L’orologio segna quasi le dieci di sera. È una domenica di agosto e gli abitanti di Beita, un villaggio palestinese nel nord della Cis­giordania occupata, si stanno radunando sul monte Sabih, dove all’inizio di maggio i coloni israeliani hanno costruito un avamposto illegale. I palestinesi si preparano a quello che chiamano “disturbo notturno”, un rituale di resistenza che da più di cento giorni va avanti senza tregua, e si evolve. Il suo obiettivo è rovinare la permanenza dei coloni israeliani in queste terre.

Stasera ci sono più di cento persone sulla cima della montagna. I bambini saltellano con le loro fiaccole improvvisate. Alcuni uomini di circa ottant’anni siedono a gambe incrociate su grandi massi e puntano i raggi verdi dei laser in direzione dell’avamposto. Qualche ragazzo si allena con la fionda. Alcuni bruciano copertoni, altri intonano cori. Ogni tanto si sente un’esplosione distante, a volte è una granata stordente dei soldati israeliani, altre volte un barile industriale fatto esplodere dai difensori della montagna per sorprendere i soldati. Un uomo gironzola offrendo alla folla caffè e acqua. Qualcuno ride. Poi, quando i difensori della montagna arrivano sulla scena, cala il silenzio.

Una protesta palestinese contro l’avamposto illegale di Evyatar. Beita, 24 giugno 2021 (Jaafar Ashtiyeh, Afp/Getty Images)

“Noi siamo i figli di Beita, i difensori della montagna”, dice uno di loro, forse appena trentenne, con il viso avvolto in una kefiah per nascondere la sua identità. “Difendiamo noi stessi e le nostre terre dalle bande di coloni che sono venute a rubarcele con la protezione dell’esercito occupante e del loro stato fascista”.

Alcune videocamere registrano il discorso, che in un certo senso ripete un motivo familiare ai palestinesi. Esprime con chiarezza le inevitabili distinzioni tra colonizzatori e nativi, e condanna il ruolo dei mezzi d’informazione, che nascondono una realtà esplicitamente asimmetrica. “Noi non abbiamo sparato un colpo, mentre la potenza occupante ne ha sparati migliaia”, prosegue l’uomo. Appena conclude, i difensori della montagna marciano in avanti, al suono dei canti.

Nel sangue

Sono andato a Beita – distante un paio di ore e di posti di blocco militari da casa mia, a Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est – spinto dal desiderio di vedere con i miei occhi questo rituale notturno. Il movimento di protesta nella moderna Beita ricorda la prima intifada (rivolta) palestinese, e le immagini che arrivano oggi dal villaggio riflettono quelle degli anni ottanta: giovani in jeans che bruciano copertoni e lanciano pietre, marciando a petto nudo verso soldati con una corazza d’impunità e armi statunitensi.

Coloni ebrei osservano i laser puntati su di loro dagli abitanti di Beita, il 28 giugno 2021 (Menahem Kahana, Afp/Getty Images)

Come altre migliaia di persone, avevo seguito questa storia sui social network, dove la campagna #SaveBeita ha ottenuto grande popolarità, alimentando un enorme sostegno per i difensori della montagna. Mentre i grandi mezzi d’informazione hanno tendenzialmente ignorato la storia, almeno fino a quando i soldati israeliani non hanno inevitabilmente ucciso un abitante di Beita. I palestinesi finiscono in prima pagina solo come vittime o cattivi, quasi mai come combattenti per la libertà capaci di agire politicamente. “Gli piacciamo solo quando facciamo una resistenza morbida”, mi dice un esponente della comunità, offrendomi una sigaretta. “Qui facciamo una resistenza dura”.

Questo modello di resistenza meriterebbe di andare in prima pagina. È inarrestabile, collettivo e sfacciato. Ha anche spostato gli equilibri in una situazione apparentemente impossibile. A luglio i coloni hanno lasciato la zona a causa delle proteste continue. Mentre le loro case mobili rimangono intatte e pesantemente sorvegliate, e il regime israeliano valuta se dichiarare quella terra una zona militare di proprietà dello stato, gli abitanti di Beita hanno giurato che non smetteranno di resistere finché il monte Sabih non sarà liberato.

Quando ho parlato con le persone di Beita della loro resistenza, spesso ho ricevuto risposte che la facevano sembrare tanto semplice quanto istintiva, nonostante il rischio di essere arrestati e di morire. “La difesa della nostra terra ce l’abbiamo nel sangue, si tramanda di generazione in generazione”, mi ha detto un abitante di Beita per spiegare la lunga lotta del villaggio contro soldati e coloni. “I nostri genitori hanno combattuto e sacrificato tanto per mantenere le nostre terre. Non possiamo deluderli”.

Eppure è innegabile che il prezzo della resistenza di Beita sia stato alto. Le autorità di occupazione israeliane hanno risposto alle proteste con arresti di massa e violente repressioni, uccidendo sette palestinesi, di cui due bambini. Secondo il dottor Mohammad al Adel dell’ospedale Rafidiya a Nablus, il più vicino a Beita, da quando sono cominciate le proteste le forze israeliane hanno ferito più di tremila palestinesi a Beita, molti con armi da fuoco. Ci sono prove che i soldati hanno ripetutamente attaccato le ambulanze.

Non è difficile immaginare in che modo la crudeltà dell’occupazione possa creare delle persone così coraggiose

Nonostante questo la città, secondo le persone con cui ho parlato, sembra sostenere le proteste, pienamente e unanimemente, mettendo a disposizione le sue risorse per la difesa condivisa della montagna. Per avvertire i vicini delle incursioni dei coloni o dell’esercito si usano i minareti, proprio come nei giorni della prima intifada. Le famiglie annullano matrimoni o feste se qualcuno è ucciso. La città piange collettivamente i suoi martiri. I manifestanti non hanno smesso di andare sul monte Sabih per più di cento giorni. E invece di festeggiare il superamento del tawjihi (l’esame delle scuole superiori) i diplomati di quest’anno hanno donato i loro fuochi d’artificio ai difensori della montagna, per usarli nelle attività notturne di disturbo.

Sotto il tappeto

Al cuore di questa resistenza c’è una combinazione di disciplina e creatività. I difensori della montagna sono divisi in unità non gerarchiche, che hanno impiegato varie tattiche per disturbare l’attività dei coloni: l’unità gomme, che bruciava copertoni; l’unità trombe, che sparava suoni ad alto volume; l’unità laser, che proiettava luci; l’unità esploratori e l’unità fuochi artificiali. Esisteva anche un’unità barbieri, che tagliava i capelli gratis sulla cima della montagna. Anche i bambini della città hanno contribuito. “L’unità fiaccole l’ha inventata un dodicenne”, mi ha raccontato un uomo.

Qualche notte prima della mia visita, alcuni giovani erano riusciti a mettere le mani su dei gas lacrimogeni lasciati in un’auto della polizia rimasta aperta. Avevano creato quello che uno dei difensori della montagna ha definito un candelotto “primitivo ma utile” da rispedire ai soldati. Tutti questi dettagli delineano la “resistenza dura” di Beita come una risposta naturale e senza filtri alla sopraffazione.

Altrove in Palestina la “resistenza dura” è stata per lo più resa inoffensiva da decenni di demonizzazione e mistificazioni. Quando è l’assassino a rispondere alle domande sugli omicidi, le rivolte diventano “scontri”, le pietre armi automatiche, la resistenza è fatta passare per terrorismo, e la storia e il contesto sono nascosti sotto il tappeto. Ma quest’estate Beita si è riappropriata dell’immagine del combattente per la libertà palestinese e l’ha riproposta a chi stava a guardare.

La storia di Beita risale almeno alla nak­ba (la “catastrofe”, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro terre in seguito alla creazione di Israele nel 1948), con molti momenti di incursione e insurrezione nei decenni successivi. “Non è un concetto nuovo”, mi ha detto uno dei difensori della montagna mentre eravamo seduti sotto un albero di ulivo e guardavamo gli anziani illuminare la colonia con i loro laser. È cresciuto andando a visitare il fratello maggiore in una prigione israeliana, mentre ora va a trovare quello minore, che è stato arrestato per aver protestato contro l’avamposto dei coloni. “Abbiamo vissuto questa situazione per tutta la nostra vita”.

Promemoria costante

La notte della mia visita il discorso torna spesso agli anni della prima intifada. Gli abitanti del villaggio sono stati tra le prime vittime della politica del “rompere le ossa” voluta dall’allora ministro della difesa Yitzhak Rabin, quando all’inizio del 1988 le forze di occupazione fecero irruzione a Beita arrestando venticinque palestinesi per aver partecipato all’intifada. I soldati li picchiarono con le mazze e i calci dei fucili fino a spezzargli le ossa. “Pensavo fosse arrivata la mia ora”, ha ricordato Ribhi Hamdan, che oggi ha 57 anni e fu tra le persone torturate.

Non molto tempo dopo, il 6 aprile, diciotto coloni – due dei quali armati, uno con una pistola mitragliatrice Uzi, un altro con un fucile M16 – scesero al villaggio da un insediamento vicino. Il minareto della moschea avvertì dell’incursione. Quando gli abitanti del villaggio li circondarono, i coloni spararono indiscriminatamente, uccidendo due palestinesi. Inferociti, gli abitanti aggredirono i coloni con bastoni e pietre e ne ferirono alcuni. Un colono fu accidentalmente ucciso dal fuoco amico.

È una lotta collettiva, inarrestabile e sfacciata. E ha spostato gli equilibri in una situazione apparentemente impossibile

In “risposta”, l’esercito israeliano inviò a Beita carri armati, ruspe e centinaia di soldati. Le forze di occupazione fecero saltare in aria quattordici case palestinesi, sradicarono decine di alberi, spararono a un palestinese uccidendolo, ne arrestarono centinaia ed esiliarono sei uomini in Libano (a due di loro non è ancora permesso rientrare). L’operazione militare durò quattro giorni.

Non è difficile immaginare come la crudeltà dell’occupazione possa creare persone così coraggiose. Le vittime della repressione di Rabin sarebbero poi diventate i padri e i nonni dei difensori della montagna di oggi. Le loro ossa spezzate non hanno formato animi spezzati.

È stato a partire da questa storia che i difensori della montagna si sono consolidati come gruppo nel 2018. Quell’anno i coloni hanno tentato ancora una volta di prendere il controllo di El Urma, un’altra delle montagne di Beita. Non ci sono riusciti grazie alle proteste palestinesi, ma l’allerta è rimasta e la città ha continuato a dispiegare guardiani per monitorare qualunque segnale di attività dei coloni. Per questo i palestinesi erano pronti quando all’inizio di maggio alcuni coloni, sostenuti dall’esercito, hanno occupato la cima della loro montagna e hanno piazzato delle roulotte su terreni che appartengono agli abitanti di Beita e di altri due villaggi: Yatma e Qabalan. Come tante altre colonie israeliane, anche questa ha diviso i villaggi, troncando legami sociali ed economici, e impedendo ogni futura crescita delle comunità. Situato in alto sopra i villaggi, l’avamposto incombeva su di loro, un promemoria onnipresente del loro imminente sradicamento e della possibilità costante di violenza contro le loro case e le loro attività economiche. Era una chiara violazione del diritto internazionale e israeliano, ma questo non ha impedito al governo israeliano di asfaltare le strade dell’avamposto e di fornirgli l’elettricità.

“Sappiamo cos’hanno fatto i coloni ad altri villaggi. Un colono può dare fuoco a una casa palestinese e andarsene”, ha detto Baraa Hussein, una fotografa di 23 anni, riferendosi al rogo del 2015 che ha bruciato la casa della famiglia Dawabsheh nel vicino villaggio di Douma, uccidendo tutti i membri della famiglia tranne uno. “Non vogliamo che sia questa la nostra realtà”.

Mirare alle gambe

Questo desiderio di vivere liberi dalla minaccia dei coloni, di vivere nel proprio villaggio, senza essere accerchiati e minacciati, è così forte che la gente di Beita è disposta ad affrontare la morte. Il 27 luglio Amjad Hamayel, 25 anni, è sopravvissuto a un’aggressione quasi letale delle forze di occupazione israeliane sulla cima della montagna. Sono andato a trovare Hamayel, che è diventato una sorta di eroe locale, per capire in che misura i soldati prendono di mira i manifestanti.

Il pomeriggio in cui sono arrivato Hamayel era seduto in una camera doppia all’ultimo piano, ancora incompiuto, dell’appartamento dei suoi genitori. Una coperta floreale gli copriva la gamba ferita, le stampelle erano poggiate al muro. La finestra si affacciava sulla montagna. Intorno al letto diversi ospiti erano seduti su sedie di plastica. Ascoltavano assorti e interrompevano solo per offrire qua e là un po’ di contesto storico.

“Stavamo tenendo un’iniziativa sul patrimonio culturale palestinese nel parco di fronte al monte Sabih. Non c’erano stati neppure scontri”, ha ricordato Hamayel. “Mi sono stupito quando ho sentito il primo proiettile passarmi accanto all’orecchio”. Presto ne sono seguiti altri. Mentre Hamayel tentava di scappare verso i medici, uno l’ha colpito alla gamba, distruggendogli le arterie e i tessuti muscolari. Come Hamayel ha scoperto più tardi, si trattava di un calibro 22, sparato da un fucile Ruger, fabbricato negli Stati Uniti. Questi proiettili spesso rimbalzano all’interno del corpo umano e possono essere letali, nonostante gli israeliani sostengano che siano “non letali”. “Vogliono paralizzare tutti i giovani di Beita”, ha commentato Hamayel.

Il padre del giovane ci ha interrotti per chiedere se me la sentivo di guardare le foto della ferita. Si è avvicinato e mi ha mostrato le immagini. Forse “esplosa” è l’unico aggettivo adatto a descrivere l’aspetto di quella gamba.

I soldati israeliani “sparano per mutilare”, mirando alle gambe in modo che la persona non possa mai più opporre resistenza fisica, un’evoluzione raffinata della politica del rompere le ossa di Rabin, in cui i calci dei fucili sono stati rimpiazzati dai cecchini. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, durante la grande marcia del ritorno del 2018 – organizzata nella Striscia di Gaza per chiedere il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e denunciare il rigido blocco israeliano – l’87 per cento delle ferite da armi da fuoco riguardavano gli arti inferiori. In questo modo il regime israeliano può paralizzare o rendere disabile un’intera popolazione, evitando al tempo stesso le accuse di uccisioni di massa.

Nel caso di Hamayel, i medici ritenevano che la sua gamba dovesse essere amputata. “Il dottore ha detto ai miei genitori che la mia gamba era come una ‘rosa appassita’”, ha ricordato Hamayel. “Potete provare ad annaffiarla e sperare che fiorisca di nuovo”. Invece l’intervento dei dottori è andato a buon fine. Hamayel oggi aspetta con impazienza di finire la fisioterapia e “non vede l’ora di tornare sulla montagna”.

“Non c’è niente di cui aver paura”, ha detto a proposito della sua decisione di tornare sul luogo dov’è quasi morto.

Da sapere
Sotto minaccia

Maggio 2021 Cinquanta famiglie di coloni israeliani occupano con le roulotte un’area di 3,5 ettari sul monte Sabih, creando l’avamposto illegale di Evyatar. I terreni appartengono ai villaggi palestinesi di Beita, Yatma e Qabalan. Gli abitanti si mobilitano con proteste quotidiane. L’esercito israeliano interviene per reprimerle, uccide sette palestinesi e ne ferisce centinaia.

Luglio In seguito a un accordo con il governo israeliano l’avamposto è sgomberato. L’esercito però resta schierato nella zona, a difesa delle case mobili e per impedire agli abitanti palestinesi di riprendere il possesso delle loro terre.

10 ottobre Centinaia di abitanti di Beita raggiungono le loro terre per partecipare alla raccolta delle olive. L’area resta sotto la minaccia di una confisca formale dell’esercito israeliano, che potrebbe dichiararla “terra dello stato” o trasformarla in una base militare. Gli abitanti di Beita hanno promesso di continuare la loro protesta fino a quando l’esercito israeliano non lascerà l’avamposto. Al Jazeera


“Beh, ci sono i proiettili”, ho risposto. Lui ha riso.

Senza vergogna

Lo stesso giorno in cui Hamayel è stato ferito, le forze israeliane hanno ucciso Shadi Salim, 41 anni, l’ingegnere idraulico del villaggio. Gli abitanti del posto raccontano che gli israeliani tagliano regolarmente l’acqua come strumento di punizione collettiva. Salim è stato colpito mentre tornava dal lavoro, nel tentativo di rifornire il villaggio di acqua. Gli assassini affermano che stava “avanzando rapidamente” nella loro direzione “con un oggetto sospetto”. Le autorità israeliane hanno trattenuto il suo corpo in ostaggio per più di due settimane usandolo come moneta di scambio (è un metodo usato spesso per spingere le comunità a sottomettersi, ritenuto legale dalla corte suprema israeliana).

Eppure, i difensori della montagna continuano a marciare. Non gli interessa cosa ne pensano gli altri; non si esibiscono per un pubblico. La resistenza qui è dura, e né la repressione sionista né l’approccio etnocentrico degli occidentali la potranno stemperare. I difensori della montagna hanno capito che essere santi non è più un prerequisito per la solidarietà internazionale, quindi marciano e cantano senza vergogna. Riuniscono gli abitanti, con i copertoni in fiamme in spalla, mentre i minareti annunciano la rivolta.

Paragonati all’esercito israeliano, i difensori della montagna sono svantaggiati in questa battaglia. Cos’è una fionda di fronte a un cecchino? Ma guardare un fucile negli occhi e dire ancora la verità significa essere un gigante. I difensori della montagna sono padroni di questa narrazione, nonostante gli esperti furiosi in tv e i diplomatici spaventati che gli sussurrano nelle orecchie.

“Non ci si dimentica della montagna”, mi ha detto un difensore. “Quando una cosa è tua di diritto, combatti per difenderla”. ◆ fdl

Mohammed el Kurd è uno scrittore, poeta e attivista palestinese. Dal settembre 2021 è il corrispondente dalla Palestina del settimanale statunitense The Nation.

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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati