Fino a un centinaio di anni fa la durata media della vita umana era di circa quarantacinque anni. Il che significa che una persona della mia età era più di là che di qua. Oggi, invece, l’Organizzazione mondiale della sanità definisce “giovinezza” un arco di tempo che va dai 18 ai 44 anni. Non so dire quali siano i criteri e le unità di misura di queste classificazioni temporali (una volta un amico medico mi ha spiegato nel dettaglio come funziona la crescita ossea e come viene definita a seconda dei cicli dell’esistenza, da cui ho tratto la conclusione che noi esseri umani non siamo stati creati per convivere con la forza di gravità, siamo degli alieni). So solo che secondo queste definizioni, da giovani non abbiamo niente in comune con gli uomini di un secolo fa. E nemmeno con il nostro passato.

Da adolescente mi proclamavo poeta. Sognavo di pubblicare la mia prima raccolta di poesie a diciassette anni come Arthur Rimbaud. Un libro che avrebbe fatto da spartiacque nella storia della letteratura persiana. Dopo di che sarei sparito nel nulla. Sarei diventato un trafficante d’armi in Congo oppure uno dei combattenti nella luminosa via della liberazione nel Salvador. Ero animato da queste ambizioni: avevo un pizzico di talento e l’avrei dissipato alla grande.

Gabriella Giandelli

Ma il mio diciassettesimo compleanno e anche quelli dopo sono passati senza che avessi scritto un appassionato libro di poesie. Non c’era in me quel genio che pensavo di avere né tanto meno la spinta autodistruttiva di mandare tutto al vento. In seguito, decisi che a 24 anni avrei girato il mio Quarto potere e sarei diventato il nuovo Orson Welles. Allora cambiai indirizzo di studi e m’iscrissi a cinema, con tutto il corredo di disgrazie, malumori e chiacchiere che comporta una scelta simile. Era un modo di cercare il mio alter ego opposto, la mia genialità latente. Ma ecco che superati i venti e rotti anni non avevo ancora fatto nessun film e mi ritrovavo profondamente deluso da quel ragazzo che mi ero prefissato di diventare. La via che da giovanissimo avevo intrapreso con tanta difficoltà non mi aveva portato da nessuna parte. Non ero il genio che desideravo essere. Non mi restava che suicidarmi a 32 anni come Majakov­skij. Questo pensiero mi ha sorretto per un lungo periodo. Ho pubblicato il mio primo romanzo, le mie prime sceneggiature, ho sperimentato amori, separazioni, vite e viaggi, ho dormito su panchine di pietra, in tenda, sulle scomode sedie degli aeroporti. Passati i 32 anni ero ancora giovane: pensavo che avrei avuto tempo per tutto, per fare qualsiasi cosa desiderassi. Ho letto da qualche parte (ricordo bene dove, ma preferisco custodire questo tesoro solo per me) che uno vive fino all’ultima volta in cui il suo nome è pronunciato da un’altra persona vivente. Ed è stato come se all’improvviso avessi trovato uno scopo per affrontare la giovinezza.

Questa età non corrisponde più all’immagine romantica e senza difetti del David, muscoloso e al massimo della sua saggezza (come mai nessuno crede più che nella gioventù si raggiunga il culmine delle facoltà mentali? Il motivo, forse, è che è invecchiata la società? È che viviamo in una società di anziani? O i valori dominanti sono sempre stati gerontocratici?). Un giovane potrebbe cambiare il mondo, se solo si sforzasse di farlo. Lo sforzo è la parola chiave della giovinezza. E questo trae spesso in inganno, è d’intralcio. Dà un perenne senso d’insufficienza, ricorda continuamente che si stanno bruciando le opportunità, che non ci si sta impegnando abbastanza. Uno dei tratti particolari dell’essere giovani è che si sta in piedi sulla soglia dell’impegno. L’impegno nello studio, nel lavoro, l’impegno nell’apprendere, nel costruire. È proprio come e quanto ci si dà da fare da giovani che determina il posto che occuperemo nel resto della vita. O almeno così dicono.

Ma per quale motivo? Per la maggior parte delle persone la vita è una faccenda lineare. Vivere è un percorso che si stringe man mano che la giovinezza avanza e le decisioni prese in quell’età influiranno sul resto del cammino. Forse questo sarà anche vero, ma che sia una faccenda lineare e senza ritorno proprio no. State certi che non è così. La fase della vita in cui si è giovani è talmente lunga che potete farci tutto quello che volete, cambiare direzione, sbagliare, tornare indietro. Ve lo dice uno che lo ha provato. Ma la cosa strana è che tutti ne parlano al passato, tra una sequela di sospiri, e, fatto ancora più strano, tentano di aggrapparcisi per non farla scappare via quando non hanno nessun appiglio. La giovinezza, per me che mi trovo al limite dei suoi confini (in realtà, se penso alla definizione ufficiale mi pare di averla sorpassata da anni, mentre sento che il mio cuore e i miei muscoli sono ancora in pieno vigore), per me che non so nemmeno se con tutti i capelli bianchi che mi ritrovo posso ancora definirmi giovane, non è altro che la ribellione.

Ho trascorso l’intera prima parte della mia vita a ribellarmi. Contro la famiglia, la società, l’università, me stesso. A ribellarmi contro le strutture che cercavano di modellarmi, contro chi pensavo che usurpasse i miei diritti. Ribellarmi contro cose che in seguito ho capito che non avevano nessun valore, contro problemi che non mi riguardavano nemmeno. Dunque, la ribellione era ciò che definiva quegli anni. Combatti o muori!

La giovinezza per me è stata così. Non so se questa definizione basata sull’esperienza possa servire a qualcun altro né tanto meno se all’esterno appaia chiara ed esplicita quanto lo è nella mia testa. Comunque sia, per me la portata di questa bellicosità racchiude il significato di essere giovani.

Mi trovavo davanti a una rovina bizantina che sorgeva a sua volta sui resti di una costruzione fenicia. Così spiegava un cartello, altrimenti ai miei occhi il sito archeologico non sarebbe stato che qualche capitello e resti di archi e volte caduti. A quanto pareva, tra le due conquiste, quelle rovine avevano avuto anche un passato persiano, nel periodo in cui erano finite sotto il dominio degli achemenidi. Non lo raccontavano i reperti, lo dicevano gli archeologi che avevano inciso queste informazioni sulle lastre metalliche attaccate ai muri. Le rovine erano rivolte al mare, in compagnia di vecchi cipressi e di corvi attempati, a ridosso di un porto che non esisteva più. Sul muro era appeso anche un quadro che rappresentava come doveva esser stato quel sito in quelle epoche remote: i cipressi erano più verdi e nel porto c’erano alcune imbarcazioni con dei giovani marinai che tiravano le funi delle vele. L’ippodromo di Tiro era un’immagine della grandezza del passato, una memoria, un ricordo. Una fantasiosa ipotesi nata dalle attuali rovine.

Ero dieci anni più giovane e molto più combattivo di adesso. Ero andato in Libano perché pochi giorni prima avevo ricevuto due timbri rossi sul passaporto dalle ambasciate di Francia e Stati Uniti. Tutti dicevano che se fossi andato in Libano non mi avrebbero mai più fatto entrare in Europa. Nel sud del paese si notavano ancora le devastazioni lasciate dalla guerra. Ero già stato in Libano. Gli amici mi dicevano che era proprio per questo che avevano respinto la mia domanda di visto. Allora mi ero ripromesso di visitare tutti i paesi per cui dopo non mi avrebbero più fatto entrare in Europa e negli Stati Uniti. Cuba, Iraq, Afghanistan, Corea del Nord, Somalia e qualsiasi altro posto dove avrei potuto vedere una parte dimenticata del mondo. Questo era il modo con cui mi ostinavo ad andare contro me stesso e il mio futuro. Era stato proprio poco dopo aver vinto un corso di dottorato a Parigi. Tutti mi dicevano: “Aspetta sei mesi, la Francia ti rilascerà il visto”. Ma non avevo tutta quella pazienza, non volevo lasciare che questioni sciocche su cui non avevo nessun controllo sprecassero la mia gioventù, la buttassero via. Siccome dopo le proteste del 2009 avevano arrestato una giovane docente francese a Isfahan, per sei mesi l’ambasciata aveva sospeso il rilascio dei visti di studio e bollato con il timbro rosso la mia pratica. Mi hanno detto di aspettare, che le cose sarebbero cambiate. Avevano ragione, così è stato. L’anno dopo ho incontrato quella giovane insegnante, Clotilde Reiss, che aveva ottenuto la libertà condizionata purché fosse sotto sorveglianza. Ogni giorno l’ambasciata francese organizzava ricevimenti ed eventi perché il giardino della residenza non diventasse una prigione per lei.

L’ho incontrata in uno di questi ricevimenti e le ho detto: “Tu lo sai che mi hai rovinato la vita?”. Era qualche anno più giovane di me e ha risposto: “Se è per questo, ho rovinato pure la mia”. Poi ha sorriso e ha aggiunto: “Per lo meno ti sei fatto un giro nei posti sbagliati del mondo”.

Le avevo appena raccontato cos’avevo fatto, che mi ero ostinato contro il mio futuro, che avevo deviato il mio percorso e mi ero ritrovato nel bel mezzo di guerre e sangue. Mentre mi trovavo di fronte alle rovine di Tiro, non sapevo dove sarei stato l’anno dopo, vedevo solo quell’istante. Non c’era nessuna gloria e la giovinezza si stava sprecando. Come se da giovani tutto si riassumesse nella velocità e qualsiasi cosa opposta alla corsa provocasse turbamento.

La fase della vita in cui si è giovani è talmente lunga che potete farci tutto quello che volete, cambiare direzione, sbagliare, tornare indietro. Ve lo dice uno che lo ha provato

Un discepolo zen si reca dal maestro che sta meditando. Rimane in attesa che la preghiera finisca, ma il maestro invece la prolunga. Il giovane monaco continua ad aspettare in quella posizione fino al tramonto. Quando il maestro si alza per suonare la campana della preghiera collettiva, il discepolo s’inchina e fa per andarsene. Il maestro gli chiede quale sia il motivo della sua visita, e lui risponde di aver dimenticato la domanda. Allora il maestro s’inchina al discepolo e afferma: “Il maestro sei tu. Colui che non ha domande è il maestro”.

La prima parte della vita è proprio come quel giovane monaco: non hai nessuna domanda perché hai aspettato talmente tanto che non ti ricordi nemmeno cosa volevi. Non te lo ricordi perché il futuro ti ha trattenuto nell’attesa. Il concetto stesso di futuro, da giovani, è privo di significato.

“Quando pronuncio la parola futuro, la prima sillaba già va nel passato”.

Parlare del futuro di un giovane mi ricorda questo primo verso di una poesia di Wisława Szymborska. Quello che sta succedendo è già passato dal momento in cui ne stiamo parlando e lo possiamo analizzare. Se chiedi a un giovane cos’è la gioventù, probabilmente la sua definizione corrisponde a quello che sta già facendo. A come si veste, come parla, come sogna. Non a qualcosa che dovrebbe succedere, ma a quello che già è. Il bello di questa età è che accontenta tutti. Non esiste futuro, il futuro è questo preciso istante, quando sei giovane.

È vero che la gioventù di ogni persona è diversa e non esiste un modo corretto per viverla. Nessuno può dare agli altri suggerimenti del tipo “se fai così, ti andrà meglio”, o per esempio “se giri il mondo avrai più successo”, “se studi o lavori, o anche se vivi in questo particolare modo qui, costruirai il tuo avvenire”. Appena cominci a parlare di futuro, quello è già lì. La società è uno strumento di oppressione collettivo che crediamo ininfluente solo quando siamo giovani. Nell’infanzia e nell’adolescenza ci permea con tutta la sua potenza, e torniamo di nuovo a temerla durante la mezza età e la vecchiaia.

L’unico periodo in cui possiamo ostinarci a combattere è quando siamo giovani, anche se questo nostro modo di lottare non è qualcosa che si può insegnare, divulgare e nemmeno consigliare.

Essere giovani vuol dire stare su molte soglie. Porte che si aprono e si chiudono, e che molto spesso non sappiamo di avere attraversato.

Ero in fila per chiedere il visto degli Stati Uniti al consolato di Milano. Mi accompagnava un amico italiano. Avevo la testa affollata dai soliti pensieri, più o meno gli stessi di tutti quelli che si laureano nella prestigiosa università di Teheran. È come un rito d’iniziazione: si va da qualche parte all’estero, ci si specializza con un dottorato, si torna a casa o si resta. In ogni caso è un’esperienza che unisce l’utile al dilettevole. Era la fine dell’era di Obama e venivano rilasciati a tutti visti di lunga durata. Perciò, dato che mi trovavo in Italia, avevo pensato di fare un tentativo e chiedere un appuntamento al consolato statunitense per poter andare all’università di Austin, in Texas, e fare un dottorato in letteratura comparata. Non è che avessi un piano preciso, non avevo nemmeno trovato un professore che mi seguisse, tanto­meno un’idea per la tesi. Intanto che perdevo tempo a Milano, perché non provarci? Sette anni prima ero stato ammesso alla stessa università, ma non ci ero potuto andare. Se non ci sono riuscito quando ci tenevo più che a ogni altra cosa, adesso che non m’interessa andrà bene, mi ero detto.

Comunque, stare in fila per il visto accanto a persone vestite con i loro abiti migliori nel bel mezzo di Milano non mi sembrava poi così diverso da fare la fila a Teheran. Come me, quelle persone erano lì già alle sette del mattino per entrare per prime, erano nervose al pensiero di un rifiuto e avevano già bevuto molti caffè nei bar che non avevano ancora alzato del tutto le serrande. Sembravano tutte stressate. Ho pensato che questo sentiero costellato da ansie e timori tocca a chiunque abbia intenzione di emigrare. Quando ho raggiunto il primo posto nella fila, l’amico italiano se ne è andato per i fatti suoi e io sono entrato. Era la seconda volta che varcavo la soglia di una sede diplomatica degli Stati Uniti e pensavo a quanto ero cambiato nel frattempo. Sette anni mi avevano trasformato da un uomo che cercava tutto se stesso nell’idea di lasciare il proprio paese a un uomo che tentava di verificare una delle probabilità della sua esistenza. Somigliavo a quel monaco seduto da sette anni in montagna che non sapeva più il motivo per cui si trovava lì. Hanno preso i nostri telefoni, ci hanno perquisito, lo facevano con tutti, ma io mi sentivo offeso perché sono iraniano. Nell’ufficio consolare c’erano le foto di Obama e John Kerry, il comportamento del personale rispecchiava quel governo impacciato come le foto sulla parete. Oggi posso dirlo con certezza, mentre quel giorno lo in­tuivo soltanto.

Gabriella Giandelli

L’addetta alla sezione visti ha sorriso molto cordialmente e mi ha chiesto: “Tu che sei iraniano, perché hai inoltrato la domanda del visto per motivi di studio da Milano?”.

Ho risposto: “Sul sito mica c’è scritto che non posso”.

“Gli iraniani devono fare richiesta negli Emirati Arabi, in Armenia o in Georgia”.

Ho replicato: “Questa regola non è scritta da nessuna parte. Non potete applicarla come se fosse legge”.

L’impiegata ha sorriso di nuovo, era una donna di mezza età e indossava un vestito largo di cotone arancione. Me la ricordo perché parlava persiano. Ha detto: “Possiamo. Diciamo che è una legge sottintesa”.

Non aveva accento, era come se mi avesse detto queste cose a una festa in una casa a Teheran, quando a una certa ora c’è qualcuno steso per terra e chi è rimasto si trascina in un angolo a giocare con il suo telefono. Mi sono arrabbiato, stavo per esplodere, non riuscivo a capire come gira il mondo. Io questa volta mica volevo partire, allora perché me lo impedivano?

Ho detto alla donna: “Mi dovete restituire i centosettanta dollari che avete preso per la domanda del visto”.

Urlavo queste frasi in persiano, non avevo altro potere e mi sfogavo chiedendo che mi rendessero i soldi. Lo capivo da solo che era la cosa più insensata che potessi fare, ma pensavo che fosse l’unico modo per manifestare la mia protesta. La donna ha risposto ridendo: “Sul sito c’è un modulo per i reclami”.

Aveva smesso di parlare in persiano. Io ero troppo giovane per scendere a compromessi e rassegnarmi. “Appena mi riprendo il telefono la denuncio, mi dica il suo nome!”, l’ho minacciata.

La donna non ha risposto.

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“Mi dica il suo nome!”, ho insistito. Ero passato all’inglese anch’io e urlavo, sapevo che mi avrebbero cacciato fuori, ma volevo far sentire la mia voce, la voce di molti altri giovani come me. In quel luogo preciso ho avuto la sensazione che mi stavo lasciando alle spalle la gioventù. Se fossi stato più giovane avrei dovuto esplodere lì, avrei dovuto fare qualcosa per sfogare la mia ira, ma ho solo abbassato il tono e sono uscito dal consolato.

Da giovani siamo alieni, senza soldi, senza lavoro, senza obiettivi, siamo dei vagabondi che non hanno niente di stabile nella vita. Non sappiamo cosa ci rende felici, abbiamo bisogno dell’approvazione collettiva. Abbiamo bisogno che la comunità ci faccia sentire nel giusto. Peggio ancora è quando ci bisbigliano continuamente all’orecchio: “Non hai tempo, nel mondo non c’è spazio e ti devi sbrigare”. Come se durante un’operazione a cuore aperto dicessero al chirurgo: “Muoviti, sbrigati, non c’è tempo, metti due punti di sutura e manda a casa il paziente”.

La gabbia di Skinner era una scatola che l’omonimo psicologo aveva costruito per osservare il comportamento dei piccioni. Burrhus Skinner nutriva un particolare interesse per il comportamentismo individuale. Voleva capire in che modo si possono spingere gli esseri umani a fare qualcosa. Aveva provato a ricompensare gli uccelli con dei semi in risposta alle loro azioni e aveva scoperto che il loro sforzo era maggiore quando ricevevano un premio inaspettato rispetto a quando tutto era all’interno di un programma strutturato. Se ricevevano i premi senza motivo oppure in modo più casuale rispetto al solito, i piccioni s’impegnavano di più. Quando sei giovane ti sembra di essere sempre rinchiuso nella gabbia di Skinner. Qualcuno ti getta una manciata di semi, gli altri osservano i tuoi sforzi e te ne gettano ancora di più, e così finisci per essere costantemente in cerca di approvazione. Ti dai da fare per ottenere consenso, ti dai da fare per attirare l’attenzione degli altri sui tuoi sforzi. È per questo che, nonostante tutto il dissenso e la disobbedienza che porta con sé, per un essere umano la gioventù è uno dei periodi più importanti per connettersi con la società. È in quegli anni che pian piano una persona scopre la relazione tra sforzo e premio, che fa suoi i valori della società, che si addomestica. Quell’età è così. C’è a chi piace trovarcisi dentro e chi l’ha già attraversata e non vorrebbe mai tornare indietro. Giornate di decisioni repentine, ricompense inaspettate, successi improvvisi, godimenti eterni. Giornate storte che non finiscono mai e ti scuoiano lentamente, come un coltello non affilato. Prolungate depressioni, prendere le distanze da tutti, da ogni routine, allontanarsi dall’ordinario. Tutto questo è pieno di bellezza. La gioventù è bella. Dato che è breve, tutti la ritengono bella. È una bellezza che sembra passeggera, una bellezza che poi si rimpiange. E gli alieni, questi esseri che non sono stati creati per vivere sulla Terra, si adattano alle disgrazie, si adattano alla forza di gravità.

Mio padre è una di quelle persone che sono costantemente alla ricerca di un grande enigma, un indovinello, un rompicapo a cui pensare per mesi e anni, qualcosa di astratto e indecifrabile. Per esempio vorrebbe risolvere il problema di Riemann, gli piace pensare in che modo l’uomo potrebbe sopravvivere senza l’ossigeno o come abbattere un aereo nemico senza l’aiuto del radar. È attratto da questioni irrazionali e teoriche, cose infinitamente impossibili da realizzare. Se credete che per ragionare su queste cose legga o si documenti o le cerchi su internet, vi sbagliate. L’unica fonte a cui attinge mio padre è la rivista Daneshmand, “Lo scienziato”, che andava in di moda quando era adolescente. Possiede una raccolta di vecchi numeri che invariabilmente si occupano di fucili e binocoli da spionaggio in miniatura, auto ibride terrestri e marittime. Una volta gli ho chiesto: “Avresti mai detto che un giorno sarebbe stato tutto dentro un telefono?”.

Lui mi ha scoccato un’occhiata dall’alto in basso, poi è andato a tirare fuori dalla libreria un numero della rivista e si è messo a sfogliarla. Ha l’abitudine di avvicinare l’indice alla punta della lingua senza bagnarlo, le pagine di Daneshmand non resisterebbero al contatto con la saliva. Ha trovato il punto che gli interessava e ha cominciato a leggere. Da quando è stato operato agli occhi non porta più i suoi spessi occhiali con le lenti a fondo di bottiglia e non avvicina più il libro alla faccia. Mi fa davvero strano vedere mio padre che tiene i libri a una giusta distanza mentre legge. Ha scandito: “Sarà tutto molto più piccolo, le dimensioni delle tecnologie di cui usufruiremo saranno talmente ridotte che potranno essere contenute nel palmo di una mano. I binocoli, i telefoni, i telegrafi e i computer saranno tascabili e questo rappresenterà il primo stadio della perfezione umana”.

Poi ha chiuso la rivista e ha detto che quelle parole risalivano a 42 anni fa. “Sai chi l’ha scritto?”, mi ha chiesto. Ho risposto: “Sarà stato Stephen Hawking”.

Si è alzato ed è andato in giardino ad annaffiare i suoi cactus opuntia. Li aveva piantati per fare un esperimento e coltivarli poi nella regione del Sistan e Balucistan con l’intenzione di esportarli all’estero. Così avrebbe risolto la piaga della disoccupazione giovanile in Sistan e avrebbe attirato degli investitori che avrebbero costruito una rete idrica per irrigare le piantagioni e produrre energia elettrica con i pannelli solari. Per lui dev’essere tutto un’impresa impossibile, non è in grado di risolvere i problemi di piccole dimensioni. Per esempio, non è mai riuscito a cambiare la sua piccola Pride con un’auto migliore o spostarsi in una casa più grande, due strade più in là. Non vado spesso a trovarlo, di conseguenza durante le mie sporadiche visite cerco di ridurre al minimo tensioni, discussioni e malintesi. Non so mai quando lo rivedrò la prossima volta, quindi non voglio assolutamente deluderlo. L’ho seguito in giardino e ho detto: “Mi piacerebbe sapere quali sono le altre tappe dopo questo primo stadio della perfezione umana”.

Sapevo che queste parole sarebbero state riconcilianti e che lo avrebbero indotto a parlare, però lui spostava prudentemente i vasi, che nel terriccio intorno alle radici erano pieni di granelli per trattenere l’acqua. Mio padre aveva combinato i metodi tradizionali dell’agricoltura iraniana con le moderne tecniche d’irrigazione. Siccome già una volta mi aveva spiegato tutto sull’argomento, per evitare che me lo raccontasse di nuovo ho commentato: “In questo modo si evita che l’acqua provochi un maggiore sbalzo termico”.

Mi ha lanciato un’altra delle sue occhiate sprezzanti e ha ribattuto: “Le piante grasse se ne infischiano dell’acqua, è per questo che si chiamano così”.

Ho annuito come per dire che avevo capito. Non ho osato chiedere perché mai allora applicava la sua tecnologia sperimentale proprio su quel tipo di piante. Sapevo già che se avessi sollevato il minimo dubbio lo avrei irritato. “È bello che riempi il tuo tempo con queste occupazioni”, gli ho detto, “c’è un sacco di gente che appena va in pensione impazzisce”.

Non sapevo come avrebbe reagito a questa mia ultima affermazione, non poche volte in passato mi ero pentito di aver detto una frase in più o di non averne aggiunta un’altra. Appena ho notato l’accenno di un sorriso mi sono allontanato, mi sono messo ad annaffiare le piante e quatto quatto mi sono diretto verso il soggiorno. Avevo lasciato la zanzariera aperta e mia madre avrebbe sicuramente brontolato al suo rientro. Stavo cercando l’insetticida quando l’occhio mi è caduto sulla rivista Daneshmand che aveva lasciato lì mio padre, allora l’ho presa per leggere il resto di quell’articolo “futurista”. Volevo riaprire la conversazione con lui quando sarebbe tornato dal giardino per arruffianarmelo un po’. Ma non c’era nessun articolo. Nella pagina dedicata alle opinioni dei lettori, c’era la lettera di un giovane abbonato che si firmava con il nome di mio padre: “Ziya Tolouei da Rasht”. Era stato lui a immaginare che le tecnologie si sarebbero notevolmente rimpicciolite, e questo mi ha rovinato il resto della giornata. Un uomo che mi pareva un bifolco un tempo aveva previsto il futuro. Ho pensato al giorno in cui io stesso sarei sembrato un troglodita, così lontano da tutto quello che mi circondava, come un cavernicolo rimasto escluso da tutto.

Ogni cosa, a parte l’età dell’uomo, ha un punto di demarcazione. Una linea (non sempre di separazione), qualche volta solo una porta per attraversare una soglia. Essere giovani o non esserlo più non è uguale per tutti, non succede all’improvviso, perché non tutti invecchiano allo stesso modo. È come se ognuno vivesse in un pianeta solitario con una distinta e diseguale orbita stellare. Un anno di qualcuno corrisponde a sette anni di qualcun altro. C’è anche chi trova la gioventù dentro di sé prima degli altri, dei geni che hanno capito come funziona il mondo in antici­po. Per me la fine della gioventù è abituarsi alle ingiustizie.

Re Lear dice: “Tanto giovane e già tanto dura”. E Cordelia, la figlia più piccola, replica: “Tanto giovane, mio signore, e tanto schietta”.

Lealtà e ingenuità sono tratti particolari dei giovani, dato che non c’è niente da perdere oppure ce n’è ben poco, e questo ci rende audaci e caparbi, è una forza che smuove il mondo intero. La forza di credere nella lealtà del mondo. La convinzione che tutto debba essere corretto e leale e non contaminato dalla menzogna. Forse è proprio questo il metro per capire se la giovinezza sta finendo. Abituarsi alla slealtà del mondo e smettere di soffrirne.

Se dovessi marcare un confine tra la giovinezza e la mezza età, direi che è nel momento in cui non ti alzi più dalla sedia per spostare il centrotavola qualche centimetro più in là, dove secondo te dovrebbe stare. È un istante forse non del tutto chiaro e trasparente, ma c’è, e lì si capisce che non si è più giovani. Sembra una presa di coscienza. Capita per ciascuno in modo diverso, con un evento. C’è chi non può più correre cento metri in meno di quindici secondi, chi nota il primo capello bianco, chi riceve una richiesta di matrimonio per sua figlia o viene a sapere che il compagno di banco delle elementari è stato colpito da un infarto. Per alcuni quell’istante si prolunga. Nel quartiere della mia casa paterna c’era un biciclettaio che si chiamava Javanmanesh. Tutti lo prendevano in giro, dicevano che siccome era di giovane indole – il suo nome significa questo– non sarebbe mai invecchiato e ci ridevano su. Come si fa a ridere di una cosa del genere? Come si fa a deridere un concetto? Il mastro biciclettaio Javanmanesh aveva visto molti anni passare sopra la sua testa, era diventato calvo, gobbo, aveva perfino cominciato a zoppicare, ma nonostante tutto continuava a pedalare in sella alla sua Hercules 28, alla faccia di tutti i negozianti e i vicini che prima lo canzonavano e ora erano diventati i protagonisti dei necrologi e degli striscioni funebri. Per lui essere giovane voleva dire andare in bici, un’attività a cui i suoi coetanei avevano dovuto rinunciare, ma che lui continuava a svolgere. Per lui la gioventù si era prolungata molto più che per gli altri.

Dimostrare che siamo degli alieni e che la Terra non è la nostra dimora originaria è davvero un’impresa ardua. Secoli e secoli di favole cosmogoniche hanno tentato di convincerci che siamo gli eredi di questo pianeta, un compito che poi è passato alla scienza. Noi non sappiamo cosa ci facciamo qui o da dove proveniamo, ma se dobbiamo pensare a un periodo ideale della nostra esistenza – per la quale la Terra non è certo un luogo appropriato – è la gioventù.

Combattere, dormire in pace e svegliarsi in guerra. Essere giovani e rimanere tali in questa vita è qualcosa di cui può essere capace solo un alieno. ◆ ar

Mohammad Tolouei è uno scrittore iraniano. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Le lezioni di papà (Ponte33 2019). Sarà a Internazionale a Ferrara il 2 ottobre, per l’incontro Iran, la terra della fantasia. Questo racconto è uscito sul mensile iraniano Nadastan con il titolo Darvāze-i bi darvāze.

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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati