29 aprile 2016 16:15

Il 27 aprile 1994 le file davanti ai seggi in tutto il Sudafrica erano talmente lunghe che alcune assunsero la forma di una serpentina, ripiegandosi più volte su se stesse, e snodandosi sul terreno. Le persone rimasero in attesa per ore, in piedi, sotto il sole, una dietro l’altra, per mettere la loro scheda dentro l’urna. Erano le prime elezioni libere e democratiche della storia del Sudafrica. Le prime a cui i neri hanno potuto partecipare, mettendo fine a trecento anni di colonialismo e oppressione e al regime dell’apartheid, in vigore dal 1948.

Dei 22,7 milioni di aventi diritto andarono alle urne in 19,7 milioni. L’Africa national congress (Anc), il partito fondato per difendere i diritti e le libertà della maggioranza nera della popolazione, ottenne il 62,65 per cento delle preferenze e il leader della lotta contro l’apartheid, Nelson Mandela, diventò il primo presidente democraticamente eletto del paese. Formò un governo di unità nazionale e diede avvio a una nuova epoca nella storia del Sudafrica. L’arcivescovo e attivista Desmond Tutu, vincitore del premio Nobel per la pace nel 1984 e autore dell’espressione “nazione arcobaleno”, commentando quel momento disse: “Provavo una sorta di vertigine, come quando ci s’innamora”.

Il 27 aprile è diventato il Freedom day (giorno della libertà) ed è festivo. Quest’anno centinaia di persone sono scese in piazza a Città del Capo e a Johannesburg per protestare contro il governo dell’Anc, erede delle elezioni del 1994 e guidato, ora, da Jacob Zuma. Le proteste s’inseriscono in un più ampio movimento, #ZumaMustFall (Zuma deve cadere), che prende il nome da un hashtag lanciato nel dicembre del 2015 per chiedere le dimissioni del presidente, ritenuto responsabile dei problemi del paese e accusato di incarnare la corruzione che rovina la politica sudafricana.

La generazione dei ‘nati liberi’ conosce la lotta portata avanti dai nonni e dai genitori, ma non ne vede i frutti

Il malcontento nei confronti del governo, covato per anni, è esploso sull’onda delle proteste nelle università sudafricane cominciate mesi prima. Il 9 marzo del 2015 lo studente Chumani Maxwele ha svuotato un secchio pieno di escrementi sulla statua dell’imperialista britannico Cecil John Rhodes alla University of Cape Town (Uct). Il suo gesto ha portato alla formazione del movimento #RhodesMustFall, che dalla Uct si è diffuso nelle università di tutto il paese, per denunciare le eredità della discriminazione e del colonialismo nel settore dell’istruzione, che sono alla base di un’iniqua distribuzione della ricchezza e delle opportunità.

Alla fine la statua di Rhodes è stata rimossa, ma il movimento si è trasformato in una protesta nazionale a ottobre, quando è stato annunciato un aumento del 10 per cento delle rette universitarie per l’anno 2016. Messo alle strette il governo è stato costretto a ritirare il provvedimento e a trovare fondi d’emergenza.

La fame, la disoccupazione, la violenza sulle donne

Guida le proteste la generazione dei “nati liberi”, cioè dopo il 1994. Questi giovani conoscono la lotta portata avanti dai loro nonni e dai loro genitori, ma non ne vedono i frutti. Vedono invece che la disoccupazione giovanile è al 52 per cento, come registrano i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che solo un sudafricano su tre tra i 25 e i 34 anni ha un lavoro; che secondo Statistics South Africa le famiglie che soffrono la fame sono aumentate dal 13,5 al 16,2 per cento tra il 2010 e il 2014; che circa il 54 per cento della popolazione del paese vive in povertà, con meno di 40 euro al mese a persona; e che il 68,9 per cento dei bianchi ricopre ancora gli incarichi dirigenziali. “Mandela è morto, ma una nuova coscienza nera è viva e vegeta. Ed è arrabbiata”, ha scritto il giornalistaAlastair Leithead sulla Bbc.

Secondo Human rights watch (Hrw) “il governo continua a faticare per soddisfare le richieste di diritti sociali ed economici”. L’agenzia di rating Moody’s ha previsto un rallentamento della crescita economica che quest’anno secondo le analisi non supererà lo 0,5 per cento. Inoltre, prosegue Hrw, “questioni come la disoccupazione, la corruzione e le minacce alla libertà d’espressione preoccupano molti sudafricani. La brutalità della polizia e l’uso eccessivo della forza sono un problema persistente. Il governo ha fatto poco per risolvere le cause degli scoppi di violenza xenofoba. La violenza contro le donne, compresi gli stupri e la violenza domestica, è ancora molto alta”. Il 20 aprile alcuni studenti della South Africa’s Rhodes University sono stati arrestati durante una manifestazione per denunciare undici casi di presunti stupri all’interno del campus.

Ci vorrà del tempo perché l’arcobaleno assuma tutte le sue sfumature di colore

In molti ritengono Jacob Zuma e i vertici dell’Anc incapaci di dare la giusta impronta alla vita politica sudafricana. Poco credibile fin dalla sua elezione nel 2009 – segnata dalle accuse di stupro e corruzione in un caso di commercio di armi – quest’ultimo anno è stato particolarmente difficile per Zuma.

Pazienza in esaurimento

Dopo la figuraccia di dicembre del 2015, quando nel giro di quattro giorni ha cambiato tre ministri delle finanze, il presidente ha dovuto affrontare il cosiddetto Nkandlagate, lo scandalo legato alla sua residenza privata, che sarebbe stata ristrutturata con soldi pubblici. Dopo il rifiuto iniziale, a febbraio Zuma ha acconsentito a ripagare una parte dei soldi, 16 milioni di euro, di tasca propria, in seguito alla sentenza emessa dalla corte costituzionale sudafricana.

Lo stesso mese Zuma è stato contestato in parlamento durante il suo discorso sullo stato della nazione, e all’inizio di aprile ha superato un voto di sfiducia chiesto dal principale partito di opposizione, Democratic alliance. Infine, il 29 aprile l’alta corte di Pretoria ha stabilito di rivedere la decisione, presa nel 2009, di far cadere per vizio di forma 783 accuse per corruzione, frode e truffa contro Zuma. Era stata quella sentenza a consentirgli di candidarsi come presidente.

Un altro problema per Zuma è rappresentato dall’Economic freedom fighters (Eff), il partito guidato da Julius Malema, l’ex leader dell’ala giovanile dell’Anc, da cui è stato espulso nel 2012. L’Eff si descrive come “un movimento radicale e militante di emancipazione economica” ed è favorevole all’espropriazione delle terre dei bianchi senza compensazione, alla nazionalizzazione del settore minerario e all’istruzione gratuita per tutti.

Il 23 aprile, in un’intervista ad Al Jazeera, Malema ha dichiarato che se l’Anc continuerà a rispondere con la violenza alle manifestazioni pacifiche dell’opposizione, “presto esauriremo la pazienza e deporremo questo governo con le armi”. L’Anc ha risposto a queste dichiarazioni “sconsiderate e incendiarie” annunciando che sarà aperta un’indagine.

Questo clima politico torbido e radicalizzato ha portato molti sudafricani allo sconforto e alla disillusione. Il prossimo appuntamento elettorale sono le municipali previste per il 3 agosto e in molti si aspettano un’affluenza minore rispetto al passato. Ma la diffusione delle proteste nelle università e di movimenti come #ZumaMustFall indicano che i sudafricani stanno cercando nuovi modi per far sentire la loro voce.

Forse i giovani cresciuti o nati dopo l’apartheid – neri, bianchi e indiani – devono ancora trovare la ricetta giusta per la convivenza, mettendo insieme ingredienti diversi da quelli ereditati dai loro genitori. E forse ci vorrà ancora un po’ di tempo perché l’arcobaleno assuma tutte le sue sfumature di colore. Come ha scritto Nelson Mandela nella conclusione della sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà, “Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e ancora più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri. La nostra fede nella libertà dev’essere ancora provata”.

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