Il 25 febbraio 2025 più di mille artisti — tra cui Annie Lennox, Damon Albarn e Kate Bush — hanno pubblicato un album di tracce in cui si sentono solo rumori bianchi per protestare contro le modifiche alla legge sul copyright che il governo britannico intende introdurre.
L’album si intitola Is this what we want? e, secondo gli artisti, contiene registrazioni dei suoni prodotti negli studi di registrazione e negli spazi per le esibizioni vuoti. La provocazione serve a simboleggiare quello che potrebbe accadere secondo loro se la nuova norma venisse approvata: il rischio che le voci di chi fa musica scompaiano, non solo metaforicamente.
Secondo i musicisti, questo meccanismo è iniquo perché costringerebbe gli artisti a contattare singolarmente centinaia o migliaia di aziende e a monitorare il destino delle proprie opere in un ecosistema digitale troppo vasto.
Il messaggio dell’album è esplicito: ogni titolo di traccia è una parola. Lette tutte insieme, le parole compongono la frase “The British government must not legalise music theft to benefit ai companies” (cioè: il governo britannico non deve legalizzare il furto di musica per favorire le aziende di intelligenza artificiale). I proventi del progetto saranno devoluti all’associazione benefica Help Musicians.
La protesta è stata sostenuta anche da artisti come Billy Ocean, Ed O’Brien dei Radiohead, i Clash, Jamoriquai e Hans Zimmer. Secondo Ed Newton-Rex, l’organizzatore dell’iniziativa e pioniere nell’uso delle ia per la musica, i cambiamenti normativi sarebbero “disastrosi per i musicisti” e il Regno Unito potrebbe guidare l’innovazione nelle ia senza “gettare sotto un autobus” la sua industria creativa.
Le modifiche alla legge sul copyright britannico rientrano in un dibattito globale più ampio sul ruolo delle intelligenze artificiali nella produzione artistica. Se da una parte gli artisti denunciano il rischio di appropriazione indebita delle loro opere, dall’altra esiste una comunità creativa che sperimenta con l’ia e la considera uno strumento di co-creazione, non un furto.
Ma come stanno davvero le cose? Le aziende che sviluppano intelligenze artificiali stanno rubando il lavoro di artisti e creatori? O siamo di fronte all’ennesimo caso di media panic, un’ondata di allarme collettivo davanti a una nuova tecnologia, come teorizzato dalla ricercatrice danese Kirsten Drotner?
Nella storia della cultura, ogni innovazione ha scatenato reazioni simili a quelle che stiamo vedendo oggi: dalla stampa alla fotografia, fino alla musica digitale. Ecco perché credo sia utile ascoltare le posizioni di chi lavora con questi strumenti. Per esempio, Katsukokoiso.ai, fotografo e artista visivo, ha abbracciato l’ia come mezzo di espressione: “Non voglio sostituire la fotografia o il video”, mi ha detto in una lunga intervista. “Voglio esplorare nuovi mondi”.
Anche lo scrittore e artista digitale Francesco D’Isa ha un punto di vista diverso rispetto ai firmatari dell’album silenzioso: “L’idea del genio isolato che crea dal nulla è una costruzione romantica. La creatività è sempre stata collaborativa, e le ia lo rendono evidente”. Secondo D’Isa, il concetto stesso di proprietà intellettuale è un costrutto economico, più che un principio assoluto: “Il copyright è stato sempre usato più per consolidare il potere delle aziende che per proteggere gli artisti”.
L’attenzione sulla rapacità delle sole aziende che producono ia oscura una realtà più profonda, ovvero il modello estrattivo del capitalismo. Il punto non è tanto che le intelligenze artificiali rubino, ma che il mercato – digitale e non, culturale e non – è già da tempo strutturato per estrarre valore. In questo caso, per estrarre valore dai contenuti di ogni forma senza equa redistribuzione della ricchezza generata. Le piattaforme social, gli archivi di immagini, la musica in streaming hanno già minato il diritto d’autore – se vogliamo intenderlo come diritto delle persone creative a essere equamente retribuite – molto prima dell’avvento delle ia.
Lo stesso Katsukokoiso.ai per anni ha prodotto contenuti per le agenzie di immagini stock. Sa bene come funziona il sistema e lo racconta in maniera semplice e chiara: “Abbiamo riempito gli archivi di immagini e video pagati pochi centesimi. Le agenzie ora usano quegli stessi contenuti per addestrare le loro ia”.
Il vero problema sembra proprio essere il modello economico e non la creazione con le ia. Cosa si può fare, allora? La soluzione non può essere solo chiudere a chiave la musica con il copyright, perché la storia dimostra che la condivisione e la contaminazione sono alla base dell’evoluzione artistica. D’Isa suggerisce che il dibattito dovrebbe spostarsi sulla proprietà e governance delle tecnologie, piuttosto che sulla loro esistenza: “Il vero pericolo è che le ia diventino un’arma in mano a poche aziende”. Per questo servono regole che rendano l’uso di questi strumenti più libero, evitando la concentrazione nelle mani di pochi attori privati.
In effetti, anche il promotore dell’album silenzioso, Newton-Rex, ammette che il problema non è la tecnologia in sé, ma il modo in cui è regolamentata. Solo che, invece di trovare un equilibrio tra diritti degli artisti e lo sviluppo tecnologico, si rischia di blindare i contenuti in una guerra infinita tra diritto d’autore e innovazione: le aziende che potranno permettersi di pagare i diritti lo faranno, ci saranno alcuni accordi, pochi artisti ne riceveranno un compenso congruo, tutti gli altri staranno a guardare e gli strumenti diventeranno costosissimi o comunque inaccessibili alla maggior parte delle persone.
Trovo anche particolarmente ironico che l’album di protesta sia pubblicato su Spotify. La popolare piattaforma, pur essendo leader nello streaming musicale con oltre 600 milioni di utenti dichiarati, un fatturato di 3,99 miliardi di euro e un utile operativo di 454 milioni di euro, offre compensi minimi agli artisti, che spesso faticano a sostenere le proprie carriere. In media, Spotify paga tra 0,003 e 0,005 dollari per stream. Questo significa che, per guadagnare 100 dollari, una canzone deve essere ascoltata circa 30mila volte. Nel 2024, Spotify ha dichiarato di aver versato più di dieci miliardi di dollari all’industria musicale. Tuttavia, più di 158 milioni di brani sulla piattaforma hanno registrato meno di mille – soglia minima per essere pagati –, e molti artisti indipendenti guadagnano cifre irrisorie. Questo evidenzia un sistema in cui una ristretta élite ottiene guadagni significativi, mentre la coda lunga degli artisti lotta per emergere.
L’introduzione di funzionalità come discovery mode, che offre promozione algoritmica in cambio di una riduzione del 30 per cento dei diritti su alcuni brani, ha sollevato ulteriori critiche al sistema. Molti vedono in queste pratiche una forma di payola moderna che svantaggia, ovviamente, gli artisti indipendenti.
In questo contesto, l’uso dell’intelligenza artificiale nella creazione musicale potrebbe amplificare queste disuguaglianze. Gli artisti affermati e le grandi etichette hanno giù accesso a risorse avanzate e possono facilmente fare accordi con i grandi produttori di ia, mentre gli emergenti in tutti i campi rischiano di rimanere ancor più indietro.
La democratizzazione promessa dalla tecnologia rischia di trasformarsi in un ulteriore strumento di consolidamento per chi è già al vertice: questo sembra non interessare gli artisti che protestano. Nel frattempo, le persone continueranno a fare arte con le intelligenze artificiali. La domanda da porsi, allora, non è se le ia siano ladre, ma chi trae profitto dalla loro esistenza, dal mantenimento dello status quo, da queste battaglie. Nel mondo sognato dai mille artisti dell’album silenzioso, probabilmente, sarebbero loro e i loro amici.
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
Iscriviti a Artificiale |
Cosa succede nel mondo dell’intelligenza artificiale. Ogni venerdì, a cura di Alberto Puliafito.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Artificiale
|
Cosa succede nel mondo dell’intelligenza artificiale. Ogni venerdì, a cura di Alberto Puliafito.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it