Sono delusa da me stessa. Ho difficoltà a gestire lo stress. Mi sento triste e abbattuta. Quanto si riconosce in questo quadro? Per niente? Poco? Abbastanza? Molto? Moltissimo? Sul tablet appare una frase dopo l’altra e, a ogni risposta, ci si addentra sempre di più nella sfera emotiva dei pazienti. Alcuni sono qui in sala d’attesa ad armeggiare con i tablet: rispondono al questionario nella speranza di trovare sollievo per l’anima. In effetti in Germania questa villa color rosa antico nella città vecchia di Greif­swald è il posto migliore dove cercarlo. L’edificio ospita lo Psychotherapy lab, un laboratorio sperimentale per la salute mentale che è quasi un piccolo miracolo. E i pazienti in sala d’attesa ne fanno parte.

Non appena le digitano sul tablet, infatti, le loro risposte vanno a finire in una banca dati che raccoglie circa duecento percorsi terapeutici. Il computer mette a confronto, ovviamente in forma anonima, i progressi fatti da ogni paziente con quelli degli altri trenta che più gli somigliano. È lo stesso principio con cui si fanno le previsioni del tempo. Quando un meteorologo vuole conoscere il rischio di pioggia per il giorno successivo guarda al passato: quant’è stata frequente la pioggia in condizioni meteo simili? Gli psicologi di Greifswald cercano di prevedere che tempo farà nella mente dei pazienti e, per scoprirlo, analizzano stati d’animo simili: quanto ci vuole perché l’umore si rischiari e perché nella quotidianità comincino a spirare venti di cambiamento? Se poi qualcuno fa progressi nettamente inferiori al previsto, il computer manda un allarme. Allora i terapeuti si chiedono a cosa sia dovuta la discrepanza e come fare a invertire la rotta. Il programma si chiama Psychotherapie-Navigator, navigatore psicoterapeutico, ed è un piccolo miracolo: di solito, infatti, non ci si dedica in modo così attento e sistematico a come procede la psicoterapia dei pazienti. Ogni terapeuta fa come meglio crede e spesso fa bene, ma altrettanto spesso le terapie non funzionano come dovrebbero o non tanto rapidamente quanto potrebbero.

Per questo probabilmente chi ha a che fare con la depressione conosce bene la delusione. Troppo spesso la malattia non risulta davvero gestibile con la psicoterapia e gli antidepressivi. Psicoterapeuti e psichiatri si chiedono insistentemente a cosa sia dovuta questa difficoltà e come cambiare le cose. Perciò cercano di individuare con maggior precisione scientifica il metodo più adatto a ciascun paziente. E stanno facendo una cosa finora impensabile: mettere insieme il meglio di metodi diversi, assemblando una specie di cassetta degli attrezzi per la cura dello spirito, che infonde nuove speranze a pazienti e terapeuti.

Nella villa di Greifswald questa speranza ha il volto della direttrice del laboratorio di psicoterapia. Con il suo sguardo aperto e i modi decisi, la psicologa cognitivo-comportamentale Eva-Lotta Brakemeier non sembra una che si scoraggia facilmente. Eppure, all’inizio della carriera le capitavano situazioni in cui non sapeva come regolarsi. Per esempio quando ancora faceva il tirocinio in ospedale, aveva in cura una paziente che veniva regolarmente dimessa, ma dopo poco tornava. “Avevo la sensazione di lavorare solo sui sintomi”, racconta Brakemeier. Il suo supervisore le diceva che le cose vanno così e che in fondo quella donna non si era suicidata.

Nel frattempo Brakemeier è diventata professoressa di psicologia ed è una delle massime esperte tedesche per la cura della depressione. E anche quella sua lontana esperienza, in un certo senso, ha fatto parecchia strada: è stato infatti dimostrato che la psicoterapia funziona – la più studiata è la terapia comportamentale – ma che i suoi effetti sono mediamente inferiori a quello che si pensava quando si è cominciato a studiarla. “Dobbiamo semplicemente migliorare”, osserva Brakemeier. Per questo con i suoi collaboratori di Greifswald sviluppa nuovi metodi terapeutici e li sottopone a validazione scientifica. Va tenuta presente una cosa, osserva la terapeuta: “Nessuno corrisponde davvero al paziente medio delle ricerche scientifiche. Ognuno reagisce a modo suo alla psicoterapia, ed è proprio questo aspetto che va sfruttato meglio”.

Varie strade

Cos’è esattamente la depressione e come la si distingue da un’alterazione malinconica dell’umore? Secondo Brakemeier, quando per settimane di fila le cose che ti piacevano perdono attrattiva e i rapporti che ti facevano bene ti sembrano faticosi, potresti essere depresso. Nel caso di Grit Rossbach (nome di fantasia) le cose stavano proprio così, da anni. Quando è arrivata al laboratorio di Greifswald, questa giovane donna aveva già tentato varie strade: due percorsi di psicoterapia e due soggiorni in un centro diurno, il tutto accompagnato da antidepressivi. Ma la depressione, racconta Rossbach, continuava a ripresentarsi: “La mia vita era fatta di alti e bassi”.

Per parlare con noi è tornata nel posto in cui dopo molti tentativi ha finalmente trovato l’aiuto di cui aveva bisogno. Non metteva più piede qui da due anni. Pareti bianche, due poltrone, un orologio: le sedute di psicoterapia si svolgono in un ambiente piuttosto spoglio, senza elementi che possano distrarre. Immaginare Ross­bach seduta qui nei panni di una paziente disperata risulta difficile: a 36 anni sembra una donna solida e consapevole. È soddisfatta del suo lavoro in una startup, ha due figlie che stanno crescendo bene e, osserva, ancora si meraviglia di se stessa: “Nella mia testa si è sbloccato qualcosa”.

Quando la depressione l’ha colpita per la prima volta, Rossbach si era appena iscritta a giurisprudenza, una facoltà impegnativa e stressante. Ancora ricorda come l’oscurità si è insinuata nella sua vita: seduta sul pavimento della sua stanza mentre le tenebre si facevano strada nel mondo fuori dalla finestra, non riusciva a trovare la forza di alzarsi e accendere la luce. Lo racconta come se ormai lei stessa non ci potesse più credere. Tutto le sembrava cupo e senza gioia. Aveva molti amici, ma si sentiva sola, come tagliata fuori: “Nella mia testa mi sentivo enormemente distante”.

Rossbach ha fatto come tante persone depresse: ha cominciato una terapia, ha preso dei farmaci e si è ripresa. Ma la depressione è tornata. Una volta quando ha cercato di dedicarsi contemporaneamente al tirocinio e allo studio della criminologia; un’altra quando la sua seconda figlia di pochi mesi non smetteva mai di piangere e il suo matrimonio era andato in crisi.

Rossbach è arrivata a Greifswald dodici anni dopo essersi ritrovata senza più forze sul pavimento della sua stanza: “Volevo solo che qualcuno girasse l’interruttore”. Il terapeuta che l’aveva presa in cura se la ricorda ancora. Gli era apparsa impietosa: aveva le idee chiarissime sulla sua situazione e i suoi obiettivi, e sul fatto che voleva raggiungerli in fretta. Lui si era quasi spaventato: gli sembrava di dover garantire un risultato, una performance.

In ogni caso, terapeuta e paziente si sono presi il tempo d’immergersi nel passato di Rossbach, di chiedersi come l’avessero influenzata le sue prime relazioni, quelle tra padre, madre e figlia. “Da un lato,” spiega lei, “la mia è stata un’infanzia perfetta, tutelata e senza drammi. Dall’altro però c’erano tante aspettative inespresse e io avevo la sensazione che mi apprezzassero solo sulla base dei miei risultati”.

Tutta quest’attenzione rivolta al periodo infantile è un elemento classico della terapia psicodinamica, che affonda le sue radici nella psicoanalisi. Rispetto a questo metodo, però, il terapeuta di Rossbach ha fatto un passo in più, tentando una correzione molto mirata dell’imprinting negativo (il condizionamento subìto nei primi anni di vita), che invece è tipico della terapia comportamentale. Per decenni gli esponenti di queste due grandi scuole terapeutiche classiche si sono combattuti trincerandosi dietro i propri pregiudizi: non pochi psicologi del profondo erano convinti che la terapia comportamentale si limitasse a grattare un po’ la superficie, cercando semplicemente di fare in modo che i pazienti funzionassero bene; i comportamentalisti ritenevano che la psicodinamica non facesse altro che scavare per anni nell’infanzia senza mai aiutare i pazienti ad affrontare i problemi del momento. Unire il meglio dei due mondi per il bene dei malati è stato a lungo impensabile. E allora il fatto che oggi, a Greifswald come altrove, questi due metodi siano combinati è più di un ulteriore piccolo miracolo. È una vera e propria rivoluzione.

Il metodo moderno, che combina tecniche psicodinamiche e cognitivo-comportamentali, si chiama Cbasp, che sta per cognitive behavioral analysis system of psychotherapy (sistema di analisi cognitivo-comportamentale di psicoterapia). Lo ha sviluppato lo psicologo statunitense James McCullough, che l’ha pensato proprio per quei pazienti – circa un terzo del totale – che dalla depressione non riescono a uscire.

Brakemeier è stata tra le prime a portare la Cbasp in Germania. Nel corso della sua carriera ha avuto in cura più di seicento pazienti. “E più mi occupo di questa malattia più mi appare complessa, perché la depressione non è mai uguale a se stessa”, spiega. In tutti questi anni ha capito anche un’altra cosa: “La depressione deriva quasi sempre da problemi interpersonali”, cioè dalle difficoltà che nascono tra le persone: tra padri, madri e figli, ma anche tra capi, colleghi e dipendenti. Anche l’affaticamento eccessivo o il mancato riconoscimento sul lavoro possono provocare la depressione, così come un cambiamento esistenziale, per esempio l’inizio della pensione. “Ma alla fine anche in questi casi spesso il punto fondamentale sono i conflitti, aperti o velati, tra le persone”, dice Brakemeier, che nei casi più acuti non punta sulla Cbasp, ma sulla psicoterapia interpersonale, un altro metodo moderno che cerca di risolvere i conflitti interpersonali nel qui e ora.

Gli antidepressivi non andrebbero presi più a lungo del dovuto. Ma psichiatri e medici di famiglia non ne parlano abbastanza ai loro pazienti

Uno strano comportamento

È successo anche che Brakemeier invitasse a una seduta il datore di lavoro, con l’assenso del paziente andato in depressione a causa dell’eccessivo carico in ufficio. Ogni volta che gli veniva affidato un compito aggiuntivo, invece di rifiutare si dava malato, mandando il capo su tutte le furie. Ma quello stesso capo, appena si è accomodato in poltrona e ha capito perché il dipendente aveva questo strano comportamento, si è messo a piangere. Ce l’aveva anche sua moglie, ha detto. Brakemeier non si è certo stupita: a una donna su quattro e a un uomo su otto capita di soffrire di depressione almeno una volta nella vita. Solo che molti preferiscono non parlarne. “È proprio il caso di dire che i pazienti si barricano in se stessi e che a noi tocca tirarli fuori da dietro quel muro”. A volte anche i terapeuti devono mettersi in gioco un po’ più di quanto non facciano quando si limitano a seguire i metodi tradizionali.

Brakemeier, per esempio, ha rivelato di essere divorziata quando una paziente che soffriva per una separazione metteva in dubbio la sua capacità di immedesimazione. O di raccontare di aver avuto crisi esistenziali. Appena ventenne ha avuto anche lei un episodio depressivo, quando si era infranto il suo sogno di diventare una musicista professionista: non riusciva più a suonare il flauto traverso perché un dito aveva smesso di muoversi come avrebbe dovuto.

La Cbasp e la psicoterapia interpersonale sono i due più importanti nuovi metodi contro la depressione, ma ce ne sono anche molti altri: “Oggi conosciamo molte strade per superare questo disturbo”, racconta Brakemeier. “Dobbiamo capire quali possono essere utili al singolo paziente. E questo in base alle evidenze scientifiche”. In una prima fase il metodo Cbasp ha funzionato con Rossbach, ma poi ha cominciato a perdere efficacia. All’epoca non c’era ancora il programma Navigator, in cui oggi sono inseriti i pazienti di Greifswald: con tutta probabilità avrebbe individuato un grande fronte nuvoloso nel clima interno della paziente. Ma, anche senza computer e banche dati, il terapeuta si è reso conto di una cosa: Rossbach non riusciva a rendersi conto dei suoi sentimenti; quando le chiedeva delle sue emozioni, o non le veniva in mente niente oppure tendeva comunque a passare oltre. Per lavorare su questo tipo di problema il metodo Cbasp sembrava troppo cerebrale. E allora il terapeuta ha cambiato rotta completamente, combinando la Cbasp con una tecnica immaginativa: ha chiesto a Rossbach di immaginare se stessa bambina e di rivolgersi, lei adulta, a questa bambina per cercare di consolarla. Questo procedimento dall’aria vagamente esoterica è effettivamente riuscito a mettere in moto qualcosa: Ross­bach racconta di aver smesso di essere troppo severa con se stessa, anche se c’è voluto del tempo: “L’interruttore non si può girare così di botto”.

Oltre alla psicoterapia, spiega Ross­bach, le è stato molto utile anche un antidepressivo, specialmente nei momenti di crisi. Lo prende ancora oggi. “Aumentando il dosaggio fa subito effetto”. La sensazione di vuoto scompare e lei torna a provare emozioni. Effetti collaterali non ne ha mai avuti. Ogni sei mesi va dallo psichiatra a ritirare la ricetta.

Rossbach è fortunata: a quanto pare è una di quelle persone che reagiscono molto bene agli antidepressivi. Da un ampio studio svolto nell’estate del 2022 è emerso che le reazioni positive si riscontrano in un quarto di tutti i pazienti, contro un decimo degli appartenenti al gruppo placebo. Ma tra gli studiosi circola una certa disillusione anche rispetto agli antidepressivi: più va avanti la ricerca scientifica meno efficaci appaiono questi farmaci, proprio come succede alle psicoterapie. Tra l’altro, i farmaci sono gli stessi da decenni, praticamente non ne escono di nuovi. Il livello d’efficacia degli antidepressivi dipende molto dalle aspettative e dalle paure dei pazienti, che possono aumentare o diminuire l’efficacia delle pillole e perfino rendere più acuti gli effetti collaterali.

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Anni di vita persi nel mondo
Daly (anni vissuti con disabilità) a causa di ansia e depressione, per genere ed età, milioni (fonte: the lancet)

A 230 chilometri da Greifswald, Yvonne Nestoriuc, professoressa di psicologia all’università Helmut-Schmidt di Amburgo, studia proprio questo: è un’esperta di effetto placebo e di effetto nocebo, il suo contrario. Negli studi condotti correttamente dal punto di vista scientifico, l’efficacia degli antidepressivi non si colloca molto al di sopra dell’effetto placebo, almeno non quanto si pensava un tempo. “Ma le conseguenze che possiamo trarne, più che i farmaci riguardano la malattia”, osserva Nestoriuc. “I sintomi depressivi oscillano parecchio e quindi, studiandoli, non è facilissimo coglierne con precisione l’andamento”. E poi succede spesso che nel giro di qualche mese gli episodi depressivi spariscano da soli, tanto che nella pratica è difficile stabilire se a provocare il miglioramento sia stato proprio il farmaco. Ma su una cosa i ricercatori sono tutti d’accordo: anche se la depressione può attenuarsi senza trattamenti, fare una terapia è importante per accorciare il periodo di sofferenza e prevenire le ricadute. Più è grave la depressione più risultano efficaci gli antidepressivi. Se inizialmente i pazienti non rispondono a un farmaco, se ne possono provare altri, anche combinandoli tra loro.

In ogni caso gli antidepressivi, potendo avere effetti collaterali, non andrebbero presi più a lungo del dovuto. Ma psichiatri e medici di famiglia non parlano abbastanza ai loro pazienti della sospensione dei farmaci, osserva Nestoriuc che al momento alla clinica universitaria di Amburgo-Eppendorf sta cercando proprio di capire quale sia il modo migliore per accompagnare i pazienti nella sospensione. Dai suoi studi è emerso anche che in media gli antidepressivi vengono assunti per otto anni, un periodo che, secondo la ricercatrice, è più lungo di quello che nella maggior parte dei casi sarebbe necessario. “Chi è al primo episodio depressivo può pianificare la sospensione insieme al suo medico già dopo sei, nove mesi”. E perfino chi è già caduto in depressione più volte, dopo due anni dovrebbe almeno cominciare a discuterne con il suo medico. Quello che non andrebbe fatto in nessun caso è interrompere l’assunzione dei farmaci senza consultarsi con il medico, perché una piccola percentuale di pazienti potrebbe avere una reazione che somiglia a una ricaduta nella depressione. Il medico invece può aiutare il paziente a ridurre progressivamente i farmaci. Questo tipo di farmaci non dà dipendenza.

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I sintomi più diffusi
Frequenza dei sintomi della depressione nella popolazione degli Stati Uniti, 2013-2014, nelle due settimane precedenti al sondaggio (fonte: Nhanes/Tomitaka et al. (2018))

Secondo Nestoriuc, gli antidepressivi non andrebbero demonizzati, “ma non sono neanche miracolosi. Non spingono il paziente a fare le scelte giuste”. Questo può farlo solo la psicoterapia. Ormai sappiamo che è la psicoterapia, e non i farmaci, a prevenire al meglio le ricadute.

Inibitore selettivo

Anche Rossbach ha difficoltà a smettere con gli antidepressivi. Prende il Citalopram, uno dei farmaci più prescritti per la depressione. È un cosiddetto inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, un Ssri, che favorisce un aumento della concentrazione di serotonina nelle cellule cerebrali. Rossbach ha provato a sospenderlo più volte. “Poi, però, tornano i pensieri bui.” E allora, dice, si è rassegnata a continuare. Ma il suo non pare un tono rassegnato: ha avuto problemi peggiori. Che gli antidepressivi, primi tra tutti gli Ssri, negli ultimi decenni siano stati prescritti sempre più spesso e molte volte per periodi troppo lunghi si deve a una convinzione dalla semplicità seducente: le persone depresse soffrirebbero di una carenza di neurotrasmettitori, come la serotonina appunto. Per molto tempo si è pensato che ovviando a questo squilibrio chimico con i farmaci la depressione sarebbe svanita. Ma ormai è chiaro che quest’idea, la cosiddetta ipotesi della serotonina, è fondamentalmente sbagliata.

Lo ha evidenziato chiaramente un anestetico poi usato anche come droga ricreativa, la chetamina, capace di dare rapidamente sollievo a molti pazienti depressi che non rispondono ad altri farmaci. Oggi molte persone sono autorizzate ad assumerla, ma solo sotto controllo medico. La chetamina non ha niente a che vedere con la serotonina o con altri neurotrasmettitori simili. I suoi effetti si devono a un altro tipo di meccanismo. Ma cosa succede a livello cerebrale? A quanto pare, sostengono i ricercatori, questa sostanza migliora la trasmissione delle informazioni tra cellule cerebrali, stabilendo perfino nuovi collegamenti, nuove sinapsi. In modo indiretto gli antidepressivi tradizionali fanno la stessa cosa. È un fenomeno che gli addetti ai lavori chiamano “plasticità” e che è d’importanza fondamentale per i processi di apprendimento. Sorge allora una nuova ipotesi: le depressioni potrebbero scatenarsi al diminuire della plasticità, mentre aumentandola, si assisterebbe a un attenuarsi della malattia. Molto gioca a favore di quest’ipotesi, visto che lo stress contribuisce alla diminuzione della plasticità e deriva a sua volta da carichi eccessivi, cronici o acuti, e da traumi passati, due fattori scatenanti della depressione. Chi perde la capacità di imparare cose nuove tende più degli altri a rimuginare, a chiudersi in se stesso. E a soffrirne sono i collegamenti cerebrali e i legami sociali.

Questo, però, mette fine anche a una vecchia polemica: ci si chiedeva quale fosse la strada migliore per guarire, farmaci o psicoterapia? Per imparare nuovi schemi servono, però, sia plasticità cerebrale sia nuove esperienze di vita. E infatti gli studi scientifici confermano che la combinazione di antidepressivi e psicoterapia funziona meglio di ognuno di questi trattamenti preso singolarmente. Normalmente, però, i professionisti dei due ambiti non collaborano abbastanza. Tra medici che prescrivono farmaci e psicoterapeuti che conducono colloqui non c’è intesa, proprio com’è successo a lungo tra le diverse scuole di psicoterapia.

Brakemeier si sforza di superare – almeno un po’ – anche questa divisione. Nello Psychotherapy lab c’è uno scambio tra terapeuti e medici. “Dovremmo tutti riconoscere che sia gli psichiatri sia gli psicoterapeuti fanno un buon lavoro”, dice. “E che la rivalità tra le due categorie non è nell’interesse dei pazienti”. Da terapista per lei l’esperienza più bella consiste nel vedere un paziente sentirsi più leggero. E nella testa di Rossbach cos’è che si è sbloccato? “Sono diventata più morbida con me stessa e con gli altri”, racconta. “Ho capito che il risultato non è l’unica cosa che conta e che nei rapporti sociali non sono poi così male”. Che oggi stia bene lo deve fondamentalmente alla psicoterapia, ma ci sono stati anche altri fattori: l’offerta di lavoro giusta al momento giusto, le figlie che crescevano, la seconda che ha smesso di strillare. Nella vita ci saranno sicuramente altri periodi bassi, Rossbach ne è certa. L’ultimo è stato durante la pandemia di covid-19. Un momento difficile, in cui però se l’è cavata da sola.◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati