camminare ha insegnato al nostro cervello il senso del tempo, e il tempo potrebbe essere la simulazione cerebrale del moto periodico dei passi. In altre parole, il primo passo verso la musica umana è stato compiuto quattro milioni di anni fa, quando l’australopiteco si è alzato sulle zampe posteriori e ha mosso il primo passo.

Per noi oggi il culmine musicale è qualcosa di molto più nobile e profondo. Sì, il piacere musicale è probabilmente una delle esperienze più intense e piacevoli che conosciamo, allo stesso livello del sesso, del cibo e delle droghe. Ma se apprezziamo la musica è perché ha una dimensione umana e spirituale che non può essere ridotta alla chimica o ai neuroni. Come l’amore non può essere ridotto al sesso. ◆ fas

Michael Spitzer

è professore di musica all’università di Liverpool, nel Regno Unito. Questo articolo è uscito su Aeon con il titolo Music and sex.

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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati