I paesi, come gli esseri umani, possono essere vecchi e giovani allo stesso tempo. Più di 1.900 anni fa, Tacito scrisse un libro su un popolo affascinante chiamato germani. Nel suo trattato Germania, scritto nel 1496, Enea Silvio Piccolomini, meglio noto come papa Pio II, elogiava le città tedesche, “le più pulite e le più piacevoli da guardare” di tutta Europa. Eppure, lo stato che oggi conosciamo come Germania ha festeggiato il 23 maggio solo il suo 75° anniversario. E la sua attuale conformazione territoriale risale a meno di 34 anni fa, con l’unificazione della Repubblica federale tedesca (Germania Ovest) e la Repubblica democratica tedesca (Germania Est), avvenuta il 3 ottobre 1990 dopo la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989.

L’era post-muro però è finita e tutti, compresi i tedeschi, si stanno chiedendo cosa sarà la Germania nel futuro. Non solo cosa farà, ma cosa sarà. Nel suo eccellente Germany: a nation in its time (Germania: una nazione nel suo tempo), lo storico tedesco-statunitense Helmut Walser Smith ci ricorda quante Germanie diverse ci sono state nei cinque secoli da quando Germania di Piccolomini fu stampato per la prima volta. Sono cambiati più volte non solo i confini e i regimi politici, ma anche i tratti fondamentali associati alla nazione tedesca.

Lo stato che oggi conosciamo come Germania ha festeggiato il 23 maggio solo il suo 75° anniversario. E la sua attuale conformazione territoriale risale a meno di 34 anni fa

A volte ha dominato l’aspetto culturale: la terra di Dichter und Denker (poeti e pensatori); la patrie de la pensée (patria del pensiero) descritta da madame de Staël in De l’Allemagne (1813); la Germania che secondo George Eliot “ha combattuto più duramente per la libertà di pensiero, ha prodotto le più grandi invenzioni, ha dato magnifici contributi alla scienza, ci ha regalato buona parte della poesia più divina e forse la musica più divina del mondo”.

Molto spesso la nazione tedesca è stata identificata con lo sviluppo e le capacità economiche. Questo punto è stato sostenuto con vigore dallo storico e professore di Princeton Harold James in un saggio intitolato A german identity (Un’identità tedesca), pubblicato l’anno della caduta del muro. James scriveva profeticamente che Clio, la musa della storia, “dovrebbe avvertirci di non fidarci troppo di Mercurio, il dio del commercio e del guadagno”.

La Germania post-muro si è affidata completamente a Mercurio. Quando la Germania Ovest, con il cancelliere Helmut Kohl, ha raggiunto inaspettatamente l’obiettivo dell’unificazione alle condizioni occidentali, la capitale è stata spostata dalla cittadina di Bonn a Berlino, prima divisa, e si è consolidata come una potenza. Nello spirito di quegli anni, ha prevalso la dimensione economica del potere.

Lo storico James Sheehan l’ha descritto come il Primat der Wirtschafts­politik (il primato della politica economica), ma è stato anche, più specificamente, il Primat der Wirtschaft (il primato degli affari). A questo ha contribuito l’influenza diretta delle aziende tedesche sui governi, favorita dal sistema di cooperazione nelle relazioni industriali noto come Mitbestimmung. Se non erano i capi delle grandi aziende automobilistiche o chimiche a telefonare alla cancelleria, erano i leader dei sindacati: tutti spingevano per qualche accordo commerciale vantaggioso (poi, magari, i capi e i leader sindacali litigavano tra di loro su come spartirsi la torta).

Nel 2021 il 47 per cento del pil del paese arrivava dall’esportazione di beni e servizi. La crescita più spettacolare si è registrata negli scambi commerciali con la Cina, da cui la Germania è diventata più dipendente di qualsiasi altro paese europeo. Anche se si definisce una potenza civile, Berlino ha venduto moltissime armi. Tra il 2019 e il 2023 la quota tedesca delle esportazioni globali di armi era pari al 5,6 per cento, più del Regno Unito (ma meno della Francia). Marte al servizio di Mercurio.

Con l’allargamento a est dell’Unione europea e della Nato, la Germania ha smesso di essere esposta alle insicurezze tipiche di uno stato di frontiera. Come ha detto Richard von Weizsäcker, ex presidente della Germania Ovest, il paese si è liberato della sua storica e fatale posizione intermedia tra oriente e occidente. Conseguentemente la spesa nazionale per la difesa si è ridotta fino a un minimo dell’1,1 per cento del pil nel 2005.

Nelle aspre polemiche tra Europa settentrionale e meridionale scoppiate nel 2010, durante la fase più acuta della crisi dell’eurozona, i tedeschi tendevano ad attribuire il loro successo economico alle loro capacità, al loro impegno sul lavoro e alla loro virtù. In fondo, dicevano, non avevano accumulato debiti come quegli irresponsabili dell’Europa del sud. Effettivamente l’industria tedesca vanta eccellenze straordinarie, come sanno tutti quelli che guidano una Bmw, fanno il bucato con una lavatrice Miele o preparano la cena con un forno Bosch.

A questo si è aggiunta l’opera del governo di Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni duemila, a fronte degli altissimi costi dell’unificazione, ha concordato con imprese e sindacati una serie di riforme che hanno mantenuto basso il costo del lavoro, mentre in tutta l’Europa meridionale i salari crescevano.

Questo successo economico, tuttavia, è stato anche il frutto di una serie di circostanze esterne favorevoli e irripetibili. La moneta unica europea, che molti tedeschi hanno vissuto come un doloroso sacrificio del loro amato marco, ha portato notevoli vantaggi economici a Berlino perché le aziende tedesche hanno potuto esportare nel resto dell’eurozona senza il rischio di fluttuazioni valutarie e a un tasso di cambio più favorevole di quello del fortissimo marco. Allo stesso tempo, l’allargamento a est dell’Unione ha permesso a queste imprese di delocalizzare gli impianti di produzione in paesi con manodopera qualificata e a buon mercato come la Polonia, l’Ungheria e la Slovacchia, continuando a esportare in tutto il mercato europeo. In un certo senso era la realizzazione del sogno del politico imperialista liberale Frie­drich Neumann, che nel 1915 aveva immaginato l’Europa centrale come un’area economica comune a guida tedesca, ma con mezzi completamente pacifici.

Ancora più importanti sono state le condizioni al di fuori dell’Europa. Dopo il 1989, ha scritto Constanze Stelzenmüller, analista tedesca che vive a Washing­ton, la Germania ha affidato in subappalto le sue necessità di sicurezza agli Stati Uniti, i suoi fabbisogni energetici alla Russia e le sue esigenze di crescita economica alla Cina.

I paesi cambiano, ma esprimono profondi elementi di continuità. I francesi aspirano all’universalismo; i britannici si aggrappano saldamente all’empirismo; i tedeschi erano bravi a costruire le cose già nel quattrocento – la macchina da stampa a caratteri mobili di Johannes Gutenberg, per esempio – e lo sono ancora oggi. Un altro di questi elementi è ciò che il sociologo britannico-tedesco Ralf Dahrendorf ha descritto come desiderio di sintesi.

Con il crescere delle dipendenze esterne, tuttavia, la sintesi è diventata un imperativo politico. Ogni cosa doveva essere non solo collegata, ma anche compatibile con l’altra. Gli interessi tedeschi dovevano essere anche gli interessi europei. Fuori dall’Europa, la Germania doveva poter essere amica degli Stati Uniti ma anche, contemporaneamente, della Russia e della Cina. Il modello d’impresa basato sulle esportazioni doveva essere in armonia con il modello politico basato sui valori. I tedeschi potevano stare bene senza rinunciare a comportarsi bene.

Nel caso della Germania, comportarsi bene ha un significato specifico: imparare la lezione del passato nazista e stare sempre dalla parte della pace, dei diritti umani, del dialogo, della democrazia, del diritto internazionale e di tutte le altre belle cose che associamo all’ideale dell’ordine liberale internazionale. Questa aspirazione alla sintesi è stata contestualizzata in una visione più ampia – prevalente in buona parte dell’occidente negli anni successivi alla caduta del muro, ma da nessun’altra parte come in Germania – di dove stesse andando la storia. La “fine della storia” era un’idea statunitense, ma erano i tedeschi a vivere il sogno neohegeliano.

La storia, dunque, stava andando nella nostra direzione. La Germania, l’Europa e l’occidente in generale avevano un modello su cui anche gli altri, prima o poi, sarebbero dovuti convergere. La globalizzazione avrebbe facilitato la democratizzazione. Certo, la Russia e la Cina non sembravano esattamente delle democrazie liberali ma, modernizzandosi, sarebbero migliorate. Gli investimenti e gli scambi commerciali con l’occidente le avrebbero aiutate a imboccare il sentiero preordinato della storia, mentre l’interdipendenza economica avrebbe consolidato una kantiana pace perpetua.

Dunque il paese in cui è crollato il muro di Berlino è quello che ha goduto dei più grandi successi, ma è anche quello che ha coltivato le più grandi illusioni.Negli ultimi sedici anni questo modello è crollato due volte: prima gradualmente, poi all’improvviso. La fase graduale ha coinciso con una crisi generale dell’ordine europeo, cominciata nel 2008 con due eventi quasi simultanei: la crisi finanziaria globale e la conquista militare da parte di Vladimir Putin di due ampie regioni della Georgia. Quella improvvisa è arrivata il 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina.

Per quasi tutto il primo periodo – per la precisione tra il novembre 2005 e il dicembre 2021 – la Germania è stata guidata da una delle figure più significative della storia tedesca moderna: Angela Merkel, ex ricercatrice di chimica della Germania Est. Per molti tedeschi è stato un periodo molto positivo. Eppure gran parte dei problemi che il paese affronta oggi si sono accumulati negli anni dei governi Merkel.

Il primato degli affari ha fatto sì che non ci fosse un primato vero e proprio della politica economica, poiché l’effetto è stato quello di privilegiare gli interessi delle aziende tedesche esistenti – soprattutto nel settore automobilistico e chimico – rispetto a quelle del futuro. Di conseguenza la Germania (come il resto dell’Europa) è rimasta molto indietro rispetto alla Cina e agli Stati Uniti nell’intelligenza artificiale e in altre tecnologie innovative, e soffre la concorrenza delle auto elettriche cinesi, che sono più economiche e forse anche migliori delle sue.

Due manifestazioni estreme di conservatorismo fiscale – il “freno al debito” inscritto nella costituzione nel 2009 e il cosiddetto “zero nero”, l’insistenza prolungata del ministero delle finanze a non fare deficit di bilancio – hanno lasciato le finanze pubbliche in ottima salute, ma hanno anche gravato il paese di un cronico sottoinvestimento nelle infrastrutture.

La scelta di rinunciare completamente all’energia nucleare civile dopo la catastrofe della centrale di Fukushima in Giappone nel 2011 ha reso ancora più difficile la transizione all’energia verde – invocata urgentemente per contrastare la crisi climatica – e l’affrancamento dai carburanti fossili russi. La decisione di Merkel di accogliere un milione di rifugiati dalla Siria e dal Medio Oriente nel 2015-2016 è stata ammirevole: molti nuovi arrivati si sono integrati perfettamente, contribuendo a mitigare la mancanza di manodopera qualificata. Ma la paura di un’immigrazione irregolare “incontrollata” da paesi lontani, spesso a maggioranza musulmana, e di una trasformazione culturale troppo rapida ha dato un forte impulso ai nazionalisti di estrema destra di Alternative für
Deutschland (Afd).

Sorprendentemente, oggi l’Afd è davanti ai socialdemocratici di Olaf Scholz nei sondaggi per le elezioni europee del prossimo giugno. Cresce anche un nuovo gruppo “conservatore di sinistra” guidato dalla tedesca dell’est Sahra Wagenknecht, che mescola abilmente una retorica socioeconomica di sinistra, un approccio conservatore all’immigrazione e un’opposizione filorussa al sostegno militare all’Ucraina. La frattura psicologica tra est e ovest non solo non si è ricomposta ma si è allargata. Molti tedeschi dell’est si sentono trattati come cittadini di seconda classe.

Cambiare attraverso il consenso è storicamente una delle chiavi del successo della Germania, sia in politica sia nelle relazioni industriali. Ma la frammentazione del quadro politico in sette o otto partiti, avvertita anche a livello federale nel Bundesrat (la camera alta, che rappresenta i land), e gli interventi della potente corte costituzionale federale hanno reso più complicato arrivare al consenso e al cambiamento.

Davide Bonazzi

Nel frattempo molti paesi che avrebbero dovuto convergere serenamente verso l’ideale liberaldemocratico sono andati nella direzione opposta. Dal 2010 il primo ministro ungherese Viktor Orbán sta demolendo la democrazia in uno stato dove l’industria automobilistica tedesca ha fortissimi interessi. In Cina la svolta è stata ancora più netta, dalle grandi speranze di una progressiva liberalizzazione che avevano accompagnato le Olimpiadi di Pechino del 2008 al duro autoritarismo di Xi Jinping di oggi.

Nonostante ciò, le imprese tedesche hanno continuato a fare grandi investimenti in quei posti, chiudendo spesso gli occhi di fronte ai conflitti con i valori dichiarati del loro paese. Incoraggiata dal regime cinese, la Volkswagen, che dipende dalla Cina per il 40 per cento delle sue vendite, nel 2013 ha aperto una fabbrica nello Xinjiang. Intanto Pechino ha introdotto nella regione una serie di misure che possono essere definite genocidarie, con l’internamento di centinaia di migliaia di uiguri in “campi di rieducazione”. Nel 2019, a una domanda di un giornalista della Bbc, l’allora capo della Volkswagen Herbert Diess ha risposto: “Non ne sono a conoscenza”. Più di recente, quando ho fatto notare al capo di un’altra grande casa automobilistica tedesca che l’Ungheria, stato in cui la sua azienda aveva annunciato un altro colossale investimento, non era più una democrazia, lui ha spazzato via l’obiezione con un gesto della mano: “Possiamo usare termini diversi”, sono le sue parole che ho annotato sul mio taccuino.

L’errore di valutazione più drammatico è stato fatto sulla Russia. Merkel, che parla bene il russo e che da cancelliera teneva appeso nel suo studio un ritratto di Caterina la Grande – imperatrice russa di origine tedesca – è stata di gran lunga la figura politica europea più influente per quanto concerne i rapporti con Vladimir Putin. Probabilmente, il protocollo di Minsk II, che Berlino ha contribuito a scrivere, insieme a Parigi, nel febbraio 2015, dopo l’annessione della Crimea da parte di Putin e l’inizio della guerra russo-ucraina del 2014, era il massimo che si potesse fare per stabilizzare la situazione. Ma l’incapacità tedesca di cambiare successivamente rotta e di rivalutare in termini realistici la minaccia rappresentata da Mosca è indifendibile. La prova più evidente è che la Germania, anziché ridurre la sua dipendenza energetica da Mosca, l’ha aumentata: nel 2020 ben il 55 per cento del gas, il 34 per cento del petrolio e il 57 per cento del carbon fossile tedesco venivano dalla Russia.

Per completare il terzetto delle grandi dipendenze extraeuropee, la Germania si è affidata sempre di più agli Stati Uniti per la sua sicurezza. La sfida lanciata da Donald Trump ai partner europei della Nato durante la sua presidenza ha prodotto un lento e riluttante aumento della spesa tedesca per la difesa. In un discorso a Monaco nel 2017 Merkel ha ammesso che “i tempi in cui potevamo contare completamente sugli altri sono finiti”. Non c’è stato, però, un cambio sostanziale di politica.

Tutto questo è successo con Merkel al governo. Ma per dodici anni sui sedici in cui è stato al potere, il suo partito – l’Unione cristianodemocratica – è stato alleato dei socialdemocratici in una cosiddetta grande coalizione. I peggiori errori sono in gran parte imputabili ai socialdemocratici, soprattutto il gasdotto Nord Stream 2 per collegare la Russia e la Germania, deciso e costruito dopo l’inizio della guerra russo-ucraina del 2014. Senza contare che per tutto l’ultimo mandato di Merkel il ministro delle finanze e il vicecancelliere è stato Olaf Scholz, il leader socialdemocratico che nel dicembre 2021, dopo una sorprendente vittoria alle elezioni legislative, ha preso il suo posto come cancelliere.

Poi, il 24 febbraio 2022, Putin ha lanciato l’invasione dell’Ucraina. Lo scoppio della più grande guerra in Europa dal 1945 ha ridotto le certezze tedesche a un cumulo di macerie: meno visibili di quelle della città ucraina di Mariupol ma non meno reali. Davanti a questo orrore sono cominciati gli appelli perché la Germania boicottasse i carburanti fossili russi. Il governo di Scholz, tuttavia, si è schierato contro una decisione così radicale, e il modo in cui ha motivato la scelta la dice lunga. Un boicottaggio, ha detto il cancelliere, avrebbe fatto sprofondare la Germania e l’Europa in recessione: “Centinaia di posti di lavoro sarebbero a rischio, interi settori dell’industria in bilico”. Poi Scholz ha aggiunto: “Non serve a nessuno se, con gli occhi bene aperti, mettiamo in pericolo la nostra sostanza economica”. Tuttavia, se Putin fosse stato improvvisamente privato di una delle principali fonti di finanziamento della sua macchina bellica, a qualcuno sarebbe servito: al popolo ucraino.

Invece la Germania ha deciso di rinunciare ai combustibili fossili russi solo se le era possibile evitare una recessione. Forse è stata una scelta difendibile sulla base di quella che Max Weber chiamava “etica della responsabilità”, ma sono stati gli ucraini a pagare un prezzo umano altissimo per gli errori di popoli più fortunati. Secondo un’attenta valutazione indipendente, fatta dal Centre for research on energy and clean air, nel primo anno di guerra la Germania ha versato 30,6 miliardi di dollari alla Russia per le forniture di gas, petrolio e carbone. Parte di questo denaro è stato speso per produrre e trasportare i carburanti. Ma i prezzi sono aumentati in conseguenza della guerra, e dunque sono stati quasi tutti profitti. Poiché il settore energetico è parte integrante del regime di Putin, è evidente che gli esborsi hanno dato un contributo significativo al finanziamento della guerra della Russia all’Ucraina.

Nel frattempo, e questo è un grande merito, la Germania è diventata una delle principali sostenitrici dell’Ucraina. Secondo l’Ukraine support tracker, il rapporto sul sostegno all’Ucraina del Kiel institute for the world economy, nei primi due anni di guerra ha stanziato circa 22,1 miliardi di dollari in aiuti militari, economici e umanitari a Kiev, seconda solo agli Stati Uniti. Berlino è leader nella fornitura di sistemi di difesa aerea.

Eppure ogni volta Scholz ha puntato i piedi sull’invio di armamenti più potenti. Le giustificazioni cambiavano sempre, ma il filo comune era la paura di un’escalation militare della Russia. Se ha condiviso a parole il discorso del presidente francese Emmanuel Macron sulla “sovranità europea”, il suo governo, a differenza di quello francese e britannico, si è messo al traino di Washington, senza muovere un dito per sostenere militarmente Kiev se l’amministrazione americana non faceva altrettanto.

Per spiegare l’atteggiamento di Scholz bisogna considerare il suo stile di leadership prudente e le sue esperienze da attivista per la pace nei giovani socialisti negli anni ottanta, oltre a una tendenza all’appeasement con la Russia sempre presente all’interno del suo partito e la situazione politica interna che lo spinge a cercare voti posizionandosi come un “cancelliere della pace”. In una prospettiva più ampia può essere visto come una figura rappresentativa della Germania in questi tempi incerti.

Lo stesso disorientamento emerge anche su altre questioni, come l’atteggiamento tedesco verso Israele nella guerra a Gaza. La Germania ha tratto due imperativi dalla sua responsabilità storica per l’Olocausto: l’impegno speciale verso Israele, sancito dalle dichiarazioni ufficiali sulla sua sicurezza come parte della ragion di stato tedesca, e l’impegno universale a stare sempre e comunque dalla parte dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

Davide Bonazzi

Negli ultimi dieci anni la Germania ha fornito il 30 per cento delle importazioni di armi a Israele, seconda solo agli Stati Uniti, e ha aumentato gli approvvigionamenti dopo il terribile attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre 2023. Ma il modo sconsiderato in cui Benjamin Netanyahu ha condotto la guerra contro Hamas a Gaza, con una serie di palesi violazioni del diritto internazionale umanitario, ha messo questi due imperativi, quello particolare e quello universale, dolorosamente in conflitto.

C’è poi la prospettiva che il prossimo 5 novembre – quattro giorni prima del 35° anniversario della caduta del muro di Berlino – Donald Trump sia rieletto presidente degli Stati Uniti e svincoli Washington dall’impegno verso l’articolo 5 della Nato, quello del “tutti per uno e uno per tutti”, che garantisce la difesa degli stati membri europei. A febbraio, durante un comizio in South Carolina, Trump ha ricordato quando, da presidente, aveva detto al leader di un grande paese della Nato che avrebbe “invitato” la Russia a fare “il cavolo che le pareva” agli stati che non avessero speso di più per la propria difesa. Qual è stata la reazione in Germania? Per diversi giorni sui mezzi d’informazione sono fioccate ipotesi su come creare un deterrente nucleare europeo. Un paese che aveva appena rinunciato all’energia nucleare civile improvvisamente discuteva di come dotarsi di armi nucleari.

Le vecchie certezze si sono sbriciolate, ma una nuova direzione ancora non c’è.

L’ultimo capitolo del magistrale Germany in the world: a global history, 1500-2000 (La Germania nel mondo: una storia globale, 1500-2000) di David Blackbourn è intitolato “Una risposta al dilemma tedesco”. Nelle ultime righe annuncia l’avvento “di un nuovo tipo” di dilemma tedesco nel nuovo millennio. Ora questa nuova domanda è arrivata: “E adesso, grande Germania?”.

Dato che in questo articolo sono stato piuttosto duro sull’esperienza della Germania post-muro, è importante sottolineare che altre grandi democrazie occidentali meritano critiche assai più aspre. La Germania non ha commesso nessun atto di follia nazionale paragonabile alla Brexit nel Regno Unito. Nessun paese può lontanamente competere con la Francia quando si tratta di sovrapporre gli interessi nazionali e quelli europei. La versione italiana dell’Afd è al governo, e la prima ministra postneofascista di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è considerata una moderata in confronto al suo alleato di coalizione, Matteo Salvini della Lega. Se Donald Trump si presentasse nella patria di suo nonno Friederich Trump, non avrebbe nessuna possibilità di vincere le elezioni, mentre negli Stati Uniti ha una possibilità pericolosamente concreta.

Ma qui ci stiamo occupando della Germania, che è la potenza centrale dell’Europa. Ha più di un sesto della popolazione e produce più di un quinto del pil dell’Ue. Questo la rende una potenza egemone? Heinrich August Winkler, il decano degli storici tedeschi, ha detto che, come la Germania di Bismarck, la Repubblica Federale ha una “posizione semiegemonica” in Europa. La definizione coglie in pieno il classico problema geopolitico della Germania moderna: la sua dimensione intermedia, uno stato troppo grande ma anche troppo piccolo.

Certamente, però, parliamo del paese più forte all’interno dell’Unione europea. Magari a Bruxelles Berlino non ottiene sempre ciò che vuole, ma non si muove quasi nulla se Berlino non vuole. In Discussing pax germanica (A proposito della pax germanica, di prossima pubblicazione), Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo tra il 2009 e il 2014, scrive: “Negli anni del mio mandato, soltanto una volta la posizione del consiglio non ha coinciso con la posizione della Germania”. Quindi per l’Europa la futura posizione della Germania è più importante di quella di qualsiasi altro paese europeo.

Nella storia della Repubblica Federale ci sono stati tre grandi momenti di scelta strategica: negli anni cinquanta la cosiddetta Westbindung, la decisione del primo cancelliere Konrad Adenauer di legare saldamente la nascente repubblica all’occidente transa­tlantico; la Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt, la politica di distensione della Germania Ovest verso il blocco sovietico, messa in atto negli anni settanta; e la decisione del cancelliere Helmut Kohl di abbinare l’unificazione tedesca al progressivo percorso d’integrazione europea negli anni novanta.

In ognuno di questi momenti ci sono state delle “strade non prese”, come recita il titolo di una illuminante mostra attualmente in corso al Museo di storia tedesca di Berlino. Non era scontato per l’opinione pubblica che la strada intrapresa fosse giusta, e spesso le politiche del governo sono state duramente contestate.

Ogni volta erano presenti tre elementi: un leader, un dibattito interno e un assetto internazionale. “In principio fu Adenauer”, per citare l’incipit biblico della monografia di Arnulf Baring sulla genesi della democrazia tedesco-occidentale: la scelta del grande padre fondatore, tuttavia, è stata presa in un contesto internazionale di profonda divisione dell’Europa durante la guerra fredda; Brandt è stato un leader che ha ispirato una generazione, ma la sua Ostpolitik non è stata altro che la versione tedesca delle politiche di distensione messe in atto da Stati Uniti, Francia e Regno Unito; il contributo personale di Kohl, come la sua statura fisica, è stato immenso, ma anche lui si è mosso sull’onda dell’entusiasmo per l’integrazione europea e in risposta alle richieste di partner europei come la Francia.

L’assetto internazionale di oggi richiede sicuramente un cambiamento strategico. Quanto alla leadership, Scholz sembra una figura di transizione, ma potrebbe emergere qualcun altro, al più tardi alle elezioni federali previste nell’autunno del 2025. Quando sono diventati cancellieri, Adenauer, Brandt e Kohl non erano grandi statisti europei: lo sono diventati con il tempo.

Resta il dibattito nazionale (che comprende un metadibattito su cosa si può o non si può dire su Israele e Gaza). Quasi ogni tesi che ho presentato in questo articolo è stata sostenuta, a volte in maniera più veemente, da studiosi e commentatori tedeschi. Gli esperti tedeschi di Russia e di Europa orientale hanno sottolineato in modo molto esplicito il fallimento della politica di Berlino con la Russia e del suo sostegno poco convinto all’Ucraina. Purtroppo, non sembra che i politici e gli imprenditori del paese stiano prestando ascolto. Eppure, la Germania di oggi ha bisogno di un pensiero aperto e critico come un uomo sovrappeso di mezza età ha bisogno di fare esercizio fisico.

Data la frammentazione del quadro partitico, come si può raggiungere il cambiamento tramite il consenso? Come vanno affrontati forze politiche estremiste come l’Afd, che hanno un grande consenso popolare? Se il vecchio modello economico basato sulle esportazioni è sempre più incompatibile con un modello politico basato sui valori, qual è il nuovo modello economico? Oppure Berlino, come anticipa il caustico commentatore economico Wolfgang Münchau, “recupererà la vecchia prassi di stringere accordi con i dittatori eurasiatici per il bene dell’industria tedesca”? Tornando recentemente da un viaggio in Cina, il leader bavarese Markus Söder ha pubblicato un tweet in cui esprimeva la sua soddisfazione per aver fatto da scorta politica alle imprese tedesche: “Facciamo Realpolitik e non Moralpolitk”. Poco dopo anche Scholz è andato in visita a Pechino, accompagnato da una nutrita delegazione di imprenditori.

C’è poi la questione militare. Se la Germania spendesse il 2 per cento del pil per la difesa, avrebbe il quarto budget per le forze armate al mondo. Nel caso in cui la seconda presidenza Trump riducesse drasticamente la presenza degli Stati Uniti in Europa, la Germania diventerebbe la prima potenza militare del continente al di fuori della Russia. A cosa servirebbero tutti questi soldati e armamenti tedeschi? Dove, come e con quale ethos sarebbero dispiegati? Come conciliare Marte con Mercurio?

Lo scorso febbraio, alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, è emerso un contrasto stridente tra la retorica eroica del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj, che ha parlato di “guerrieri che si oppongono all’aggressore”, e il linguaggio incolore e ragionieristico del cancelliere tedesco. A un certo punto, sul mio taccuino ho appuntato questa sua frase: “Siamo davvero impressionati da come i soldati ucraini stanno portando avanti le loro attività”. Voleva dire combattendo? Nella lingua tedesca l’intero linguaggio bellico è stato avvelenato dal nazismo. Nel 2020 il capo dell’esercito tedesco ha sollevato un polverone perché ha detto che le forze armate del paese dovevano essere capaci di vincere. Ora il ministro della difesa dice che le forze armate devono essere “capaci di fare la guerra”. Servirà una buona dose d’immaginazione per trovare un nuovo vocabolario capace di descrivere il difficile mestiere di prepararsi a combattere e a morire per non dover combattere e morire.

La società tedesca è stata definita “post-eroica”. In un recente sondaggio, solo il 38 per cento degli intervistati ha risposto che sarebbe pronto a prendere le armi per difendere il suo paese in caso di un attacco, mentre il 59 per cento si è detto contrario. Ma il punto è che, a differenza dei polacchi o degli estoni, per non parlare degli ucraini, la maggior parte dei tedeschi è ancora convinta che non ce ne sarà bisogno.

I discorsi sull’Angst tedesca sono un vecchissimo cliché. In realtà, in tedesco la parola Angst può significare sia “ansia” sia “paura”. Sono due cose molto diverse. La paura può mobilitare: “combattere o fuggire”. L’ansia paralizza. È questa seconda Angst che al momento attanaglia la Germania. Per i politici e gli intellettuali di spicco la sfida sarà portare un’opinione pubblica ansiosa su una posizione più realistica, moralmente coerente e geopoliticamente, economicamente e ambientalmente sostenibile, senza sbandamenti improvvisi da un estremo all’altro.

E l’Europa? “Anche se i tedeschi ne parlano con grande calore e convinzione”, scrive Van Rompuy, “l’Europa non deve costargli troppo”. I tedeschi sono pronti, nel loro interesse egoistico, illuminato, a lungo termine, a lasciare che la futura Europa costi un po’ di più? Dati i timori storicamente motivati (anche degli altri europei) sulla rinascita di una potenza militare tedesca, sarebbe logico che la Germania fosse tra le prime promotrici di un’industria militare europea più integrata, di un ruolo più forte dell’Europa nella Nato e di una Ue che prenda sul serio la difesa. Questo passaggio, però, richiederebbe una condivisione della sovranità su un tema perfino più vitale e sensibile della scomparsa delle valute nazionali nell’eurozona. È una sfida per tutti i paesi europei, i cui leader vivono una profonda tensione strutturale tra politiche che devono necessariamente essere europee e politiche che sono ancora nazionali.

In attesa di un termine più accattivante, direi che la Germania dovrebbe dare all’Europa una strategia Gesamteuropapolitik: una politica di tutta l’Europa, che metta insieme quelle che in passato sono state due Europapolitik in gran parte separate, e cioè la politica dell’Ue e l’Ostpolitik. La Germania riuscirà a spostare l’equilibrio dell’Unione europea verso un autentico impegno strategico ad allargare i suoi confini all’Ucraina, alla Moldova, ai Balcani occidentali e alla Georgia? Sarà in grado di dare un contributo coraggioso e innovativo per riformare la Ue, preparandola sia a un altro grande allargamento sia ad affrontare un mondo più pericoloso? Saprà elaborare una nuova e realistica politica europea verso la Russia, non per i prossimi venti mesi, ma per i prossimi vent’anni? E l’Europa in generale, compresi i paesi che si sono autoemarginati come il Regno Unito, come difenderà i suoi valori e il suo stile di vita, in un mondo in cui grandi e medie potenze istintivamente antioccidentali (Cina, India e Turchia) diventano sempre più influenti, e il coinvolgimento degli Stati Uniti in Europa diminuirà ancora? La Germania non può fare nessuna di queste cose da sola, ma nessuna di queste cose succederà senza la Germania.

Questo è il dilemma tedesco di oggi, e gli unici che possono rispondere sono i tedeschi stessi. ◆ fas

Timothy Garton Ash è un giornalista e scrittore britannico. Insegna studi europei all’università di Oxford. Il suo ultimo libro è Patrie. Una storia personale dell’Europa (Garzanti 2023). Scrive regolarmente per il Guardian e la New York Review of Books, dove è uscito questo articolo con il titolo Big Germany, what now?

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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati