28 settembre 2020 15:35

Quando nel 1926 il pubblico ministero Michele Isgrò concluse la requisitoria al processo contro Antonio Gramsci con la famosa frase “Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni” forse non sapeva che questo modus operandi del tribunale fascista sarebbe stato usato e abusato in molteplici varianti nei decenni a seguire contro tanti altri oppositori e dissidenti politici in altri paesi dittatoriali, inclusa la Siria della famiglia Assad.

Dobbiamo impedire a questi cervelli di opporsi, manifestare, pensare, ribellarsi: così devono aver pensato le autorità siriane quando hanno ideato e realizzato le tante prigioni del terrore in cui negli ultimi trent’anni hanno passato la vita e trovato la morte decine di migliaia di oppositori al regime degli Assad padre e figlio.

Adra, Tadmur, Palmira, Saidnaya: sono solo alcuni dei nomi delle più famose carceri siriane dove prima Hafez al Assad (a cominciare dal massacro di Hama nel 1982), e poi il figlio Bashar al Assad, hanno mandato migliaia di persone che lì hanno trovato la morte a causa delle torture subite.

Le storie del terrore
Attivisti, laici, islamisti, dottori, accademici, avvocati, civili che avevano partecipato alle proteste: secondo il Syrian network for human rights, le forze dell’attuale regime siriano sono responsabili della morte di almeno 14.269 persone uccise tra il marzo 2011 e il settembre 2020, mentre oltre 130mila sono quelli ancora in carcere o dei quali dopo l’arresto non s’è più saputo nulla. I sopravvissuti hanno raccontato storie dell’orrore di cui sono stati testimoni in prigione: assenza di giusto processo, impiccagioni di massa, percosse, violenze sessuali, intimidazioni, mancanza di cibo, acqua e cure essenziali.

La storia del terrore nelle prigioni siriane è forse poco nota tra le opinioni pubbliche internazionali, nonostante negli ultimi anni qualcuno abbia tentato di portarla alla luce. Per esempio la mostra Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura, dallo pseudonimo di un ex ufficiale della polizia militare siriano che era riuscito a portar via di nascosto tra il 2011 e il 2013 migliaia di fotografie di corpi di persone torturate a morte nelle prigioni amministrate dal regime siriano. Queste undicimila foto sono state il punto di partenza per costruire un caso giudiziario in Germania contro i responsabili dell’Ufficio per la sicurezza nazionale siriana, i servizi di intelligence militare, la polizia militare e la direzione generale per l’intelligence. Nel 2017, un rapporto di Amnesty international ha documentato inoltre come nella sola prigione di Saidnaya dal 2011 al 2013 almeno 13mila persone siano morte a causa delle torture subite.

Amnesty ha definito questo carcere, che si trova a soli 30 chilometri a nord di Damasco, un vero e proprio “mattatoio umano” dove decine di migliaia di oppositori del regime di Bashar al Assad sono stati letteralmente sterminati, in quello che secondo l’ong è stato un “crimine contro l’umanità” a tutti gli effetti.

La speranza negli occhi
E poi c’è il mondo della cultura siriana, soprattutto, che non ha mai smesso di far sentire la sua voce per restituire un senso e una memoria alle lotte dei rivoluzionari schiacciati dalla violenza e dalla propaganda del regime. Intellettuali e artisti siriani hanno scritto romanzi (esemplari quelli di Khaled Khalifa o Mustafa Khalifa), poesie (come quelle del poeta e oppositore Faraj Bayrakdar), saggi illustrati (come Syria speaks. Art and culture from the frontline), hanno creato archivi digitali creativi e ideato spettacoli teatrali. Come il drammaturgo franco-siriano Ramzi Choukair, che il 22 e 23 settembre ha portato in scena al Napoli teatro festival, in prima assoluta internazionale, lo spettacolo Y-Saidnaya, secondo atto della sua trilogia dedicata al contesto politico siriano, che arriva dodici anni dopo il primo capitolo, X-Adra, sui dissidenti politici durante il regime di Hafez al Assad.

Y-Saidnaya. (Salvatore Pastore)

Tre degli interpreti di Y-Saidnaya (che è interamente in arabo con sovratitoli in italiano grazie alla traduzione di Annamaria Bianco) sono veri oppositori e attivisti che hanno raccontato, in un coro di voci alternato, le loro esperienze nel carcere di Saidnaya componendo un mosaico emotivamente coinvolgente e allo stesso tempo doloroso per lo spettatore. Su tutte le storie campeggia quella, terribile, del turco Riyad Avlar, che nel 1996 a soli 22 anni era stato arrestato con l’accusa di spionaggio: la sua colpa? Essere andato in Siria con la compagna per studiare l’arabo per sei mesi, durante i quali aveva inviato delle lettere a familiari e amici in cui raccontava con sgomento di aver saputo dell’esistenza di un sistema capillare di torture e prigionie di cui all’epoca nessuno sapeva nulla.

Passa i primi due anni in isolamento al buio, poi cambia diverse prigioni per finire a Saidnaya nel 2007, da cui lo liberano solo dieci anni dopo. Avlar ha raccontato la sua storia sul palco con il sorriso e lo sguardo di chi non ha perso la speranza e la voglia di vivere nonostante la sua drammatica esperienza.

Restituire l’umanità
L’ironia è invece stata l’arma vincente del giovane Rene Shevan van der Lugt, classe 1989, figlio di padre armeno-cristiano e madre ebraica, protagonista di una storia tanto surreale quanto vera. Nato Rene, cambia nome in Mohammed quando il padre divorzia dalla madre, si sposa con una musulmana e lo fa convertire, per poi ritornare Rene quando termina la tutela paterna; dopo l’incontro con un giovane curdo di cui si innamora, cambia nome in Shevan, ma quando partecipa alle proteste del 2011 finisce insieme al suo compagno in carcere, dove diventa il prigioniero numero “1057”. Riesce a uscire grazie all’interessamento di padre Paolo van der Lugt, suo confidente quando aveva fatto coming out negli anni precedenti. Ora vive con il suo compagno nei Paesi Bassi, ha adottato il nome del gesuita che gli aveva salvato la vita e collabora con il museo dedicato ad Anna Frank.

Una ex guardia della prigione di Saidnaya, intervistata da Amnesty international, aveva detto che “Saidnaya è la fine della vita, la fine dell’umanità”. Con Y-Saidnaya, Ramzi Choukair ha dato voce e dignità a tutti i morti e agli scomparsi della rivoluzione siriana, restituendogli l’umanità perduta.

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