A ventun anni avevo già girato due corti e mi sentivo fermamente pronto ad affrontare un lungometraggio. Ma a quell’epoca era impensabile che a un giovane fosse affidato un film importante.

Sapevo che, in quel momento, non c’era speranza, così accettai l’offerta di una borsa di studio negli Stati Uniti, non dovetti quasi nemmeno presentare la domanda. La commissione era sorpresa che volessi andare in un’università dove c’era uno studio cinematografico, in modo da poter lavorare subito mentre continuavo a seguire le lezioni. Sarei potuto andare nelle università più prestigiose, ma scelsi Pitts­burgh perché ero attratto dall’idea sentimentale che lì non avrei avuto a che fare con inutili chiacchiere accademiche, ma avrei incontrato delle persone vere. Pitts­burgh era la città degli operai siderurgici, ai quali mi sentivo vicino perché avevo lavorato in un’acciaieria.

Pitts­burgh non fu una buona scelta. L’industria siderurgica era in rapido declino e la Duquesne university era un’istituzione culturalmente molto povera

A ventun anni scrissi nel giro di poche settimane la sceneggiatura Feuerzeichen e la presentai in concorso al premio Carl Mayer, che doveva il nome allo sceneggiatore di famosi film muti come Il gabinetto del dottor Caligari e L’ultima risata. Pochi mesi dopo, quando avevo appena compiuto 22 anni, vinsi il premio. Visto che l’anno precedente non era stato assegnato, ricevetti l’equivalente di due premi, cioè diecimila marchi.

Al concorso avevano partecipato registi affermati e molti giovani emergenti, ricordo che c’era anche Volker Schlöndorff con il suo I turbamenti del giovane Törless. In seguito, quel premio si dimostrò un argomento importante di fronte ai produttori che dovevano decidere quali progetti finanziare: potevo far valere il fatto che la mia sceneggiatura aveva superato tutti gli altri concorrenti e che avevo già realizzato alcuni film, cosa che altri candidati non potevano vantare.

Per quanto riguarda Pitts­burgh, devo dire che non fu una buona scelta. L’industria siderurgica era quasi inesistente, era in rapido declino, le acciaierie erano chiuse e stavano facendo la ruggine, e la Duquesne university, che aveva uno studio cinematografico, in quegli anni era un’istituzione culturalmente molto povera. Ma per altre ragioni, la città mi diventò cara e si rivelò importante.

All’inizio degli anni sessanta non ci si spostava in aereo così di frequente come oggi e avevo ottenuto una borsa di studio supplementare per un viaggio gratuito in nave. Mi imbarcai sulla Bremen, la stessa nave su cui, l’anno precedente, prima di trasferirsi a Las Vegas, gli illusionisti Siegfried e Roy avevano lavorato come camerieri, intrattenendo i passeggeri con i loro giochi di prestigio. Su quella nave incontrai la mia prima moglie, Martje. Ci furono tempeste per una settimana e nel giro di due giorni la sala da pranzo per ottocento passeggeri si svuotò. Tutti avevano il mal di mare. Lei stava andando nel Wisconsin dove avrebbe studiato letteratura. Il mare mosso non le dava fastidio e quando passammo davanti alla Statua della libertà eravamo talmente assorti in una partita di shuffleboard che ci lasciò del tutto indifferenti. Una volta che lei terminò i suoi studi a Friburgo, ci sposammo.

Martje è la madre del mio primo figlio, Rudolph, che porta i nomi di tre persone importanti nella mia vita: Rudolph, Amos, Achmed.

Rudolph era il nome di mio nonno. Ero sempre stato convinto che il suo nome terminasse con ph, ma è stato proprio quando, per la stesura di queste mie memorie, ho guardato con più attenzione i documenti della mia famiglia che mi sono accorto che invece si chiamava Rudolf con la f.

Amos è un omaggio all’autore, direttore di festival e distributore cinematografico Amos Vogel che, come Lotte Eisner, è stato per me un vero mentore. Ricordo che, dopo circa tre anni di matrimonio, mi prese in disparte e mi chiese se c’era qualcosa che non andava nella relazione con Martje. “No”, gli risposi, “è tutto a posto”. “E allora perché non avete figli?”, mi domandò senza tanti giri di parole. Ma sì, pensai, perché no, e così Amos, che era scappato da Vienna nelle condizioni più disperate per sfuggire ai nazisti, diventò una specie di padre ombra.

Achmed è invece il nome dell’ultimo dipendente di mio nonno, aveva cominciato a lavorare per lui quando era ancora un ragazzo. La prima volta che andai a Kos, quando avevo quindici anni, lo rintracciai e mi presentai come il nipote di “Rodolfo”. Achmed si mise a piangere, poi aprì tutti gli armadi, tutti i cassetti, tutte le finestre e le porte e mi disse: “Tutto questo ora è tuo!”. Apparteneva alla minoranza turca. Rimase sull’isola, che nel frattempo, dopo il crollo dell’impero ottomano, era diventata greca. Lavorava come custode degli scavi dell’Asclepieion, dove ogni giorno sopportava in silenzio un vero e proprio supplizio. Quando stendeva il suo tappeto per la preghiera, i bambini gli lanciavano delle pietre urlando: “Achmed, Achmed!”. Nonostante ciò, lui continuava a pregare, senza mai lamentarsi.

A Pitts­burgh capii fin dai primi giorni che quello non era il mio posto, e dopo una settimana mi fu chiaro che non sarei potuto restare. È vero che c’era uno studio cinematografico, ma era allestito come per un telegiornale, con una scrivania per l’annunciatore circondata da tre telecamere enormi. Sul soffitto dello studio erano fissati dei faretti vecchio stile che non avevamo il permesso di togliere o spostare. Rinunciare immediatamente all’università, però, significava perdere il visto, quindi dover lasciare gli Stati Uniti. Rimasi iscritto, ma lasciai il mio alloggio.

Alla Duquesne c’era un piccolo gruppo di giovani scrittori che ruotava intorno a una rivista dove pubblicai il mio primo racconto. A volte mi capitava di dormire sul pavimento della biblioteca, ma alle sei del mattino arrivavano gli addetti alle pulizie e mi scoprivano. Facevo la spola tra i divani di persone che avevo conosciuto di sfuggita e quello di un professore che a più di quarant’anni era ancora succube della madre, che gli proibiva di frequentare le studenti, ma probabilmente le donne in generale. Dalla finestra di casa sua vedevo alberi scuri e scoiattoli che avevano un aspetto confortante. C’era qualcosa di rassicurante anche nei versi degli uccelli a me sconosciuti, così come nel gioco che i raggi di luce facevano attraverso la fitta chioma degli alberi. Allora, nella mia mente si formavano delle immagini.

La svolta arrivò da un fatto del tutto casuale. La zona dove avevo provvisoriamente preso alloggio si trovava sulle colline un po’ fuori Pitts­burgh, nella circoscrizione di Fox Chapel. Prendevo per una ventina di chilometri l’autobus che si fermava a Dorseyville. Da lì, percorrevo a piedi una strada di campagna e dopo aver attraversato un bosco di latifoglie, arrivavo fino alla collina. In quel tratto, mi capitava spesso di essere superato da un’auto piena di giovani guidata da una donna. Un giorno cominciò a piovere e io stavo camminando senza ombrello; la macchina si fermò accanto a me e la donna abbassò il finestrino, dicendo che non era proprio il tempo migliore per andarsene in giro a piedi e che, se volevo, poteva darmi un passaggio. In macchina erano solo due minuti, 120 secondi.

Pierluigi Longo

Mi chiese da dove venivo. “Dalla Germania, sono un crucco”, risposi, facendo ridere tutti. Voleva sapere dove abitavo e in poche parole spiegai la mia situazione. Oh, disse allora la donna, è lì che stavo. Conoscevano il professore, era uno un po’ strambo, anzi, peggio, “un pazzoide, uno schizzato”. Senza esitare, mi disse che di sicuro sarei stato molto meglio da loro, dove c’era ancora spazio nella soffitta. La casa era a circa trecento metri da quella del professore.

In un minuto diventai un componente della famiglia, come se ne avessi sempre fatto parte. La donna si chiamava Evelyn Franklin. Aveva sei figli, tra i diciassette e i 27 anni, e spiegò che proprio in quel momento un settimo figlio sarebbe stato utile alla famiglia, visto che la figlia maggiore si era sposata ed era l’unica a essersi trasferita: la troupe era incompleta. Il marito era morto alcolizzato e per Evelyn gli anni passati insieme a lui dovevano essere stati un lungo calvario. Succedeva di rado che lo citasse e quando ne parlava lo chiamava sempre Mr. Franklin. Le più giovani erano due gemelle, Jeannie e Joanie, poi c’era Billy, un musicista rock fallito, altri due fratelli, uno dei quali un po’ noioso e affettato, e infine un altro fratello, di 25 anni, un tipo lento ma molto buono. Da bambino era caduto da un’auto in corsa. Al gruppo si aggiungevano la nonna novantenne e un cocker spaniel, Benjamin, o Benjamin Franklin. Mi sistemarono in soffitta, dove, oltre a un letto che nessuno usava più, c’erano solo cianfrusaglie. Il tetto era molto spiovente e potevo stare in piedi solo al centro della stanza, dove passava la linea di colmo.

Mi immersi subito in quella follia quotidiana. Evelyn, che lavorava come segretaria per una compagnia di assicurazioni, faceva ogni giorno la pendolare tra la casa e la città. Le gemelle tornavano dalla scuola a Fox Chapel nel pomeriggio, portando spesso delle compagne a casa. La nonna, a partire dalle otto del mattino, cercava di svegliare Billy, che di solito rimaneva a suonare in un bar fino alle tre di notte. Ogni mezz’ora, picchiava sulla sua porta chiusa a chiave e provava ad allontanarlo dal suo stile di vita peccaminoso citando frasi dalla Bibbia. Il cane, che era legato a Billy in una sorta di simbiosi amorosa, se ne stava accucciato pazientemente davanti alla porta. Solo nel pomeriggio il ragazzo faceva la sua comparsa, stiracchiandosi di gusto, completamente nudo. La nonna scappava e Billy, battendosi il petto, deplorava a voce alta e con toni da Vecchio testamento la sua vita peccaminosa.

Ai suoi lamenti Benjamin Franklin, che non si era mosso da lì, guaiva ma conoscendo il rituale scalciava con le zampe posteriori. Passando poi a un linguaggio canino che si era completamente inventato, Billy prendeva per le zampe il cane e lo trascinava giù per le scale, esattamente come Christopher Robin fa con Winnie the Pooh. Si fermava un attimo su ognuno dei gradini coperti da una moquette da quattro soldi per condannare ulteriormente, sempre in linguaggio canino, la sua vita viziosa. Al piano di sotto, nel soggiorno, vedendo il ragazzo nudo che inseguiva la nonna, le gemelle e le loro amiche scappavano urlando. Lui intanto continuava a elencare i suoi peccati, a metà tra un profeta biblico e un cocker.

Non era affatto insolito, in questo clima di caotica creatività, che le gemelle m’inseguissero con un’acqua di colonia piuttosto scadente comprata da Wool­worth e me la spruzzassero addosso. Erano molto fantasiose al riguardo. Un giorno, accorgendomi che mi stavano facendo un’imboscata vicino alla porta del garage, m’intrufolai nel bagno del piano superiore con l’idea di saltare dalla finestra che dava sul garage e di attaccarle improvvisamente alle spalle con la schiuma da barba. Fuori aveva nevicato, la neve non era molto alta ma mi sembrava sufficiente per attutire il salto. In realtà, atterrai sulle scale di cemento che portavano al garage. Il rumore che fece la mia caviglia fu talmente forte che mi s’impresse per sempre nella mente, sembrava quello di un ramo quando si spezza dopo essere stato calpestato. Mi dovettero operare e ingessare fino all’anca. Solo dopo cinque settimane mi misero un gesso che arrivava fino al ginocchio.

Volevo bene ai Franklin. Con loro scoprii la parte migliore dell’America. Più tardi li invitai a Monaco e li portai a Sachrang per una festa di paese. Abbracci, birre, grida di gioia. Andai con loro anche sul Geigelstein. Ma negli anni il rapporto diventò più difficile perché tutta la famiglia, compreso Billy, si era data al fondamentalismo religioso. Inoltre, erano tutti ingrassati così tanto che quasi non li riconoscevo.

Pierluigi Longo

Quando nel 2012 ho interpretato il ruolo del cattivo nel film d’azione hollywoodiano Jack Reacher - La prova decisiva – mi avevano voluto sia il regista Christopher McQuarrie sia l’attore principale Tom Cruise – le riprese erano proprio a Pitts­burgh. Ma non sono riuscito a trovare i Franklin. Sono andato in macchina fino a Fox Chapel, dove ormai quasi tutto era cambiato, ovunque nuovi edifici, era molto deprimente. Però ho trovato la casa. Era come me la ricordavo, il prato, i vecchi alberi di latifoglie, solo la stradina di cemento che portava al garage era coperta da un cumulo di terra, con sopra dei cespugli ornamentali. Non c’era nessuno, allora ho bussato dai vicini. Mi sono trovato davanti una coppia di anziani, che mi ha detto che nel frattempo la casa aveva avuto diversi proprietari. Sapevo già che Evelyn Franklin era morta. Due anni dopo avrei saputo della morte di Billy, che era stato per me come un fratello, un fratello della cui esistenza non avevo saputo nulla fino al giorno in cui lo conobbi. Per riconoscerlo erano bastati pochi secondi.

Quando vivevo con loro, le gemelle e le loro amiche erano al settimo cielo per il concerto di una nuova band britannica alla Civic arena. Erano i Rolling Stones. Tutti quei gruppi musicali e l’intera cultura pop mi erano rimasti abbastanza indifferenti, con l’eccezione di Elvis. Ero stato a Monaco a vedere il suo primo film. Ricordo che intorno a me alcuni ragazzi avevano cominciato con molta calma e metodo a staccare le poltrone dai loro fissaggi. Era dovuta intervenire la polizia.

Al concerto di Pitts­burgh, le gemelle tenevano in mano dei cartelli con il nome del loro idolo Brian Jones, che di lì a poco sarebbe annegato nella sua piscina. Ricordo ancora con stupore il subbuglio e le urla delle ragazze. Quando il concerto finì, molti dei sedili di plastica erano fumanti di urina: a quanto pare le ragazze si erano pisciate addosso. Capii che quella band sarebbe diventata molto famosa.

Molto più tardi, in Fitzcarraldo, Mick Jagger avrebbe dovuto recitare accanto a Jason Robards, ma le riprese del film furono interrotte a metà perché Robards si ammalò. Allora ricominciai da zero, questa volta con Klaus Kinski: avrei avuto Jagger a disposizione solo per tre settimane, poi sarebbe stato in tour con i Rolling Stones. Mick Jagger era così straordinario, così unico, che non volevo sostituirlo e così cancellai le sue scene dalla sceneggiatura. Nel film gli avevo affidato la parte di Wilbur, un attore inglese che, dopo essere impazzito, si ritrova nella foresta amazzonica. In un certo senso, all’origine di quel personaggio c’era il nudo Billy Franklin di Pitts­burgh. Il cane Benjamin Franklin fu sostituito da una timida scimmia di nome McNamara.

Trovai impiego da un produttore che lavorava per il canale Wqed di Pitts­burgh. Il suo nome era Matt von Brauchitsch. Non dissi che non avevo il visto per lavoratori. Su incarico della Nasa, von Brauchitsch stava realizzando diversi documentari su tecniche futuristiche di propulsione. Non avevo referenze e in fondo neanche una vera e propria formazione nel mestiere, ma fin dall’inizio lui sembrava convinto delle mie capacità. Questo ottimismo pragmatico è un aspetto degli Stati Uniti che ammiro ancor oggi. Il documentario che dovevo sviluppare io si concentrava sulle prime ricerche per i razzi al plasma, condotte principalmente a Cleveland, in Ohio. In parole povere, bisognava usare come propulsore il plasma bollente, che avrebbe fuso all’istante tutti i contenitori fatti di materiali solidi; per questo si stavano conducendo esperimenti su contenitori non materiali, cioè campi magnetici estremamente resistenti.

Mi ero comprato una Volkswagen arrugginita e con quel mezzo sgangherato facevo su e giù tra Pitts­burgh a Cleveland. Quel periodo poi è stato raccontato in modo molto esagerato. Dicevano che avevo girato dei film per la Nasa, che avevo lavorato per loro come ricercatore, che avevo rinunciato a quella carriera e alla possibilità di diventare astronauta per darmi al cinema. Tutte invenzioni che non mi disturbano. Non mi danno fastidio perché so chi sono. Ci sono cose sulle quali la memoria modella se stessa, si rende indipendente, assume forme nuove, si stende come un velo leggero sul sonnambulo.

Comunque, un giorno ricevetti una convocazione dai funzionari dell’ufficio immigrazione, che mi chiedevano di presentarmi immediatamente da loro portando con me il passaporto. Sapevo cosa significava: dato che avevo violato le regole in materia di visti, sarei stato espulso e rispedito in Germania. A Pitts­burgh mi comprai subito un dizionario di spagnolo e partii. Guidai fino in Texas senza quasi mai fermarmi e attraversai il confine a Laredo. Quando fui nella terra di nessuno, sul ponte che attraversava il Rio Grande, sentii un rumore al cambio, come se gli Stati Uniti non volessero lasciarmi andare e il Messico non fosse pronto ad accogliermi. Spinsi l’auto finché trovai qualcuno che me la riparò. Dopo due giorni ripresi il viaggio abbandonandomi all’ignoto. All’inizio mi fermai a Guanajuato, ma ripartii dopo qualche settimana, quando un toro mi schiacciò la gamba ancora dolorante contro un muro.

Per tirare avanti, avevo bisogno di soldi. E così cominciai a lavorare per alcuni ricchi rancheros, i grandi proprietari terrieri messicani. Il mio lavoro consisteva nel contrabbandare stereo e televisori dagli Stati Uniti perché, a causa dei dazi doganali, in Messico erano molto più costosi. Potevo farlo perché c’era un varco nel confine tra le città di Reynosa, in Messico, e McAllen, in Texas. Lì, i frontalieri passavano di mattina per andare a lavorare in Texas e la sera tornavano a casa. Al confine, sulla strada che si apriva a ventaglio, c’erano tre corsie riservate solo a loro. Le loro auto si riconoscevano da lontano per gli speciali adesivi che avevano sul parabrezza. Per vie traverse riuscii a procurarmi una targa messicana e un adesivo. E la mia macchina scassata sembrava perfetta per lo scopo. La mattina presto, gli agenti di frontiera statunitensi mi facevano passare senza problemi sulle corsie speciali insieme ad altre migliaia di auto. Per me, l’unica cosa importante era raggiungere in fretta McAllen, prima che il visto suscitasse sospetti. Al ritorno, gli agenti messicani non controllavano nulla.

Poi mi trasferii a San Miguel de Allende, una bella cittadina coloniale che oggi è completamente rovinata. Allora, durante le mie escursioni, scoprii le mummie di Guanajuato, che a quel tempo erano ancora disposte in lunghe file, appoggiate al muro. Nosferatu, che girai dodici anni dopo, comincia con una lunga sequenza di queste mummie. Allora le mummie erano esposte in un museo. Solo di notte, di nascosto, ci fu permesso di toglierle dalle loro prigioni di vetro e appoggiarle al muro.

Avevo un progetto cinematografico, Segni di vita, che andava avanti. Ma quando mi trovai nella parte più meridionale del Messico, al confine con il Guatemala, mi ammalai. Era epatite, anche se ancora non lo sapevo. Io però volevo andare in Guatemala e trovai un punto del fiume a poche centinaia di metri dalla stazione di confine, che mi sembrava attraversabile. Misi un vecchio pallone da calcio di gomma, che avevo trovato, in una borsa per la spesa così da avere un supporto, una sorta di salvagente, e avanzai tenendo attentamente il bagaglio sulla testa. Sentivo però che qualcosa non andava. Fu allora che notai, proprio di fronte a me, sulla riva opposta, due soldati giovanissimi che se ne stavano fermi, indecisi con i loro fucili in mano. Erano usciti dalla giungla e ridacchiavano imbarazzati. Feci un cauto gesto di saluto con la mano e tornai indietro nuotando molto lentamente.

In realtà, dentro di me ero contento di non essere riuscito ad attraversare la frontiera. Sentivo che c’era qualcosa che non andava. Stavo malissimo e avevo la febbre. Tornai di corsa verso il Texas, questa volta senza targa falsa e senza adesivo sul parabrezza. Davo per scontato che con il mio visto di studente mi avrebbero fatto rientrare negli Stati Uniti. Al confine mi chiesero cosa avessi fatto in Messico. Quando dichiarai di esserci andato per un breve viaggio di ricerca, mi fecero passare. Da quel momento in poi fu tutto come un’allucinazione. Continuai a guidare giorno e notte, fermandomi solo per delle soste di poche ore, durante le quali appoggiavo la testa sudata sul sedile accanto. Raggiunsi Pitts­burgh. I Franklin mi portarono all’ospedale, dove rimasi per due settimane. Quando il clan tornò a prendermi avevo recuperato le forze, e un paio di giorni dopo m’imbarcai su un volo per la Germania. ◆ ng

Werner Herzog è un regista cinematografico e teatrale tedesco. Questo articolo è un estratto dalla sua autobiografia, Ognuno per sé e Dio contro tutti (Feltrinelli 2023). © 2023 Carl Hanser Verlag GmbH & Co. KG, München. Per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency.

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati