Non sono ancora le quattro del mattino a Tekoha Y’apy (che in guaraní significa territorio della sorgente), un villaggio del Paraguay settentrionale a meno di duecento chilometri dal confine con il Brasile. Un uomo anziano esce da una casa di mattoni senza intonaco. È l’ottobre del 2022, siamo nella primavera australe, ma fa freddo. Ernesto Vera – l’uomo si chiama così – indossa un cappotto grigio di quasi due taglie troppo grande. Dal cappuccio s’intravedono una frangia di capelli neri, un naso largo e degli zigomi rotondi. È il tamoi, il capo spirituale, e cammina su ramoscelli così umidi che quando li calpesta non fanno rumore. Dopo essere entrato nella grande casa comunale, un edificio rettangolare con un tetto di canne gialle, accende un fuoco e mette a bollire l’acqua. Quindi sistema l’erba mate macinata in una zucca cava e intagliata, poi aggiunge l’acqua calda e sorseggia il liquido con una canna di legno. Non c’è giorno che passi senza berlo, “se ho tempo”, puntualizza. Quando offre la bevanda a Victoria, la moglie, fuori albeggia.

Nelle mani di pochi

Secondo alcuni studiosi i nativi guaraní svolgono cerimonie simili in queste terre tropicali, luogo di nascita dell’erba mate, da almeno mille anni. La vegetazione è sacra per questa popolazione: ci sono cerimonie per il mais e per le nuove piante, ma l’erba mate, la ka’a, è la più sacra di tutte, spiega il capo spirituale. È la pianta madre. Anticamente si usava metterla in bocca, morderla e bere l’acqua del fiume con le mani. Bastava per apprezzarne il sapore e le proprietà stimolanti. Nei rituali importanti l’erba mate si beve per purificarsi, prepararsi, essere più forti, più sani e connessi alla Terra. Eppure, un giorno di vent’anni fa, Victoria disse al marito che non l’avrebbe più bevuta.

“Come? Che male può farti?”, le aveva chiesto Vera.

“Ogni volta mi fa venire mal di stomaco”, gli aveva risposto la moglie.

Di solito Victoria tiene gli occhi bassi quando risponde al padre dei suoi quattro figli, ma quel giorno, racconta Ernesto Vera, gli aveva parlato guardandolo dritto in faccia.

Le parole della moglie lo fecero riflettere: da vent’anni avevano smesso di bere l’erba mate più autentica, nella sua versione selvatica, che vive nel sottobosco. Con l’aumento della deforestazione era diventato impossibile trovarla. Anche se è una pianta fondamentale nella dieta dei guaraní e nei loro rituali, ormai era diventata quasi un capriccio, dato che bisognava piantare innanzitutto mais, manioca e fagioli. Poi dar da mangiare alle galline e lavorare per sfamarsi, sistemando le recinzioni dei terreni di un proprietario terriero, che manda un camion a prendere i braccianti per meno di cento dollari.

La lavorazione delle foglie di mate nel villaggio Tekoha Y’api, 9 ottobre 2022. (Mayeli Villalba)

Così Ernesto Vera e Victoria compravano l’erba mate in un negozio. La portavano a casa già macinata e avvolta nella carta. Per più di vent’anni avevano consumato questa versione industriale dell’erba, prodotta da aziende che possiedono grandi monocolture e controllano il destino dei piccoli agricoltori. Sono queste imprese a raccogliere le foglie di erba mate, a usare prodotti chimici, ad accelerarne la lavorazione senza rispettare i tempi giusti, abbassando il prezzo pagato ai produttori e vendendole a buon mercato ai consumatori. Poi lo stomaco di Victoria ha detto basta.

Quel giorno Ernesto andò nell’oga guasú, la casa grande del villaggio. Cantò e pregò Tupá, una delle più importanti divinità guaraní. Ed ebbe un’idea: avrebbe cercato un tesoro. Avrebbe attraversato le grandi proprietà terriere per trovare i resti della foresta dove crescono le piante di mate. Avrebbe portato a Victoria le foglie più tenere e naturali che esistono.

A Tekoha Y’apy 1.800 agricoltori proteggono 850 ettari di foresta pluviale e vivono su altri 650 ettari riservati alle case e agli orti. A pochi chilometri di distanza, tre proprietari terrieri possiedono circa 300mila ettari nello stesso dipartimento, San Pedro, ormai quasi completamente deforestato. In Paraguay il 2 per cento della popolazione controlla quasi l’80 per cento della terra coltivabile e l’80 per cento della foresta si trova in proprietà private, per lo più latifondi. Decine di migliaia di ettari di terra fertile, fiumi, montagne, sorgenti e valli sono nelle mani di una sola persona, come il brasiliano Tranquilo Favero, l’ex presidente paraguaiano Horacio Cartes o Carlos Casado, discendente di argentini e spagnoli. Sono dei feudatari del ventunesimo secolo, che regnano sulle terre dove prima vivevano le popolazioni native.

Il nonno di Ernesto Vera gli aveva insegnato come trovare l’erba mate selvatica, che cresce sotto i robusti alberi di lapacho dai fiori rosa o quelli di yvyra pytã, ricoperti di muschio e circondati da felci giganti. All’epoca era facile raccogliere l’erba mate molto vicino a Tekoha Y’apy, ricorda Vera. Bastava un’ora di cammino per trovarla, godendosi lungo la strada il profumo delle orchidee e l’orchestra di uccelli, scimmie e grilli.

Recipienti per il mate e il tereré ad Asunción, 2019. (Kathrin Harms, Laif/Contrasto)

Ma quando Vera si è messo alla ricerca dell’erba mate per Victoria, la sua comunità era già un’isola di giungla scura e lussureggiante circondata da pascoli e mucche dei grandi allevatori. Dal 1950 il Paraguay ha perso otto dei nove milioni di ettari della sua foresta atlantica dell’alto Paraná, il nome ufficiale della foresta subtropicale che si estende anche in Argentina, Uruguay e Brasile. Oggi in quello che è uno dei dieci maggiori produttori di carne bovina al mondo, le mucche (circa 14 milioni) sono quasi il doppio degli abitanti.

“Prima dell’arrivo degli stranieri, c’erano più alberi e animali. E anche più piante medicinali e più frutti. Faceva fresco. Oggi la foresta è diminuita e spesso fa caldo”, dice Vera in guaraní mentre camminiamo intorno a casa sua con il nipote Fernando, 19 anni, che sta per entrare all’università grazie a una borsa di studio e mi fa da interprete.

Più di vent’anni fa Vera camminò per giorni attraverso questi allevamenti di bestiame, schivando nuove recinzioni e guardie armate, finché trovò quello che stava cercando vicino a un ruscello. Si arrampicò sull’albero di mate senza guardare in basso e ne scese solo dopo essersi messo in tasca un centinaio di foglie.

“Queste non ti faranno male”, disse a Victoria, posando il suo tesoro a terra.

Anche bevendolo da soli, nasce un dialogo con noi stessi. Tutti ricordano la prima volta che l’hanno consumato immersi nei loro pensieri

Essiccarono le foglie sul fuoco, le fecero riposare per qualche giorno, le macinarono e poi assaggiarono l’erba mate. Sentirono il vero sapore, che dura sul palato, di foglia affumicata, verde, dolce e amara allo stesso tempo. Da quel momento Victoria non ha più avuto nessun bruciore di stomaco.

Il cerchio della parola

L’Argentina, il Paraguay e l’Uruguay celebrano le loro giornate nazionali dell’erba mate in date diverse. Il Paraguay ha anche una giornata dedicata al tereré, la stessa erba bevuta fredda ma con identica passione. In ognuno di questi paesi esistono più di duecento versioni diverse: con o senza steli, più o meno macinata, con l’aggiunta di menta o stevia, con il limone o puro. Il mate rimane la bevanda analcolica più consumata in Argentina, Paraguay, Uruguay, Cile e Brasile meridionale. Ogni uruguaiano – sono loro i maggiori bevitori, ancora più degli argentini – può consumarne circa otto chili all’anno. Forse uno straniero associa subito il cono sud all’immagine di un famoso calciatore, ma probabilmente la seconda cosa che gli viene in mente sono le persone che vanno in giro con il thermos di mate sotto il braccio.

Le foglie di mate hanno la caffeina come ingrediente psicoattivo e contengono xantine, alcaloidi presenti anche nel caffè e nel cioccolato. Hanno virtù stimolanti, depurative e antiossidanti. Ma per gli abitanti del cono sud l’erba mate è soprattutto una cerimonia. Spesso le persone care si ritrovano per parlare intorno a un mate o a un tereré. Sono “i cerchi della parola” usati ancora oggi dai guaraní e da quasi tutte le popolazioni native d’America al posto del feroce individualismo dei nostri tempi. Anche bevendo da soli, nasce un dialogo con noi stessi: tutti ricordano la prima volta che hanno consumato il mate immersi nei loro pensieri.

Il mate dev’essere alimentato muovendo delicatamente l’erba con la cannuccia, la bombilla. Serve a creare un po’ di spazio per l’acqua da versare, cercando di non bagnare tutta l’erba nel recipiente in modo che non rilasci subito tutto il sapore e che duri più a lungo. Si fa a ogni giro di mate. Berlo significa usare per ore le stesse foglie di una pianta e un po’ d’acqua. Non consumare, non comprare, non spendere in modo compulsivo. È un simbolo e un segno. Il mate è identità.

Senza tutto questo, non si spiegherebbe perché in Siria e in Libano il mate è consumato quotidianamente. Dopo la prima guerra mondiale e la caduta dell’impero ottomano, molti mediorientali arrivarono nelle Americhe per cominciare una nuova vita. Impararono ad amare quella terra e diventarono parte fondamentale del suo sviluppo. Centinaia di migliaia di persone si stabilirono lì. Chi tornò nei paesi d’origine portò con sé l’usanza del mate e la trasmise ai figli e ai nipoti come simbolo e ricordo di quell’esperienza. Io sono figlio di una famiglia di migranti argentini in Spagna e ricordo che mio padre, mentre andavamo all’aeroporto di Madrid, si chiedeva quanta erba mate avessero portato i nonni, gli zii o la madrina. Ricordo anche quando mi mangiavo le unghie per il nervosismo accanto a una valigia piena di pacchi, come se fosse un Natale anticipato, e rivedo la mia famiglia che grida, piange e ride intorno a un mate.

Nel mondo cresce il consumo di erba mate. Negli Stati Uniti e in Europa la si trova anche in forme insolite, come lattine o bustine da tè nei supermercati. È venduta come un’alternativa più naturale ad altre bevande energetiche ed estremamente lavorate. Un esempio: quella più diffusa in Europa è una bevanda tedesca che contiene la caffeina estratta dal mate ma anche dieci grammi di zucchero ogni 33 centilitri, più altri 23 ingredienti. Il paese che ne produce e ne esporta di più è l’Argentina, con una media annua di 35mila tonnellate: secondo l’istituto nazionale dell’erba mate le principali destinazioni sono la Siria (72 per cento), il Cile (14 per cento), il Libano e gli Stati Uniti (2 per cento).

Permesso

A partire dal primo decennio degli anni duemila il Paraguay è diventato un paese di mucche e soia. Molti pascoli si sono trasformati in campi di soia transgenica, l’alimento iperproteico che oggi è una materia prima indispensabile per l’alimentazione del bestiame in Europa e in Cina. I campi di soia sono cresciuti fino a occupare circa 3,5 milioni di ettari. Oceani verdi dove non è rimasto neanche un albero incombono sulle ultime popolazioni native e le foreste del Paraguay, del Brasile e dell’Argentina.

Mentre nel nord del mondo i derivati del mate erano sempre più spesso disponibili nei supermercati, Ernesto Vera, guaraní, proseguiva il suo viaggio alla ricerca della pianta autentica tra molte difficoltà. La parola “permesso” accompagnava la sua ricerca. Doveva chiedere il permesso agli allevatori, a una famiglia o alle grandi aziende proprietarie della terra. Il permesso di aprire il cancello di una tenuta senza farsi sparare, di camminare tra le mucche, di prendere alcune foglie e rami. Il permesso di attraversare i grandi campi di soia dove una sola persona su un trattore, con lo schermo touch screen e l’aria condizionata, raccoglie il frutto di centinaia di ettari in un pomeriggio o spruzza sostanze chimiche tossiche intorno alla comunità di Vera.

La situazione gli ricordava fin troppo bene quello che i suoi antenati avevano subìto per centinaia di anni. Nel cinquecento i primi colonizzatori europei furono testimoni del consumo di erba mate nel territorio che oggi è il Paraguay e allora era il vicereame del Perù. Lo vietarono immediatamente. Nel 1610 l’inquisizione del regno di Castiglia proibì l’uso della pianta e nella città di Asunción impose pene di cento frustate per i nativi e cento pesos di multa per gli spagnoli che avessero consumato o venduto erba mate, come racconta l’argentino Jerónimo Lagier nel libro La aventura de la yerba mate.

Solo vent’anni dopo gli spagnoli la legalizzarono e ne fecero la base della loro espansione economica e territoriale nella regione, dando vita alla Provincia Paraquaria, una sorta di stato gesuita che arrivò a coprire parte dell’Argentina, della Bolivia, del Brasile, del Cile, del Paraguay e dell’Uruguay, quando la Spagna e il Portogallo erano ancora impegnati a dividersi il territorio americano con dei trattati.

Questo ramo della chiesa cattolica, insieme ai francescani e ai domenicani, gestì relazioni diplomatiche, militari e religiose con quasi tutti i popoli guaraní. Per circa due secoli impose la sua religione e i suoi costumi agli indigeni, assorbendo allo stesso tempo le loro conoscenze, la loro forza lavoro e non solo l’erba mate, ma anche le loro terre. Le loro foreste. I gesuiti furono i primi europei a creare delle monocolture destinate all’esportazione dal Sudamerica.

“E il capitano grande, Duiy, che è venuto l’altro giorno, ha picchiato davanti a noi con le sue stesse mani un indigeno che era appena arrivato da Mbaracayú, cercando di riportarlo a Mbaracayú”, si legge in un manoscritto conservato nella biblioteca nazionale di Rio de Janeiro. Il documento è intitolato: “Risposta degli indigeni alle disposizioni reali che ordinano agli indigeni delle Riduzioni di non prestare servizio per più di due mesi, come ordinato da sua maestà, e di non essere portati a Mbaracayú in tempi di malattia”. È datato 25 agosto 1630 e ci è noto grazie al lavoro del linguista gesuita spagnolo Bartomeu Melià.

Torture, omicidi, fame, stupri e percosse. Le cose non cambiarono quando i gesuiti furono espulsi da Carlo III nel 1767 né quando, più tardi, gli spagnoli furono cacciati dai creoli che proclamarono l’indipendenza del Paraguay. I discendenti dei guaraní, i contadini di origine mista – nativa, spagnola, africana e portoghese – continuarono a coltivare l’erba mate in condizione di schiavitù. Li chiamavano mensú, perché teoricamente avrebbero dovuto ricevere un compenso mensile, anche se non succedeva mai. Un’unica azienda, la Industrial paraguaya, possedeva una delle più vaste aree del Paraguay.

Il forno, su cui Ernesto Vera si arrampica senza fatica, può sostenere quintali di rami e foglie di mate, e perfino diverse persone

“Quello non è più un uomo, è un bracciante dell’erba mate. Forse dentro di lui ci sono ribellione e lacrime. Si sono visti dei minatori piangere con un sacco di mate sulle spalle. Altri, incapaci di suicidarsi, sognano la fuga. Pensate che molti sono appena adolescenti. Il loro salario è illusorio. I criminali possono guadagnare in alcune prigioni. Loro no. Devono comprare dall’azienda quello che mangiano e gli stracci che indossano”.

Queste righe furono scritte nel 1909 da Rafael Barret, un giornalista e poeta anarchico spagnolo che visse un po’ in tutti i paesi dove si consuma l’erba mate. E da quasi tutti fu allontanato. Oggi la situazione è migliorata, ma le aziende produttrici pagano così poco che solo associandosi in cooperative i contadini paraguaiani possono guadagnare un salario equo. È il caso del marchio Oñoirũ, un modello di produzione biologica che rappresenta molte famiglie di agricoltori del dipartimento di Itapúa, nel sud.

La storia ha tenuto quasi tutti i nativi guaraní lontano dalla produzione di erba mate: perché coltivarla se poi si vende per due soldi? Perché rivivere il trauma dei genitori e dei nonni? Stanco di cercare una foresta che non esisteva più e di vedere come la pianta di mate cresceva a fatica in luoghi che si contavano sulle dita di una mano, Ernesto Vera cominciò a farsi una domanda: “Per quanto tempo mi daranno il permesso?”. Poi gli venne un’idea: doveva far crescere l’erba mate nella sua comunità.

“Per fortuna l’ho fatto”, dice davanti al tatuape, un forno fatto di rami a forma di scheletro di armadillo, dove si essiccano quintali di foglie di mate.

Amicizia e affari

Si sono conosciuti dieci anni fa durante un mitakarai, una cerimonia in cui i giovani della comunità ricevono il loro nome spirituale. Ernesto Vera ballava al ritmo che la moglie Victoria e le altre donne del villaggio battevano a terra con i bastoni cavi di tacuara. Lui agitava le mbaraká, le maracas, intonando una melodia che provoca uno stato di trance. Norma Ávila, cantante e artista, era arrivata da Asunción, la capitale, ed era stata invitata a entrare nell’oga guasu. Si era lasciata trasportare dalla musica, in comunione con gli altri. Ne è nata un’amicizia e anche un rapporto d’affari. Vera, insieme ad altre famiglie locali, coltivava la sua erba mate, e invitava gli altri abitanti del villaggio a fare lo stesso. Quando Norma Ávila è arrivata a Tekoha Y’apy, questa comunità e altre vicine ne avevano accumulato diversi quintali. Se l’idea di raccogliere le foglie per Victoria e di coltivare la pianta nella comunità è stata di Ernesto Vera, fu la moglie a proporre di offrire alla visitatrice il mate preparato come una volta, magari per poterlo vendere nella capitale.

Ernesto Vera e Victoria hanno mostrato a Norma Ávila tutto il processo. La comunità Tekoha Y’apy raccoglie i rami carichi di foglie e accende un falò per il sapecado, un primo processo di essiccazione che consiste nell’esporre molto brevemente i rami alle fiamme. Dopo si lasciano a essiccare per diversi giorni nel tatuape, una struttura alta circa tre metri, accuratamente legata insieme con le radici del güembé, il filodendro, le stesse usate per gli archi da caccia, senza chiodi né viti.

Il forno, su cui Vera si arrampica senza fatica, può sostenere quintali di rami e foglie di mate, e perfino diverse persone. Poco sotto, una fossa scavata nella sabbia argillosa e rossiccia ospita un fuoco progettato e preparato per durare diversi giorni. La legna brucia, affumicando e cuocendo lentamente le foglie. Dopo circa tre settimane comincia il processo di macinazione manuale in enormi mortai ricavati da tronchi d’albero. Poi, quando l’erba è pronta, viene lasciata riposare un anno affinché possa raggiungere il suo sapore ottimale.

Dall’intesa tra Ernesto Vera e Norma Ávila è nata Sea. Sul pacchetto di carta marrone è stampato un paragrafo che ricorda i tempi dell’inquisizione: “L’erba mate è vietata: voce ed erba del diavolo. Sarà bruciata sulla pubblica piazza, scomunica per chi la beve, quindici giorni di carcere per chi la porta in città, cento frustate per chi è trovato in suo possesso”. Sea è diventata una delle erbe mate migliori del mondo. È l’unica elencata nell’Arca del gusto, una lista di cinquemila alimenti che l’umanità dovrebbe preservare per il suo stesso bene, secondo la fondazione Slow food per la biodiversità, che dal 1986 promuove questo catalogo mondiale. Oggi Ávila vende, promuove e distribuisce quest’erba mate ad Asunción e nel resto del mondo. Insieme al prodotto, diffonde anche la sua storia. Racconta da dove viene, com’è lavorata e chi è il tamoi Ernesto Vera.

Di recente è andata a Berlino, in Germania, con una valigia piena di pacchetti di erba mate creati dagli avá guaraní. Partecipa a molte fiere, pubblicizza il prodotto e parla dell’importanza di tutelare l’ambiente. Ha creato il suo “rituale del mate”, una cerimonia che combina la storia e la mitologia guaraní con le sue canzoni. È una sorta di degustazione per onorare le persone che l’hanno creato e la natura che gliel’ha permesso.

“Come un piccolo viaggio attraverso le storie e il sapore ancestrale, il gusto della foresta. Con la cerimonia del mate cerco di toccare i cuori”, dice Ávila.

Mentre la sua erba mate viaggia per il mondo, a Tekoha Y’apy comincia un nuovo giorno di primavera. Victoria va nei campi per controllare il mais, la manioca, le arachidi, l’ananas e le patate dolci. Altri si danno il cambio per sorvegliare il tatuape o per essiccare altri rami. Ernesto Vera, appollaiato sulla gigantesca montagna di rami e foglie, coordina il lavoro con un grande tridente di legno. È lui a decidere quando l’erba è sufficientemente tostata. È una specialità nella catena di lavoro familiare e comunitaria che si è trasformata nella moderna industria dell’erba mate. Alle quattro di mattina sono tutti svegli. Vera va nella casa comunale e mette l’acqua sul fuoco. Non è ancora l’alba quando beve i primi sorsi di mate in quest’angolo di foresta, uno dei pochi posti in Paraguay dove ogni tanto fa ancora freddo. ◆ fr

Santi Carneri Tamaryn è un giornalista, fotografo e documentarista argentino. Vive ad Asunción, in Paraguay, da dieci anni. Dromómanos è nato nel 2011 su iniziativa della giornalista messicana Alejandra Sánchez Inzunza e dello spagnolo José Luis Pardo Veiras con l’obiettivo di produrre giornalismo indipendente in America Latina. Quest’articolo fa parte del progetto Colapso, che racconta le conseguenze della crisi climatica nella regione.

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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati