Un venerdì d’inizio gennaio alcuni giovani giornalisti e stagisti del sito d’informazione Kashmir Walla, con sede nel Kashmir indiano, aspettavano con ansia l’arrivo del direttore. Fahad Shah, 33 anni, avrebbe dovuto rivedere gli articoli che avevano scritto per quel giorno, così sarebbero potuti tornare a casa prima dell’inizio di un fine settimana di lockdown per il covid-19. Verso sera, quando hanno appreso dai social network che Shah era stato arrestato, l’ansia è diventata angoscia.

La redazione del Kashmir Walla temeva che potesse succedere. Quattro giorni prima Shah era stato convocato per essere interrogato su come il sito ha raccontato un’incursione della polizia in cui sono morte quattro persone, compreso un ragazzo di 17 anni. L’articolo uscito sul sito indipendente si basa sulle interviste ai familiari dell’adolescente ed è molto diverso dai resoconti ufficiali, anche se include i commenti della polizia.

È il genere di giornalismo locale tipico del Kashmir Walla che Shah ha voluto fare fin da quando, nel 2009, ha lanciato il sito con l’obiettivo di “parlare del dissenso politico, sociale e culturale nel più ampio contesto del conflitto”. Negli anni il Kashmir Walla è diventato famoso per le interviste agli abitanti sulle operazioni di controinsurrezione condotte per sconfiggere i ribelli che cercano di sfidare il potere centrale.

Nel Kashmir indiano ci sono più di un milione di soldati mandati da New Delhi per sedare l’insurrezione che infuria da trent’anni. Gruppi di attivisti per i diritti umani hanno accusato le forze di sicurezza di aver abusato di una legge molto discussa che gli dà ampi poteri di perquisire, arrestare e sparare ai civili.

L’India e il Pakistan si contendono il controllo del Kashmir fin dalla loro indipendenza, 75 anni fa, e per questo hanno combattuto due guerre nella regione dell’Himalaya.

Grazie alla grande attenzione dedicata alle notizie dal territorio e agli aggiornamenti tempestivi anche sugli abusi commessi dai militari durante gli scontri a fuoco tra ribelli e soldati indiani, il Kashmir Walla si è imposto come una fonte affidabile tra i giovani kashmiri, abituati a informarsi su internet, sfruttando anche una notevole presenza sui social network.

Dopo averlo arrestato a gennaio, la polizia ha dichiarato che Shah è tra gli utenti di Facebook che hanno pubblicato contenuti “antinazionali” con “intenzioni criminali per spaventare l’opinione pubblica”. E ha aggiunto che divulgare quei contenuti è “paragonabile a esaltare le attività dei terroristi”. La detenzione di Shah, che ha collaborato con diversi mezzi d’informazione internazionali e ha vinto dei premi giornalistici, ha spaventato i trecento giornalisti del Kashmir. “Se uno dei più noti giornalisti kashmiri non è al sicuro, allora nessuno lo è”, ha detto un reporter di lungo corso che ha chiesto di rimanere anonimo.

Detenzione arbitraria

Alcuni giornalisti hanno riferito di casi di detenzione arbitraria e d’intimidazione da quando, nel 2019, New Delhi ha revocato l’autonomia del Jammu e Kashmir, riportando la regione sotto il controllo diretto del governo federale. Le autorità hanno inoltre oscurato internet per più di sei mesi e hanno cominciato a sottoporre i giornalisti a indagini sul loro passato. Alle autorità locali sono stati concessi più poteri per perseguire chi è accusato di diffondere notizie considerate sbagliate o false. Nel giugno 2021 l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la libertà di stampa ha criticato il governo indiano per aver “imposto un bavaglio all’informazione”.

“Penso che nel nostro settore abbiamo raggiunto il limite”, dice un reporter che lavora per un giornale locale e ha chiesto di restare anonimo. “L’anno scorso molti corrispondenti che lavoravano per quotidiani nazionali e stranieri sono stati convocati e arrestati. Abbiamo pensato che se succedeva a loro, chissà cosa sarebbe successo a noi”.

A gennaio Sajad Gul, un collaboratore del Kashmir Walla, è stato arrestato per aver postato sui social network contenuti ritenuti “offensivi”. Gli è stata concessa la libertà su cauzione, ma poi la polizia l’ha arrestato di nuovo in base alla legge sulla pubblica sicurezza, che consente la detenzione preventiva per sei mesi, e l’ha spedito nel carcere di Kot Bhalwal, nel Jammu, noto per presunte torture sui detenuti e dove si trovano gli attivisti arrestati.

Nello stesso mese è calato il sipario sull’unica associazione della stampa del Kashmir, sfrattata dall’edificio di proprietà del governo che la ospitava. L’associazione ha rappresentato a lungo un’importante punto di riferimento istituzionale per i giornalisti del Kashmir. Gli editori indiani hanno dichiarato il loro “orrore per il modo in cui la sede dell’associazione è stata occupata con la forza” e hanno accusato New Delhi di essere “spudoratamente complice in quest’azione di forza”.

L’aumento dei rischi per i giornalisti ha spinto alcuni ad autocensurarsi e a evitare di riportare notizie potenzialmente scomode, per esempio quelle sui boicottaggi contro l’India o le dichiarazioni dei gruppi indipendentisti. L’arresto di Shah, che dopo il rilascio è stato arrestato di nuovo il 4 febbraio e una terza volta il 28 febbraio poche ore dopo aver ottenuto la libertà su cauzione, è stato anche un colpo per gli studenti delle due scuole di giornalismo locali, molti dei quali hanno rinunciato a intraprendere la professione. Secondo un giornalista i rischi per chi fa informazione sono aumentati in modo esponenziale. “Sappiamo che le autorità possono arrestarci in qualsiasi momento e con qualsiasi pretesto. Non puoi mai sapere quale articolo potrebbe farti andare in carcere per sempre”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1450 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati