Quando mi presento a un amico di un amico, dico “Sono Montse”. Vedendo la sua faccia confusa, provo a venirgli in aiuto. “Oppure puoi chiamarmi Mon-si”. Negli Stati Uniti sono abituata a dare delle opzioni alle persone, per assicurarmi che siano a loro agio nella pronuncia.

“Aspetta un attimo, hai due nomi?”, chiede.

A casa ero spagnola, a scuola ero statunitense. Quando la mamma si arrabbiava con noi, ci riversava addosso l’insulto più feroce: “Ay! That is so american!”. Io volevo che fosse vero

Due nomi, due identità: questo è quello che ho sempre saputo.

Dietro questo nome, però, ci sono più di due culture. Sono cresciuta in un calderone culturale, con una madre mezza spagnola e mezza francese, un padre statunitense nato in Colombia e una matrigna argentina. Sia a casa di mia madre sia in quella di mio padre ero immersa in un miscuglio di lingue, accenti e tradizioni.

I miei genitori all’inizio volevano chiamarmi Violette, un nome francese in omaggio alla prima lingua di mia madre, ma poi mi hanno chiamato come una montagna – il Montserrat –­ che si trova appena fuori Barcellona, in Spagna, dove ho passato la prima infanzia. Dopo che la mia bisnonna francese Andrée partorì prematuramente mia nonna e sua sorella gemella, nate di sei mesi, salì sulla “montagna seghettata” per pregare la vergine di Montserrat, la santa patrona della Catalogna, mentre le due bambine lottavano per sopravvivere. Forse c’era un coro di ragazzi che cantavano. Sicuramente avrà acceso una candela tra le centinaia già accese e donato una peseta per una preghiera. Quando le bambine sono guarite, ha dato a entrambe lo stesso secondo nome: Montserrat, come la vergine che le aveva salvate.

Sette anni dopo, durante la guerra civile spagnola, la mia bisnonna, mia nonna Odette e la sua gemella Yvette fuggirono in Francia. Una volta lì, furono separate: Odette restò con il ramo francese della famiglia e imparò a parlare solo il francese; lo spagnolo passò lentamente a seconda lingua. Yvette, che viveva con il ramo spagnolo della famiglia, parlava principalmente la loro lingua. Mia nonna, che oggi non c’è più, ha sempre parlato spagnolo con l’accento francese. Sua sorella, che ha 95 anni, parla ancora spagnolo con l’accento francese. Come ci si sente a parlare una prima lingua con l’accento della seconda? Più tardi l’avrei scoperto anch’io.

Come mia nonna, anch’io avevo sette anni quando ho lasciato la Spagna per un altro paese. Mentre mi abituavo alla mia nuova vita negli Stati Uniti, ho imparato a modificare la pronuncia del mio nome per facilitare la vita ai miei insegnanti e ai miei compagni ed evitare storpiature imbarazzanti. Mon-si. Quando lo racconto ai miei amici spagnoli, dicono che è delizioso: que mono! Quando mi sono trasferita con i miei genitori da Barcellona a Brattleboro, in Vermont, ho cominciato la prima elementare parlando con un forte accento spagnolo. How adorable (“Quant’è adorabile”), diceva la gente a mio padre del mio accento esotico. Per integrarmi mi sono sforzata di perderlo prima possibile. Alla fine ho cambiato accento come si cambia un vestito: uno non mi stava più e sono passata all’altro. Oggi parlo spagnolo con un leggerissimo accento statunitense. Mi fa sentire un’estranea anche in famiglia.

In Vermont, e poi a Boston, celebravamo tutte le feste spagnole, che mi erano più familiari di quelle statunitensi. A capodanno ci riempivamo la bocca di uva bianca sbucciata con in sottofondo il conto alla rovescia crepitante di Radio Nacional de España. Ogni 6 gennaio ci riunivamo tutti intorno alla tavola per tagliare il roscón de reyes, una torta tipo brioche che in Spagna viene servita nella giornata del re, sperando di trovare la fève (fava) nascosta nella nostra fetta. Festeggiavamo con corone dorate fatte di cartone, flûtes e vino spumante Cava a portata di mano. Per il nostro onomastico ricevevamo più regali che al compleanno. A casa ero spagnola, a scuola ero statunitense. Quando la mamma si arrabbiava con noi, ci riversava addosso l’insulto più feroce: Ay! That is so american! (“Ah! È così americano!”). Quando però ero fuori di casa con i miei coetanei, volevo che fosse vero. Essere so american voleva dire avere il permesso di portare i pantaloncini corti a scuola. Non mi chiedevano tutte le volte “da dove vieni”. Mi mescolavo con gli altri.

Mi sto imbarcando per la seconda tratta del mio volo dagli Stati Uniti alla Spagna. Con la testa annebbiata per la mancanza di sonno, sento l’assistente di volo che mi saluta mentre salgo sull’aereo. “Hola!”, dice con voce cantilenante, e subito mi ritrovo catapultata nella realtà della mia “altra” me: più animata rispetto a un giorno fa, alzo di una tacca la manopola dell’entusiasmo, come se avessi ritrovato una cara amica che non vedevo da anni. Mi succede lo stesso quando chiedo a voce alta jugo de naranja por favor anziché just water please come ho fatto sei ore fa. O quando il personale di volo annuncia le informazioni di sicurezza prima in spagnolo e poi in inglese. In questa finestra di tempo sento queste due parti di me che si fondono per poche, brevi ore. Quando arriverò a El Prat, l’aeroporto internazionale di Barcellona con le sue finestre cielo-terra che brillano al sole, sentirò chiamare il mio nome e per un attimo mi volterò, dimenticando che in Catalogna ci sono tante Montse. Inspirerò la lingua della mia infanzia tutto intorno a me ed espirerò un senso di appartenenza.

Prima di abbandonarmi agli abbracci di benvenuto della mia famiglia c’è una lunga fila alla dogana. È una routine familiare. Consegno il mio passaporto blu, l’agente legge il mio nome e poi mi guarda: Pero porque tienes un nombre catalan?, mi chiede, un po’ perplesso. Rispondo che sono mezza spagnola: Soy media española. Questa è la risposta breve.

Dire il mio nome a voce alta mi dà sensazioni profondamente diverse a seconda di dove mi trovo. Negli Stati Uniti, le mie viscere si dividono prima ancora di aprire bocca. La persona che ho davanti si metterà a ridere? Lo storpierà grossolanamente? Sbaglierà la pronuncia? Insisterà che il mio nome non è spagnolo, ma è francese? O mi farà la regina delle domande frequenti: “Ma qual è il tuo primo nome?”.

Quando ero bambina, mia nonna mi chiamava Aht perché mentre imparavo a parlare anch’io non riuscivo a dire la prima parte del mio nome. Adesso quando mi presento a qualcuno noto che spesso smusso gli angoli dell’ultima sillaba e pronuncio il mio nome come se fosse una domanda. Come per dire: sei a disagio? Ti aiuto io.

Sto aspettando che mi chiamino per darmi il mio caffè in un locale di Portland, in Oregon. “Monster (mostro)…”. Pausa “…rat” (topo). Lo vedo, il proprietario del locale, in mezzo agli chef, anche se lui non vede me. Ha usato le lettere del mio nome per formare la coppia di parole più brutta che esista in inglese. Quando mi chiama per consegnarmi il caffè e lo storpia di nuovo (esagerando un po’ meno rispetto a quando si stava esibendo per il suo pubblico), lo correggo seccamente. “Montse-rraht”, dico, accentuando le erre arrotate.

“Oh, ma è bellissimo”. Ha cambiato tono, ma gliela faccio passare liscia – mi limito a buttare lì un flebile “grazie”. Ha tirato fuori il mostro dentro di me, penso.

Quando ero alle medie, in New England, fantasticavo di cambiare nome e di farmi chiamare Monica. Tre minuscole lettere cambiate e non avrei più visto il dito dell’insegnante indugiare sul registro di classe – quella lunga pausa dopo “Sarah” e prima di “Alex”. Tra l’altro, avevo un’amica a Barcellona che si chiamava Monica. Sì, Monica. “Un nome che mi farà sentire a casa in tutti e due i posti”, pensavo.

Quando negli Stati Uniti incontro dei bambini con genitori come i miei, che gli hanno dato dei nomi che richiamano le loro origini, mi chiedo se anche loro non sopportano quando si fa l’appello. Se, da adulti, anche loro si sentiranno incompresi nel loro paese d’adozione. “Mi piace moltissimo il tuo nome”, mi premuro sempre di dirgli. Vorrei che si sentissero speciali, anziché insoliti. Che non ci impiegassero anni ad accettare e rivendicare la bellissima complessità delle loro molteplici identità. Che si fidassero del loro papà quando gli dice, come faceva il mio, “credimi, un giorno apprezzerai il tuo nome”.

Su un taxi a Los Angeles, il mio autista, originario del Messico, mi dice che anche sua figlia si chiama Montserrat. Mi accendo. “Veramente?!”.

“Sì, ma lo odia e vuole che la chiamiamo con il suo secondo nome”, dice, mentre vedo dondolare la croce appesa allo specchietto retrovisore. La prego, rispondo, le dica che oggi ha conosciuto una donna che si chiama Montserrat, che anche a lei non piaceva il suo nome da bambina ma adesso ne va fiera.

Negli Stati Uniti, quando qualcuno s’interessa, quando veramente vuole sapere come si scrive il mio nome, o da dove viene, o come si pronuncia, faccio lentamente lo spelling, evitando di arrotare troppo le erre. Stringo le dita per dirigere le lettere del mio nome come su uno spartito, oppure le picchietto come se intingessi un pennello sottile in un colore acceso, dipingendo su una tela. Mi prendo tutto il tempo, perché non voglio più dare una versione annacquata di un nome che si tramanda da generazioni nella mia famiglia.

Sara Zollo

Entro in un caffè nel Barrio Gótico, a Barcellona, e prima che dica una parola la cameriera mi chiede, “Hello, what would you like?” in un inglese screziato di accento spagnolo. È abituata a veder passare da questa porta più turisti che persone del posto. Vorrei dirle: conosco la tua lingua – un tempo era la mia. Queste strade sono state le prime che ho conosciuto. Per cercare di trasmettere parte di tutto questo, dico, Buenas! Un cortado por favor, rassicurandola sul fatto che con me non deve parlare in una lingua straniera.

Rilassa le spalle e sul suo viso si arriccia un sorriso. Ah, claro!

Come faceva a sapere che non sono più veramente a casa mia? Sono i miei vestiti? I miei capelli? Il mio modo di camminare? Cosa le dice che non sono più una spagnola? Se fosse entrata mia sorella Claudia, che ha tratti spagnoli più marcati, la cameriera l’avrebbe salutata in modo diverso? Se non avessi mai lasciato la Spagna da bambina, mi scambierebbero comunque per statunitense?

A Deià, a Maiorca, c’è una panetteria dove vado fin da quando ero piccola e dove la panadera avvolge le mie ensaimadas nella carta sottile, passandomele con le mani impolverate di zucchero a velo. Recentemente, quando ci sono andata, c’era una nuova panadera. Dovremmo avere più o meno la stessa età. Ogni mattina ci scambiamo un que tal estas e ci auguriamo buona giornata dopo che ho messo il mio euro sul bancone. Una mattina la sento parlare un inglese impeccabile con una cliente britannica. Al che sfoggio il mio: You speak perfect english! È statunitense, dice. Sua madre è spagnola, di Soller, e suo padre è californiano. Il suo primo nome è distintamente americano, mentre il mio è spagnolo. È cresciuta (per lo più) in Spagna, io sono cresciuta (per lo più) negli Stati Uniti. Siamo come il lancio di una monetina, la sua è caduta da un lato, la mia dall’altro. Come sarebbe stata la mia vita se da bambina non me ne fossi mai andata dalla Spagna? Come sarebbe stata la sua se non se ne fosse andata dagli Stati Uniti? A parte non dover sopportare l’imbarazzo dell’appello a scuola, come si sarebbe svolta la nostra vita? Vorrei farle tante domande, ma c’è una fila che arriva fino all’angolo della strada. Siamo in alta stagione.

A volte tra le mie due lingue c’è una fluidità che non riesco a controllare. Indipendentemente da dove mi trovo nel mondo, se ho sonno, mi sorprendo a dire, “Ouf, I’m cansadisima”. Quando calpesto qualcosa di viscido a piedi nudi, per dire “che schifo” dico ah, que aaasco!, anziché gross! Ma poi, in Spagna – per esempio quando siamo ben oltre il sobremesa e hanno già portato via i piatti e i bicchieri di vino – ecco che l’inglese fa capolino nelle frasi in spagnolo. Yes anziché sì. Of course anziché claro.

E se accettassi questo miscuglio di lingue come una parte di me, invece di combatterlo? Forse mischio le parole perché è così che funziona il cervello. Un po’ come chiamare per sbaglio un figlio con il nome di un altro. Però mi domando: e se invece queste parole mi uscissero fuori inconsciamente, perché mi sembrano più autentiche in spagnolo che in inglese, o viceversa?

So da mio padre che la nostra prima lingua è immagazzinata in una parte diversa del cervello. La sua prima e unica lingua fino a sette anni è stata lo spagnolo. È nato a Bogotá, in Colombia, ed è cresciuto in una casa del barrio Chapinero insieme agli ocelotti domestici, ai cervi e ai suoi genitori, entrambi giornalisti. Erano bilingui, ma dentro e fuori delle mura di casa sua, l’unica lingua che sentiva parlare era lo spagnolo.

Quando mia madre era piccola, invece, parlava tre lingue a rotazione. Con sua madre parlava spagnolo, con suo padre francese e con sua sorella inglese. A tavola, a cena, quando erano tutti insieme, parlavano francese.

“Qual è stata la tua prima lingua?”. Per molte persone, è facile rispondere. Nel mio caso, però, non è così chiaro. A differenza dei genitori di mio padre, i miei non si facevano problemi a mescolare le lingue. A casa sentivo un misto di inglese, spagnolo e francese, a scuola il catalano. Hi kiddo! Hola guapa. Look at the minou. Besos. Bisous. Kisses, Felicidades! Je t’aime chouchou. See you later. Adéu!

Con gli anni ho dimenticato quasi completamente il francese e il catalano e oggi, da adulta, faccio dei piccoli errori quando parlo in spagnolo. Spesso frugo nella mia mente, come se consultassi una mappa del quartiere dove abitavo un tempo, per trovare il verbo spagnolo giusto, oppure mi correggono quando dico per sbaglio que tengas un buen noche anziché una buena noche. Una volta, dopo un raffreddore, ho perso la voce per sei giorni interi. Non mi usciva neanche un sussurro. Facevo delle espressioni esagerate con la faccia e muovevo in continuazione le mani, indicando saliere e porte per parlare la lingua che sentivo ma a cui non riuscivo a dare voce. È così che ci si sente a stare a tavola in una famiglia dove si parla francese o catalano. Tieni in mano una chiave che entra nella serratura, ma che fa fatica a girare.

Quando i genitori di mio padre partirono dalla Colombia si ritrovarono nelle strade affollate di New York, con l’Upper West Side al posto del Chapinero. Non parlando una parola d’inglese, mio padre restò praticamente muto per sei mesi. Tra i suoi ricordi più vivi c’è Antonio, un suo amico italiano, l’unico bambino con cui comunicava a scuola. Si erano creati una loro lingua, un misto d’italiano e spagnolo, che parlavano solo loro. Quando ha saputo che Antonio non poteva venire alla sua festa di compleanno, mio padre non ha voluto più festeggiare. Preferiva stare solo piuttosto che provare il disagio di non avere le parole per comunicare.

Oggi mio padre parla perfettamente l’inglese e lo spagnolo, e anche il portoghese, ma tutte queste lingue non convivono in lui allo stesso modo. Ha sempre avuto l’impressione di esprimersi e di comportarsi diversamente a seconda della lingua che parla. Qualche anno fa, quando ha partecipato a un video per un’associazione non profit che promuove la comunicazione interculturale, questa distinzione è diventata chiara. Il video è stato prodotto sia in inglese sia in spagnolo, e mio padre mi racconta che quando hanno girato la versione inglese il produttore gli ha detto di rilassarsi, di essere meno cerebrale e di lasciarsi andare. L’hanno dovuto girare un sacco di volte. Quando invece è arrivato il momento della versione spagnola, anche se la pressione e le luci erano le stesse, i due registi sono rimasti sbalorditi da quanto fosse più naturale e a suo agio. “Il produttore ha detto che sembravo un’altra persona”, racconta. “Be’, forse era vero”.

Cerchiamo di diventare la versione più vera di noi stessi: e se in realtà non ci fosse una sola vera versione, ma tante? Tale padre, tale figlia: ci sono due versioni di me. Una resta alzata fino a tardi e si concede un bel bicchiere di vino, merendas quotidiane e formaggio spalmato sul pan. Ride spesso e a voce alta e un’energia vibrante accompagna le sue parole. È spontanea e allegra. Poi però c’è l’altra versione. Quando ride si copre la bocca. Evita i grandi raduni di gruppo, è abitudinaria, cena alle sei di sera. Pensa troppo e si preoccupa delle parole che dice, se le pronuncia male o viene fraintesa.

Ultimamente ho trascorso un lungo periodo in Spagna e in Francia. Un giorno mi sono accorta di questo dualismo. Mi sono accorta che facevo rimbombare la mia risata, che ero più espressiva quando gesticolavo con le mani che quando parlavo, che mi concedevo volentieri tutte le cose che spesso mi nego negli Stati Uniti. Ero meno ansiosa e mi calavo in una parte più gentile di me. Questo succede perché mi sto assimilando alla parte della mia cultura che vive dall’altra parte dell’oceano? Negli Stati Uniti evito di ridere a voce alta per paura di disturbare? Perché mi cambio il nome per mettere a loro agio gli altri? Forse sto rifiutando la cultura che spesso mi rifiuta, e di conseguenza divento una versione più piccola di me stessa.

Sono seduta al tavolo di un ristorante tradizionale spagnolo insieme alla mia famiglia, a Sitges, una città di mare a pochi chilometri da Barcellona. Cominciamo con olivas e un po’ di pan con tomate – pomodori maturi e olio d’oliva spruzzato su una fetta di pane dalla crosta spessa. Guardo alla mia sinistra, fissando lo sguardo sulle rive ricoperte di sassi del Mediterraneo. Comincio a sognare a occhi aperti, uno dei miei passatempi preferiti, anche quando mi trovo in questo posto dei miei sogni. A tavola sento i suoni rapidi della lingua che mi sono lasciata alle spalle, e la mia famiglia per un momento si dimentica che sono qui, passando dal castigliano (spagnolo) al catalano. Ay perdona, Montse! In momenti come questi non sento nessuna affinità con quella ragazzina che voleva tanto sentirsi so american. Quello che non dico a voce alta è quanto amo sentire l’eco del catalano intorno a me. Che capisco quasi ogni parola, anche se non lo so più parlare. Mentre mi ritraggo nel mio mondo sfumato – né di qua né di là – me ne sto seduta a compiacermi di riuscire a origliare tutte le conversazioni, in catalano, in francese, in inglese e in spagnolo. A cinque anni parlavo correntemente tutte e quattro le lingue. Oggi ne parlo solo due, ma in un modo o nell’altro le capisco tutte, perché tutte continuano a vivere dentro di me.

Sono a Los Angeles, al consolato spagnolo. Sono venuta per prendere la cittadinanza spagnola. Passo la documentazione alla donna gentile dietro la vetrata che ci separa. Montse, dice con voce ovattata, ma non sta parlando con me. Si gira per dire qualcosa alla donna più anziana accanto a lei. Una donna che si chiama come me. Guarda attentamente la mia documentazione, facendo sì con la testa mentre la scorre. Gira i fogli una, due volte. Todo perfecto, mi dice al piccolo microfono dall’altra parte del vetro. Ora, dice, mi faranno un certificato di nascita spagnolo. Come se fossi nata un’altra volta.

In una mite giornata di primavera salgo sulla montaña de Montserrat, dove la mia bisnonna, tanti anni fa, andò a cercare un miracolo. Un miracolo che si è avverato, e così ora mi chiamo come la montagna. Ci sono pochi altri posti dove mi sento più in pace di quando vengo abbracciata da queste montagne rosate. El aire, las vistas, las sensaciones. Il suono flebile del catalano e i ragazzi del coro che cantano in lontananza. Getto lo sguardo su questa vasta distesa, avvolta da queste montagne, e mi sento come le mie montagne. Sono parte di me. Almeno per un momento, mi sento a casa. ◆ fas

Montserrat Andrée Carty è una scrittrice e fotografa, caporedattrice della sezione interviste di Hunger Mountain. Ha un master in scrittura al Vermont college of fine arts e sta scrivendo il suo primo libro. Questo articolo è uscito sul sito Longreads con il titolo My name is a mountain.

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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati