28 agosto 2017 17:40

Caro diario, ieri J è riuscito a tirarmi fuori di casa: “Sono arrivati in città due nostri amici. Vediamoci per cena”. Potrebbero essere tutti miei figli. Due sono giornalisti nordamericani, l’altro è un ricercatore israeliano. Il più vecchio, J, ha 32 anni e con il suo passaporto canadese ha viaggiato in tutta la regione, dal Kurdistan al Libano all’Egitto.

Siamo tutti della stessa tribù: i nostri antenati erano ebrei dell’Europa orientale. I nonni paterni di uno di loro arrivarono dall’Iraq. Da adolescente lui aveva partecipato a una manifestazione contro il muro di separazione ed era stato ferito da un proiettile ricoperto di gomma israeliano. Aveva perso l’uso di un occhio, ma di recente è stato operato e ha recuperato la vista.

Tornata a casa, alle 23 ho ricevuto una telefonata. Stavano demolendo una scuola elementare a Jubbet adh Dhib, un villaggio a sudest di Betlemme. “Non c’erano i permessi”. Ma gli israeliani non permettono mai di costruire. Ho dovuto scriverne subito, come se questo avesse potuto far riapparire la scuola. Oggi ho intervistato la moglie di un palestinese dopo che Israele ha approvato nuove restrizioni sui ricongiungimenti familiari. Dopo sono andata a una protesta dei giudici palestinesi, un evento raro. Il governo di Ramallah cerca di imporre un controllo più stretto sulla magistratura. I giudici corrono dei rischi scendendo in piazza, ma dicono di farlo in nome del popolo. Alla manifestazione c’erano in tutto cinque giornalisti, me compresa.

(Traduzione di Francesca Sibani)

Questa rubrica è stata pubblicata il 25 agosto 2017 a pagina 23 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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