Che giudizio possiamo dare del presidente Joe Biden a poco più di un anno dal suo insediamento? L’economia statunitense cresce come non succedeva da decenni: tra gennaio e ottobre del 2021 il pil reale è aumentato a un tasso annualizzato del 7,8 per cento e il reddito disponibile al netto dell’inflazione è salito del 3 per cento. Il tasso di disoccupazione, al 6,3 per cento quando Biden è entrato in carica, è sceso al 3,9 per cento undici mesi dopo. Dal primo giorno della sua presidenza sono stati creati 6,1 milioni di posti di lavoro, quattro milioni in più rispetto agli anni delle amministrazioni Trump e Bush (padre e figlio) messe insieme.

Eppure questi dati economici incontestabili non modificano più di tanto l’idea che l’opinione pubblica si è fatta del governo. Da agosto del 2021, quando l’indice di popolarità del presidente è passato da positivo a negativo, i mezzi d’informazione hanno cominciato a criticarlo duramente. I motivi per la verità non mancano. I guai di Biden sono nati con il disastroso ritiro delle truppe dall’Afghanistan, e sono continuati con inconvenienti vari. Le lotte interne al Partito democratico e l’indecisione al congresso hanno bloccato alcune importanti proposte di legge, come quella per proteggere il diritto di voto. A metà dicembre Joe Manchin, senatore democratico moderato che nell’ultimo anno è stato di fatto una sorta di copresidente, ha annunciato di non voler sostenere il più importante progetto di Biden (chiamato Build back better), per l’espansione del welfare e per la lotta alla crisi climatica.

La sconfitta del candidato democratico alle elezioni per scegliere il governatore della Virginia – uno stato dove nel 2020 Biden aveva vinto con dieci punti percentuali di vantaggio – è un segnale inquietante per il partito del presidente, che perde consenso in parti del paese in cui è sempre stato forte.

Intanto la pandemia continua a fare danni. Il virus ha già provocato colli di bottiglia nelle forniture, una spirale inflazionistica che non accenna a placarsi e, con l’arrivo della variante omicron, gravi disagi nelle scuole e nel settore turistico. Tutto questo ha fatto crollare la popolarità di Biden. È successo poche volte che il consenso di un presidente precipitasse in così poco tempo nel primo anno di mandato. Sei mesi dopo essere entrato in carica Biden aveva ancora un solido indice di approvazione, con il 52 per cento dell’opinione pubblica contento del suo operato. Sei mesi dopo il dato è sceso al 41 per cento. Donald Trump è sempre stato sotto al 50 per cento. Barack Obama ha perso nel complesso più terreno di Biden (incredibilmente, quando è entrato in carica il 69 per cento degli statunitensi era dalla sua parte), ma alla fine del primo anno aveva ancora un gradimento sopra il 50 per cento. Il consenso per George W. Bush si impennò dopo gli attentati dell’11 settembre, nove mesi dopo l’insediamento.

Bill Clinton perse circa 20 punti percentuali a metà del 1993 ma li recuperò quasi tutti entro la fine dell’anno. In altre parole, Biden è quello che ha perso più rapidamente la fiducia della maggioranza degli statunitensi. Ma non è solo una questione di numeri. La sensazione tra molti progressisti è che l’amministrazione Biden, con la sua speranza di dare vita a una nuova era keynesiana di investimenti pubblici, sia destinata al fallimento. Le grandi aspettative alimentate dalle elezioni – in cui i democratici hanno preso anche il controllo del senato – sono scomparse. Così come l’ottimismo delle prime settimane, quando il presidente nominava figure (quasi tutte) eccellenti, firmava decreti che lasciavano piacevolmente sorpresa perfino la deputata progressista Alexandria Ocasio-Cortez, faceva approvare una legge che stanziava fondi per aiutare i cittadini ad affrontare la pandemia (l’American rescue plan, Arp), concedeva sgravi fiscali alle famiglie con figli, gestiva con competenza la campagna vaccinale e proponeva di cambiare il “paradigma economico” per trasferire la ricchezza dalle élite alla classe media. Governare non è facile, soprattutto con maggioranze così risicate.

Il Partito repubblicano vuole riportare Donald Trump alla Casa Bianca. Per questo deve colpire Biden in ogni modo possibile

Fuori dalla Casa Bianca

Lo sconforto nella sinistra è in parte colpa di Biden. Il presidente ha commesso un grave errore di valutazione sul ritiro dall’Afghanistan. Nel momento di maggior diffusione della variante delta la sua amministrazione ha mandato messaggi contraddittori sull’uso delle mascherine, e le indicazioni fornite dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie sui richiami dei vaccini sono sembrate poco chiare. L’amministrazione, inoltre, ci ha messo troppo tempo per mandare scorte di vaccini ai paesi in via di sviluppo.

Tuttavia, molti dei problemi di Biden nascono fuori della Casa Bianca. In parte la colpa è del congresso, in particolare di alcuni parlamentari del Partito democratico. Nessuno pensava che sarebbe stato così difficile portare avanti il programma di riforme presentato in campagna elettorale. I primi segnali sono arrivati a marzo del 2021, quando Manchin ha minacciato di bloccare l’Arp, sostenendo che i fondi stanziati per il sostegno ai disoccupati erano troppi e duravano troppo a lungo. Alla fine il senatore ha cambiato idea.

Nelle stesse settimane a Pittsburgh, in Pennsylvania, Biden pronunciava il discorso più importante della sua presidenza, dando l’impressione di essere di gran lunga il più populista tra tutti i recenti presidenti democratici: “Oggi propongo un piano per la nazione che premia il lavoro e non premia solo la ricchezza. Costruiremo un sistema economico equo che darà a tutti l’opportunità di affermarsi e creeremo l’economia più forte, più resiliente e innovativa del mondo. Un investimento epocale, come non ne facciamo dai tempi della costruzione del sistema autostradale o della corsa allo spazio”.

Biden al congresso, Washington, 6 gennaio 2022 (Drew Angerer, Afp/Getty Images)

Alla fine l’Arp costerà 1.900 miliardi di dollari. Al tempo dell’annuncio non era ancora stato stabilito quanti soldi sarebbero serviti, ma tutti si aspettavano una cifra molto più alta. Nell’ala progressista del Partito democratico regnava l’ottimismo. “Pensiamo che ci siano ampi margini per aumentare la spesa”, aveva detto la deputata progressista Pramila Jayapal. A giugno Bernie Sanders, presidente della commissione bilancio del senato, che aveva lavorato con Biden alla creazione di una commissione per definire le priorità del partito, aveva proposto di spendere seimila miliardi di dollari per il piano
Build back better su welfare e clima. A metà luglio Biden e i democratici al congresso si sono accordati su 3.500 miliardi. All’inizio Sanders si è opposto, ma nel giro di un giorno ha cambiato idea. “Non è che io sia diventato più pragmatico”, ha spiegato. “È che i democratici al senato sono cinquanta. E purtroppo non tutti sono d’accordo con me su tutto”.

Biden quindi aveva portato dalla sua parte il senatore più a sinistra di tutti. Ma ha capito subito che sarebbe stato difficile convincere i democratici più conservatori in politica fiscale, in particolare Manchin e Kyrsten Sinema, senatrice dell’Arizona. L’11 agosto c’è stato uno sviluppo cruciale e incoraggiante: il senato ha approvato una risoluzione di bilancio che definiva un quadro di spesa di 3.500 miliardi nei prossimi dieci anni, e anche Manchin e Sinema hanno votato a favore. Anche se nessuno pensava che questo comportasse un appoggio incondizionato al Build back better, molti addetti ai lavori hanno interpretato il voto come un segnale che Manchin e Sinema, insieme ad altri moderati alla camera, avrebbero chiesto una riduzione ulteriore della spesa ma alla fine avrebbero votato a favore.

E invece eccoci qui. Siamo nel 2022 e la proposta su cui la Casa Bianca puntava di più non è stata approvata. Nella migliore delle ipotesi i democratici si accorderanno su una versione ridimensionata, finanziando molti meno progetti di quelli che Biden aveva immaginato.

Perché Biden non è riuscito a imporre il piano al suo partito? Per tre motivi principali. Innanzitutto, alle elezioni di novembre del 2020 molti candidati democratici al senato sono stati sconfitti pur avendo speso molti più soldi dei loro avversari repubblicani. Raccogliere decine di milioni di dollari – in gran parte provenienti da piccoli donatori – e spenderli quasi tutti per spot in tv è un modello elettorale che non ha più senso. Cosa c’entra con Build back better? Semplice: se due di quei candidati avessero vinto, Manchin e Sinema oggi non conterebbero niente.

Il secondo motivo riguarda le regole del senato, in particolare quella sull’ostruzionismo: servono sessanta voti per saltare il dibattito e procedere al voto finale. L’ostruzionismo paralizza qualsiasi progetto legislativo ambizioso e questo è un problema solo per i democratici, visto che i repubblicani non hanno un vero programma di riforme. Per Biden il modo più convincente di presentare il suo programma agli statunitensi sarebbe stato attraverso una serie di leggi mirate e facilmente comprensibili dagli elettori. È così che fu approvato il new deal, negli anni trenta: prima passò la legge bancaria di emergenza, poi la legge che istituiva la protezione civile, poi i provvedimenti di sostegno all’agricoltura e all’industria e così via. Ma Biden non poteva usare questa strategia, per via dell’ostruzionismo e dell’implacabile opposizione repubblicana. Nessuno dei provvedimenti che compongono la proposta Build back better, presentato singolarmente, avrebbe mai potuto superare la soglia dei sessanta voti. Di conseguenza i democratici hanno dovuto mettere tutto quello che hanno potuto sotto l’opaco e poco entusiasmante ombrello della reconciliation, una procedura che permette di approvare una legge aggirando l’ostruzionismo. L’attenzione si è spostata sulla spesa totale e ha dato argomenti a chi accusava i democratici di voler attuare un programma socialista.

Il partito di Trump

Un’altra fonte di problemi per Biden è il Partito repubblicano. È vero che i conservatori hanno collaborato con i democratici per approvare la legge sulle infrastrutture. Ma questo non cancella il fatto che il partito ruota ancora intorno a Donald Trump. Dalla sua tenuta di Mar-a-Lago, in Florida, l’ex presidente continua ad accusare i democratici di aver manipolato il voto alle scorse elezioni presidenziali. In vista delle primarie repubblicane per le elezioni di metà mandato del 2022, Trump ha sostenuto 83 candidati, molti dei quali sono suoi personali lacchè o avversari di politici che considera non abbastanza fedeli. Questi candidati si vantano apertamente di avere l’appoggio dell’ex presidente, perché sanno che facendolo crescono nei sondaggi.

Il senatore democratico Joe Manchin, a destra, nella metropolitana del senato, Washington, ottobre 2021 (Al drago, the new york times/contrasto)

Buona parte del Partito repubblicano, insomma, è impegnata a riportare Trump alla Casa Bianca nel 2024. Per questo deve contrastare e danneggiare Biden in ogni modo possibile, anche usando la campagna vaccinale contro il covid-19. Negli Stati Uniti l’identificazione con uno dei due principali partiti è il primo indicatore della volontà di vaccinarsi. Molti elettori repubblicani rifiutano il vaccino in nome della “libertà”, ma sanno anche che meno persone si vaccinano, più aumentano i contagi e di conseguenza i problemi per Biden. Dal giorno del suo insediamento il presidente ha implorato tante volte gli statunitensi di vaccinarsi. Il fatto che alla fine paghi il prezzo politico del comportamento antisociale di quelli che vogliono abbatterlo è un amaro paradosso.

Neanche Obama poteva contare sulla collaborazione dell’opposizione al congresso. Ma all’epoca il Partito repubblicano era ancora in qualche modo rispettoso dei principi fondamentali del processo democratico. Nessuno ha mai messo in discussione i risultati delle elezioni presidenziali del 2008 e del 2012. E dal 2011 fino al secondo mandato di Obama, quando i repubblicani avevano la maggioranza alla camera, non hanno mai dato segno di voler avviare una procedura di impeachment contro il presidente, nonostante i finti scandali messi in giro dalla stampa di destra. Oggi le cose stanno diversamente. Dagli elettori ai politici, la maggior parte dei repubblicani sostiene che la presidenza di Biden sia illegittima. Nel loro mondo la democrazia è un inconveniente. O meglio: sono Biden e i democratici, insieme ai mezzi d’informazione tradizionali, a voler distruggere la democrazia, mentre Trump e i suoi alleati stanno cercando di salvarla. Il sondaggio più sconvolgente che ho visto negli ultimi tempi è stato pubblicato a ottobre dal Marist college: gli statunitensi che considerano il Partito democratico una minaccia alla democrazia (42 per cento) sono più di quelli spaventati dal Partito repubblicano (41 per cento).

È difficile capire quanti politici repubblicani credano veramente che Trump sia il vero vincitore delle elezioni del 2020 o che i brogli elettorali siano un problema dilagante negli Stati Uniti di oggi. È sconvolgente vedere i collaboratori dell’ex presidente respingere apertamente le richieste di testimoniare davanti alla commissione che indaga sull’assalto del 6 gennaio al campidoglio di Washington; è difficile pensare che siamo arrivati al punto in cui dei parlamentari disobbediscono alle richieste dell’organismo di cui fanno parte. Ed è impossibile credere che chi sostiene leggi come quella approvata in Arizona – che ha trasferito la competenza sulle controversie in materia elettorale dal segretario di stato (attualmente un democratico) al procuratore generale (attualmente un repubblicano) – pensi davvero di comportarsi in modo rispettoso della democrazia.

Due anni difficili

L’offensiva contro Biden e la democrazia statunitense è destinata a diventare sempre più intensa. Se i repubblicani conquisteranno la camera alle elezioni di metà mandato, cosa abbastanza probabile, faranno tutto il possibile per mettere in difficoltà il presidente. Magari cominceranno aprendo inchieste apparentemente giustificate, per esempio sul ritiro dall’Afghanistan. Ma poi, in cerca di finti scandali, citeranno in giudizio esponenti dell’amministrazione e quasi certamente proveranno a mettere in stato d’accusa Biden, magari sui trascorsi imprenditoriali di suo figlio Hunter.

Da sapere
Presidenti a confronto
Indice di popolarità degli ultimi quattro presidenti degli Stati Uniti, percentuale (* Il consenso di George W. Bush aumentò subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, fonte: fivethirtyeight)

Il presidente della commissione giustizia alla camera – la persona che decide se avviare la procedura di impeachment – sarà probabilmente Jim Jordan dell’Ohio, uno dei più fedeli alleati di Trump. E sicuramente i repubblicani chiuderanno immediatamente la commissione d’inchiesta sull’insurrezione del 6 gennaio. Saranno due anni difficili.

Una terza fonte di problemi per Biden sono i mezzi d’informazione. Oggi negli Stati Uniti ce ne sono di due tipi: quelli tradizionali e quelli di destra. Qui la questione va al di là dell’attuale presidente. È difficile pensare che il mondo dell’informazione, nella sua configurazione attuale, possa difendere la democrazia. È ormai evidente che i giornali e le tv dichiaratamente di destra sono più influenti di quelli tradizionali. Il sondaggio del Marist college che ho citato prima è uno dei molti esempi a sostegno di questa tesi. Se tante persone credono che i democratici stiano cercando di distruggere la democrazia, è grazie al potere dei mezzi d’informazione di destra: emittenti come Fox News, Newsmax e One America News Network; di siti e giornali come Breitbart News, The Blaze, The Federalist, The Daily Caller; dei conduttori radiofonici di destra, delle radio cristiane e del Sinclair Broadcast Group, che promuove posizioni trumpiane in decine di canali radio e tv.

Da sapere
Sconfitte e vittorie

Durante la campagna elettorale del 2020 Joe Biden aveva promesso che una volta eletto avrebbe fatto approvare misure importanti per affrontare quattro grandi problemi degli Stati Uniti di oggi. Il Washington Post ha realizzato un’inchiesta per capire quali risultati ha ottenuto a poco più di un anno dal suo insediamento.

Pandemia La buona notizia su questo fronte è che l’amministrazione Biden è riuscita a far arrivare i vaccini in tutto il paese, e questo ha permesso di ridurre notevolmente il numero di morti e di ricoveri e di evitare nuove chiusure. Il problema è che la Casa Bianca non si era preparata all’eventualità che una minoranza rilevante di statunitensi non avrebbe voluto vaccinarsi. Così Biden ha introdotto l’obbligo di vaccinarsi o fare dei test regolarmente per i lavoratori delle aziende con più di cento dipendenti, un provvedimento che riguardava circa ottanta milioni di lavoratori. Ma il decreto è stato annullato dalla corte suprema. Inoltre l’amministrazione non è riuscita a garantire la disponibilità di mascherine e tamponi quando è arrivata la variante omicron e il virus ha cominciato a diffondersi più rapida­mente.

Economia Biden voleva evitare gli errori commessi dall’amministrazione Obama. Gli interventi per uscire dalla crisi del 2007 furono troppo timidi, la ripresa tardò ad arrivare e i repubblicani ne approfittarono politicamente, riconquistando la maggioranza alla camera. A marzo del 2021 l’amministrazione Biden è riuscita a far approvare al congresso un piano di spesa da 1.900 miliardi, nella speranza che l’iniezione di contanti alimentasse una crescita veloce, portando le persone a spendere e le aziende ad assumere. L’intervento ha funzionato, visto che pil e occupazione sono cresciuti come non succedeva da tempo. Ma secondo la maggior parte degli economisti il governo ha messo a disposizione così tanti soldi che l’economia ha cominciato a surriscaldarsi, facendo aumentare l’inflazione (arrivata al 7 per cento a dicembre del 2021) e i prezzi per i consumatori. A questo si aggiungono i colli di bottiglia nelle catene di distribuzione globale, che impediscono alle aziende di soddisfare la domanda in crescita.

Giustizia razziale Biden aveva promesso grandi passi avanti verso un’America più giusta, dopo più di un anno di manifestazioni antirazziste in tutto il paese. Ma i provvedimenti più importanti – come la riforma dei dipartimenti di polizia e una legge elettorale che garantisca il diritto di voto alle minoranze – sono rimasti bloccati al congresso, dove il Partito democratico ha una maggioranza risicata. Il presidente ha usato i suoi poteri per introdurre qualche cambiamento: sono stati stanziati 5,8 miliardi di dollari per le università storiche afroamericane e altro denaro per aiutare le comunità nere a vaccinarsi. Inoltre Biden si è impegnato a nominare la prima afroamericana alla corte suprema.

Crisi climatica Appena entrato alla Casa Bianca Biden ha provato a invertire la rotta rispetto a Donald Trump, firmando decreti per incentivare il settore delle auto elettriche, ridurre le emissioni delle centrali elettriche, far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo sul clima di Parigi del 2015 e bloccare la costruzione dell’oleodotto Keystone Xl, da tempo contestato dagli ambientalisti. Ma la misura più importante sul fronte della crisi climatica (chiamata Build back better) è ferma al congresso per via dell’opposizione di Joe Manchin, un senatore democratico moderato. Senza quella legge difficilmente gli Stati Uniti potranno rispettare l’impegno di dimezzare le emissi0ni di anidride carbonica entro il 2030. ◆


Sono tutti molto più schierati politicamente alle fonti d’informazione tradizionali, che sono più progressiste ma ingigantiscono regolarmente i problemi di Biden e dei democratici. Le tv e i giornali di destra non parlano mai male di Trump né di qualsiasi repubblicano (a parte quelli che si sono schierati contro l’ex presidente), e danno continuamente in pasto ai lettori storie sull’ipocrisia e sulla mancanza di patriottismo dei politici di sinistra. E ora Trump sta lanciando la sua azienda di telecomunicazioni: a gestirla sarà Devin Nunes, ex deputato che si è guadagnato l’incarico dopo aver difeso l’ex presidente e attaccato chi lo criticava quando era capo della commissione intelligence alla camera.

Non so se i mezzi d’informazione tradizionali avranno la forza, o anche solo la volontà, di contrastare queste dinamiche. A dicembre Dana Milbank, editorialista del Washington Post, ha raccontato in un articolo di aver chiesto a una società di analisi dei dati di esaminare più di 200mila articoli della stampa tradizionale, valutando il tono e il modo in cui venivano usati gli aggettivi. I risultati, ha scritto Milbank, “hanno confermato la mia paura: i miei colleghi stanno diventando strumenti dell’omicidio della democrazia”. Da agosto del 2021 i mezzi d’informazione tradizionali hanno criticato Biden più di quanto avevano fatto con il suo predecessore nel 2020. E questo anche se Trump, con la sua risposta tardiva al covid-19, aveva contribuito alla morte di centinaia di migliaia di persone. E anche se si era rifiutato di denunciare i suprematisti bianchi e aveva attaccato la democrazia.

Cosa può cambiare

Sono ancora convinto che Biden possa rilanciare la sua amministrazione. Tre sviluppi possono far cambiare radicalmente il clima politico: l’approvazione di una qualche versione della proposta
Build back better, un rallentamento dell’inflazione e il ritorno a una sorta di normalità sul fronte della pandemia.

Se si verificano queste tre condizioni, in autunno Biden può tranquillamente rimontare nei sondaggi. L’approvazione del piano su clima e welfare, combinato con le misure di sostegno contro la pandemia e la legge sulle infrastrutture, lo metterebbe sullo stesso piano di presidenti come Franklin Delano Roosevelt e Lyndon Johnson, che riuscirono a espandere notevolmente la rete di sicurezza sociale. Gli elettori tendono ad apprezzare queste misure una volta approvate e attuate (l’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama, oggi è vista con favore da quasi il 60 per cento degli statunitensi).

Senza dimenticare che milioni di cittadini sono fortemente critici nei confronti di Trump e del trumpismo e sostengono a grandi linee la piattaforma politica dei democratici, anche se questi Stati Uniti gridano meno forte di quelli trumpiani. I prossimi tre anni ci mostreranno quale delle due parti è più determinata. O se, in una battaglia in cui solo una parte gioca secondo le regole tradizionali, la determinazione è davvero ciò che conta. ◆ fas

Michael Tomasky è un giornalista statunitense, direttore della rivista New Republic.

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Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati