Negli ultimi mesi è cominciato in Europa un nuovo scontro tra storici. Da una parte Achille Mbembe e altri sostengono che distinguere l’olocausto dagli altri crimini violenti della storia umana è un atto eurocentrico che trascura gli orrori dei crimini colonialisti. Dall’altra Jürgen Habermas e altri insistono sul carattere unico dell’olocausto. Penso che entrambe le parti abbiano in un certo senso torto e ragione.

È verissimo che la maggioranza della popolazione dell’occidente sviluppato non è pienamente consapevole dei terrificanti orrori del colonialismo e dei suoi sottoprodotti. Basta ripensare alle atrocità delle due guerre dell’oppio combattute (non solo) dall’impero britannico contro la Cina. Le statistiche mostrano che, fino al 1820, la Cina era la principale economia del mondo. A partire dalla fine del settecento, i britannici cominciarono a esportare enormi quantità d’oppio in Cina, trasformando milioni di cinesi in tossicodipendenti. L’imperatore cinese cercò di risolvere il problema vietando l’importazione d’oppio, e i britannici (insieme ad altre forze occidentali) intervennero militarmente. Il risultato fu catastrofico: in breve tempo l’economia cinese si dimezzò. Ma quel che dovrebbe interessarci è la legittimazione di questo brutale intervento militare: se si considera il libero scambio come la base della civiltà, il divieto cinese d’importare oppio diventa una minaccia alla civiltà stessa. Non si può fare a meno d’immaginare come si presenterebbe un’azione simile oggi, con il Messico e la Colombia che agiscono per difendere i loro cartelli del narcotraffico e che dichiarano guerra agli Stati Uniti per non essersi comportati in maniera civile, ostacolando il libero commercio dell’oppio.

leila marzocchi

La lista di questi crimini è molto lunga: il Congo belga, le regolari carestie con milioni di morti nell’India britannica, la devastazione di entrambe le Americhe. La crudele ironia della sorte è che lo schiavismo riemerge proprio nel momento in cui gli argomenti centrali dell’ideologia occidentale sono diventati la libertà, la lotta contro la schiavitù della donna, dei lavoratori, dei cittadini nei regimi autoritari e via dicendo. La schiavitù è stata scoperta ovunque in tutte le sue accezioni metaforiche, ma ignorata quando esiste in senso letterale.

Il colonialismo produce qualcosa che può essere definito come la catastrofe della modernità: l’impatto spesso terrificante della modernizzazione sulla vita delle comunità premoderne. Basta rievocare il destino di Attawapiskat, una remota comunità aborigena nel nord dell’Ontario. La sua storia ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione all’inizio del 2016 e spiega bene perché gli aborigeni canadesi rimangono una nazione spezzata, incapace di trovare la stabilità necessaria per vivere: “Dall’autunno ci sono stati più di cento tentativi di suicidio ad Attawapiskat, su una popolazione di appena duemila persone. La persona più giovane che ha provato a togliersi la vita aveva undici anni, la più anziana 71”, scriveva il Guardian nel 2016. “Dopo che undici persone hanno cercato di uccidersi domenica sera, i leader della comunità, sfiniti, hanno dichiarato lo stato d’emergenza. ‘Chiediamo disperatamente aiuto’, ha dichiarato il capo di Attawapiskat, Bruce Shisheesh. ‘Praticamente ogni sera qualcuno tenta di uccidersi’”.

Se si volessero cercare le ragioni di questo terribile bilancio, bisognerebbe andare oltre l’ovvio (case sovraffollate e piene di muffa, tossicodipendenza, alcolismo e così via). La ragione principale è l’ eredità devastante del sistema delle scuole residenziali: “Per decenni più di 150mila bambini aborigeni sono stati portati via dalle loro case, per essere assimilati forzatamente nella società canadese”, riferiva ancora il Guardian. “In un clima di violenza continua, queste scuole miravano a ‘uccidere l’indiano che c’è nel bambino’, come documentato da una recente commissione d’inchiesta. Migliaia di bambini sono morti in queste scuole – la mancanza di alimentazione adeguata ha lasciato molti di loro denutriti ed esposti a malattie come vaiolo, morbillo e tubercolosi – con centinaia di studenti sepolti frettolosamente in tombe anonime, nelle vicinanze degli istituti. In circa un terzo dei casi, il governo e le scuole non hanno neppure registrato i nomi degli studenti morti”.

leila marzocchi

La vera storia delle scuole residenziali sta lentamente venendo a galla. Ci arrivano regolarmente notizie come questa, diffusa a giugno dalla Cbs: “Un gruppo indigeno canadese ha dichiarato che, da una ricerca effettuata con dei radar, sono emersi 182 resti umani in tombe anonime in una località vicina a un’ex scuola residenziale gestita da personale cattolico, che ospitava bambini indigeni sottratti alle loro famiglie”. E non va dimenticato il diffuso sfruttamento sessuale nelle scuole residenziali gestite dalla chiesa cattolica: in alcuni casi fino all’ottanta per cento dei bambini è stato vittima di abusi.

Aggiungendo al danno la beffa, è proprio l’istituzione che si pone come alfiere della morale a eseguire questi crimini, come è successo in Francia. “Il clero cattolico in Francia ha compiuto abusi sessuali su circa 216mila minori negli ultimi settant’anni, come rivelato da uno sconvolgente rapporto secondo cui la chiesa ha preferito proteggere se stessa invece delle vittime, a cui è stato intimato di rimanere in silenzio”, ha riferito la Cnn. L’aspetto veramente sconvolgente è che molti di questi crimini sono questioni di pedofilia omosessuale, e l’istituzione che ne è responsabile è la stessa che si presenta come portabandiera della morale con una campagna pubblica contro l’omosessualità. E la cosa triste è che non siamo di fronte a un ritorno alla normalità premoderna: è facile scoprire, nelle società premoderne, cose che alla nostra sensibilità moderna appaiono come violazioni dei diritti umani, dei diritti delle donne e dei bambini.

Ma anche se ammette tutto questo, una delle due parti della disputa tra storici sottolinea l’unicità dell’olocausto: il suo obiettivo non era solo la sottomissione degli ebrei ma la loro totale distruzione, ottenuta con metodi industriali moderni e ben pianificati. Gli ebrei non erano una razza inferiore in una gerarchia di razze, ma l’Altro assoluto, il principio stesso della corruzione. Non erano una minaccia esterna ma un intruso straniero nel cuore stesso della nostra civiltà.

Qui arriva il mio primo dubbio: anni fa il filosofo Étienne Balibar ha sostenuto che, nel mondo globale di oggi, la distinzione tra esterno e interno si fa sempre meno netta, ed è per questo che tutti i razzismi somigliano sempre di più all’antisemitismo. Cinquant’anni fa Huey Newton, fondatore e teorico del partito delle Pantere nere, capì chiaramente i limiti della resistenza locale all’impero globale del capitalismo. Fece anche un fondamentale passo avanti e rifiutò il termine “decolonizzazione”, giudicandolo inappropriato, non si può combattere il capitalismo partendo dalla prospettiva delle unità nazionali:

La crudele ironia della sorte è che la schiavitù è stata scoperta ovunque in tutte le sue accezioni metaforiche, ma ignorata quando esiste in senso letterale

Noi del partito delle Pantere nere abbiamo capito che gli Stati Uniti non sono più una nazione. Sono qualcos’altro. Più di una nazione. Non hanno allargato solo i loro confini territoriali, ma anche tutto il loro sistema di controllo. Li abbiamo definiti un impero. Noi crediamo che non ci siano più colonie o neocolonie. Se un popolo è colonizzato, deve potersi decolonizzare e tornare a essere quel che era in passato. Ma cosa succede quando le materie prime sono estratte e il lavoro è sfruttato in un territorio diffuso su tutto il globo? Cosa succede quando le risorse di tutto il mondo sono consumate e usate per alimentare una gigantesca macchina industriale nel paese degli imperialisti? A quel punto il popolo e l’economia sono così integrati all’imperialismo che diventa impossibile decolonizzare, tornare alle precedenti condizioni di vita. Se le colonie non possono decolonizzarsi e tornare alla loro esistenza originaria come nazioni, allora le nazioni non esistono più. Né, crediamo, potranno mai più esistere.

Queste parole non descrivono forse anche la nostra difficile condizione odierna, oltre che quella dell’epoca di Huey Newton? Anche le differenze tra una motivata critica allo stato d’Israele e l’antisemitismo sono molto ambigue e soggette a manipolazioni. Bernard Henri-Lévy ha affermato che l’antisemitismo del ventunesimo secolo o sarebbe stato “progressista” o non sarebbe esistito. Spingendola all’estremo, questa tesi ci obbliga a rovesciare la vecchia interpretazione marxista dell’antisemitismo come anti­capitalismo mistificato (invece di dare la colpa al sistema capitalistico, la rabbia si concentra su un gruppo etnico specifico, accusato di corrompere il sistema): per Henri-Lévy l’anticapitalismo odierno è una forma mascherata di antisemitismo. È difficile immaginare una forma più pericolosa d’incitamento all’antisemitismo tra chi critica il capitalismo.

Ma ciò a cui assistiamo oggi è uno strano rovesciamento delle critiche non antisemite a Israele: il sostegno antisemita a Israele. Alcuni antisemiti di destra sostengono lo stato d’Israele per tre evidenti motivi: se gli ebrei se ne vanno in Israele, saranno meno numerosi qui in occidente; in Israele gli ebrei non saranno più una comunità straniera senza patria di cui non possiamo fidarci completamente e diventeranno un normale stato nazione che affonda le radici nella sua terra; ultimo ma non meno importante, agiranno in quel paese come rappresentanti di valori occidentali molto sviluppati contro la barbarie orientale, svolgendo nei confronti della popolazione palestinese locale il ruolo dei colonizzatori. Per ottenere il sostegno degli stati occidentali gli stessi sionisti si presentano talvolta come colonizzatori. Lo storico Derek Penslar ha fatto notare che quando si parla di sionismo e Israele si accavallano varie, talvolta contraddittorie questioni ideologiche e politiche: “Il progetto sionista combina colonialismo, anticolonialismo e costruzione statale postcoloniale. Tutto il novecento riassunto in un piccolo stato”.

Theodor Herzl nel suo Lo stato ebraico (1896), il testo fondatore del sionismo, scrisse: “Per l’Europa costruiremo in Palestina una parte della muraglia contro l’Asia, forniremo un argine alla barbarie”. Il termine “colonizzazione” era usato anche dai primi sionisti. Sfortunatamente questa posizione riemerge in maniera inquietante in una serie di antisemiti, come Reinhard Heydrich, Anders Breivik o Donald Trump. Anche se Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele, alcuni dei suoi sostenitori sono apertamente antisemiti: è davvero una posizione incoerente? Cito spesso una caricatura pubblicata nel luglio 2008 dal quotidiano viennese Die Presse. Due tizi tarchiati con l’aria da nazisti siedono a un tavolo e uno di loro, tenendo in mano un giornale, dice all’altro: “Ancora una volta un antisemitismo del tutto giustificato è strumentalizzato per criticare ingiustamente Israele!”.

Questa caricatura rovescia l’argomentazione classica usata contro chi critica le politiche dello stato d’Israele. E quando i fondamentalisti cristiani odierni rifiutano le critiche da sinistra alle politiche d’Israele, la loro argomentazione implicita non è forse paradossalmente vicina a questo ragionamento? Anders Breivik, il pluriomicida norvegese nemico dell’immigrazione, era antisemita ma sosteneva Israele, perché ci vedeva la prima linea di difesa contro l’espansione musulmana. Nel suo manifesto aveva scritto: “Non esiste un problema ebraico in Europa occidentale (se si escludono Francia e Regno Unito) perché oggi gli ebrei in Europa occidentale sono solo un milione, e ottocentomila di questi sono in Francia e nel Regno Unito. Gli Stati Uniti, invece, con più di sei milioni di ebrei hanno un vero problema ebraico”. La figura di Breivik incarna quindi il paradosso assoluto dell’antisemita sionista, ma troviamo tracce di questa strana posizione più spesso di quanto ci si aspetterebbe. Lo stesso Heydrich, ideatore dell’olocausto, scriveva nel 1935: “Dobbiamo separare gli ebrei in due categorie: i sionisti e i sostenitori dell’assimilazione. I sionisti sostengono un’idea strettamente razziale e, attraverso l’emigrazione in Palestina, contribuiscono alla creazione di un loro stato ebraico. A loro vanno i nostri buoni auspici e la nostra gratitudine ufficiale”.

La chiara distinzione tra l’unicità degli ebrei e il colonialismo europeo si fa quindi complicata: gli stessi sionisti hanno flirtato con il colonialismo per ottenere sostegno in occidente, e la lotta anticoloniale si avvicina talvolta all’antisemitismo. È stato scritto molto sull’antisemitismo nei paesi arabi e tra i musulmani: anche se sostengo la resistenza palestinese in Cis­giordania, sono perfettamente consapevole del problema. Bisognerebbe anche fare attenzione quando si etichetta ogni invito a cacciare i musulmani da un paese come un caso d’islamofobia. Nel mio paese, in Slovenia, molte delle vecchie canzoni popolari parlano degli orrori provocati dalle invasioni turche, e cacciare i turchi dal paese mi pare un’impresa legittima.

Per tutti questi motivi penso che l’intero dibattito che oppone l’olocausto al colonialismo andrebbe rifiutato come qualcosa di profondamente osceno. L’olocausto è stato un crimine gigantesco, terrificante e unico. Il colonialismo ha provocato morti e sofferenze inimmaginabili. Il modo giusto di fare i conti con questi due orrori è confrontarli, vedere la lotta contro l’antisemitismo e il colonialismo come due aspetti di una sola lotta. Chi sminuisce il colonialismo, considerandolo un male minore, insulta le stesse vittime dell’olocausto, perché riduce un orrore senza precedenti a una pedina di scambio all’interno di calcoli geopolitici. Chi relativizza l’unicità dell’olocausto insulta anche le vittime della colonizzazione. L’olocausto non è un crimine tra tanti, ma è stato a suo modo unico. Allo stesso modo la colonizzazione moderna è stata un orrore unico e sconvolgente, perpetrato con l’idea di civilizzare gli altri. Sono tutt’e due mostruosità incomparabili, che non possono e non devono essere ridotte a semplici esempi. ◆ ff

Slavoj Žižek

è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Hegel e il cervello postumano (Ponte alle Grazie 2021). Il titolo originale di questo articolo è Both are worse!

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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati