21 gennaio 2020 09:54

Capitali di tutto il mondo unitevi e moltiplicatevi grazie alle aliquote basse sugli utili d’impresa, alla scarsa trasparenza, al trasferimento dei profitti da un paese all’altro, a legislazioni amiche e accoglienti. La ricchezza così prodotta resterà probabilmente senza patria, a suo modo cittadina del mondo, ma avrà proprietari che la terranno ben salda tra le mani: si tratti di una multinazionale, di un consiglio di amministrazione, di un fondo speculativo, di una banca, tutti protetti dalle mura amiche di un paradiso fiscale.

Il denaro, si dice, fa girare il mondo, ma a guardare un po’ più da vicino le cose, anche il denaro viaggia parecchio provocando un’emorragia di risorse dai bilanci statali grazie a meccanismi sempre più raffinati di elusione ed evasione fiscale.

Più in generale, la vera questione è quella della spaventosa sottrazione di risorse allo sviluppo, allo stato sociale, ai servizi di base nel nord come nel sud del mondo, con conseguenze ovviamente differenti da un paese all’altro. D’altro canto, i tentativi di mettere la briglia alla fuga dei capitali finora non hanno dato risultati eccezionali: i soggetti coinvolti – multinazionali, studi legali, istituti finanziari – sono infinitamente più efficaci e rapidi nel realizzare le loro strategie di quanto non riescano a fare le faticose legislazioni nazionali o gli accordi tra paesi e organismi sovranazionali per cercare di arginare il fenomeno.

Liste nere
Uno studio dell’Unione europea diffuso nell’ottobre 2019 dimostra che dal 2004 al 2016 i paesi dell’Unione hanno perso circa 46 miliardi di euro all’anno a causa dell’evasione fiscale dovuta ai capitali collocati in aziende e giurisdizioni offshore. L’Italia è al quarto posto in Europa tra i paesi con la maggiore ricchezza collocata nei paradisi fiscali superata solo da Germania, Francia e Regno Unito, e ha perso ogni anno una media di 3,12 miliardi di euro, equivalenti all’8,75% del pil.

La parte del leone in questa vicenda la fanno dunque le economie più forti del continente: nel 2016 i più ricchi cittadini tedeschi avevano all’estero 331 miliardi di euro, i francesi 277, i britannici 218, gli italiani 142. Insieme rappresentano il 65 per cento della ricchezza offshore di tutta l’Europa.

Se questo è il quadro di riferimento, è pur vero che la sensibilità dell’opinione pubblica in materia è cresciuta, come testimoniano alcune indagini giornalistiche di impatto mondiale come i Panama papers (2016) e i Paradise papers (2017). Anche l’Europa ha provato a misurarsi con il problema: tuttavia Bruxelles spara quasi sempre a salve. Il motivo? Secondo diverse organizzazioni internazionali indipendenti è abbastanza semplice: i paradisi fiscali non si trovano solo ai Caraibi, ma sono ben piantati nella vecchia Europa, dal Mediterraneo al mare del Nord.

I criteri adottati per giudicare un paese sono spesso al centro di polemiche e critiche

Qualcosa tuttavia è successo nel 2017 quando l’Ue ha deciso di stilare una lista nera di paesi che non collaborano in materia fiscale (uno dei primi parametri per valutare un paradiso fiscale è la disponibilità o meno a scambiare informazioni con altre giurisdizioni). La lista di per sé non costituisce un ostacolo insormontabile per i paesi che ne fanno parte né per le aziende intenzionate a usufruire dei vantaggi fiscali e legali messi a disposizione da quelle giurisdizioni; tuttavia si è sottoposti a maggiori controlli e verifiche, il che può in certi casi rallentare o bloccare alcune transazioni finanziarie, senza contare il notevole danno d’immagine.

Dal primo approccio dell’Ue al problema è scaturito un elenco abbastanza ridotto di 17 paradisi fiscali. Non c’è traccia di paesi dell’Unione, ma in ogni caso quello compiuto da Bruxelles è sembrato un primo passo utile per cominciare a mettere mano alla questione. L’elenco comprende, tra gli altri, il Bahrein, le Barbados, la Tunisia e gli Emirati Arabi Uniti.

Nel marzo 2019 l’Ecofin, che riunisce i ministri delle finanze dell’Unione europea, ha diffuso una seconda lista in cui figurano solo undici paesi. Lo scorso ottobre il numero è sceso a nove con l’uscita degli Emirati Arabi Uniti e delle isole Marshall. Restano però tre territori degli Stati Uniti: Samoa Americane, Guam e isole Vergini, il che genera qualche tensione tra le due sponde dell’Atlantico.

Il percorso di “redenzione” finanziaria non finisce con l’uscita dalla lista nera. Il passo successivo per i paesi che applicano una maggiore trasparenza è quello di entrare in una grey list, una lista grigia, vale a dire una sorta di purgatorio dove il paese in esame resta finché non è riconosciuta la sua nuova buona condotta e concluso il progetto di adeguamento ai criteri richiesti.

A ottobre 2019 sono usciti dalla lista grigia anche paesi come Svizzera, Albania, Mauritius (importante snodo finanziario per i capitali provenienti dall’Africa), Costa Rica e Serbia. Tutti virtuosi? Inutile dire che il volume di affari che l’Unione europea o alcuni suoi paesi sviluppano con un altro stato, nonché la sua forza finanziaria e politica sul piano internazionale, influiscono sulla velocità degli iter che consentono l’esclusione dal gruppo dei cattivi. D’altro canto gli stessi criteri adottati per giudicare un paese come cooperante o meno possono variare, e sono spesso al centro di polemiche e critiche.

Confini sottili
Oxfam, l’organizzazione mondiale che si batte contro la povertà, monitora da tempo il fenomeno dei paradisi fiscali. “Bisogna intanto tenere presente che non esiste una definizione universalmente riconosciuta di cosa sia un paradiso fiscale”, spiega Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia. “Questo significa che diverse istituzioni come l’Ocse, la Banca dei regolamenti internazionali (l’istituto finanziario con sede a Basilea che promuove la cooperazione tra le banche centrali, ndr), il Government accountability office degli Stati Uniti (l’agenzia del congresso che esamina e controlla le politiche fiscali negli Usa, ndr) e alcuni paesi europei prevedono liste diverse dove inseriscono i paesi in base ad alcuni criteri fiscali”. Criteri che non sono sempre uniformi.

“Esistono però”, osserva Maslennikov, “elementi strutturali, di carattere generale, che permettono di qualificare una determinata giurisdizione come paradiso fiscale. Dobbiamo prendere in considerazione due grandi categorie. Nella prima rientrano alcuni paesi che si sono dotati di giurisdizioni specializzate nel garantire opacità e poca trasparenza, che cooperano poco. In questo caso si parla di segretezza”. Nella seconda “ci sono i paradisi fiscali che chiamiamo ‘societari’ perché adottano un sistema fiscale che funziona come un punto d’approdo per i profitti realizzati dalle multinazionali altrove, erodendo la base imponibile di altri paesi”.

Per questi motivi, il Tax justice network (Tjn), un’organizzazione internazionale indipendente creata nel 2003, stila due liste. Una per i paradisi fiscali che consentono alle multinazionali di sfuggire al fisco grazie ad aliquote sui profitti particolarmente basse e a basi imponibili estremamente ridotte attraverso artifici legislativi e contabili. E una basata sul principio del “segreto finanziario”, ovvero sull’occultamento parziale o totale dei capitali. Evidentemente la linea di confine tra le due categorie è molto sottile, e spesso in entrambe le classifiche troviamo gli stessi paesi.

La classifica redatta dal Tjn vede ai primi dieci posti – oltre a Paesi Bassi, Svizzera, Lussemburgo, Singapore, Bahamas, Hong Kong – ben quattro territori (isole Vergini britanniche, isole Cayman, Bermuda, Balivato di Jersey) posti sotto il dominio britannico. Il quadro che si delinea dice una cosa chiara: sia pure sotto le mentite spoglie di qualche isola remota, l’Europa e gli Stati Uniti (come mostrava anche la lista nera dell’Ue) giocano un ruolo di primo piano in questo meccanismo.

La seconda classifica di Tjn, quella dei paesi che consentono il massimo di segretezza finanziaria, vede al primo posto, neanche a dirlo, la Svizzera. Seguono, tra gli altri, Stati Uniti, isole Cayman, Singapore, Lussemburgo, Germania, Paesi Bassi. Significativa la presenza di Hong Kong in entrambe le liste, per non dire dei Paesi Bassi, della Svizzera e del Lussemburgo.

Secondo Tjn, si stima che tra i 21 e i 32 trilioni di dollari di ricchezza finanziaria privata si trovino – non tassati o tassati poco – “nelle giurisdizioni segrete di tutto il mondo”. Dagli anni settanta, l’Africa ha perso più di un trilione di dollari a causa della fuga di capitali, mentre ha ricevuto imponenti prestiti internazionali. E così sono cresciuti l’indebitamento del continente e la sua dipendenza dall’estero. Di conseguenza, osserva Tjn “l’Africa è un grande creditore, ma i suoi beni sono nelle mani di una ricca élite, protetta dal segreto offshore; mentre i debiti sono sostenuti dai cittadini africani”.

Contromosse deboli
Il fenomeno non riguarda solo i paesi poveri o non industrializzati. Stati come la Grecia, l’Italia e il Portogallo – rileva ancora l’organizzazione – sono stati messi in ginocchio, almeno in parte, da decenni di evasione fiscale e di saccheggio delle risorse pubbliche, realizzati attraverso i paradisi fiscali e la segretezza finanziaria.

Eppure in Europa prevalgono interessi nazionali o legati a relazioni politiche ed economiche internazionali, per cui spesso i criteri scelti per individuare soggetti non cooperanti sono piuttosto fragili. Ci sono poi altri stati europei che, secondo diversi osservatori, hanno comportamenti assimilabili a quelli dei paradisi fiscali. Non a caso in un rapporto Oxfam del 2017 si osservava: “Fin dal principio l’Ue si è focalizzata esclusivamente su giurisdizioni extraeuropee. Tale scelta mette a serio rischio la credibilità del processo, dal momento che alcuni stati dell’Unione, come l’Irlanda, il Lussemburgo e i Paesi Bassi rappresentano i paradisi fiscali più aggressivi al mondo, permettendo ad alcune delle più grandi corporation globali di minimizzare la propria contribuzione fiscale”.

Di conseguenza Oxfam provava ad analizzare “i 28 paesi membri dell’Unione, attenendosi ai criteri di blacklisting Ue”. Da questa indagine risultava “che almeno quattro paesi dell’Unione ( Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, ndr) dovessero essere inclusi nella lista nera europea”. Per questo, tra le altre cose, nel documento si chiedeva “di mettere in campo misure appropriate di contrasto ai paradisi fiscali europei”. In particolare, affermava il rapporto, “vanno introdotte nuove misure legislative comunitarie sulle pratiche fiscali dannose e un’aliquota effettiva minima sugli utili derivanti da pagamenti di royalties e interessi”. Quindi “non vanno rimandati i passi verso l’armonizzazione fiscale nella Ue”, a partire dalla proposta sulla base imponibile comune per l’imposta sulle aziende.

Nell’Unione europea 109 milioni di persone vivono in condizioni critiche

La questione, insomma, resta aperta. Le soluzioni tecniche ovviamente non mancano, il nodo è però di natura politica. Le risorse sottratte agli stati, infatti, finiscono per incidere, direttamente o indirettamente, su un quadro sociale che, nell’ultimo decennio, risulta particolarmente critico anche per il vecchio continente. Per questo forse è opportuno dare un’occhiata pure ad altri numeri. Secondo i dati resi noti a ottobre 2019 da Eurostat, nell’Unione europea una persona su cinque è a rischio povertà o esclusione sociale. In pratica 109 milioni di europei vivono in condizioni critiche. Si registra un leggero miglioramento rispetto al 2008 – la percentuale era del 23 per cento, oggi è del 21 – ma il dato resta allarmante.

In Italia le persone che vivono in questa condizione sono il 27 per cento, mentre erano il 25 per cento nel 2008. Anche in altri paesi il quadro dell’esclusione sociale è peggiorato nel corso dell’ultimo decennio: in Grecia si è passati dal 28 per cento del 2008 al 31 per cento del 2018; in Estonia dal 21 al 24 per cento; in Spagna dal 23 al 26 per cento; nei Paesi Bassi dal 14 al 16 per cento.

Infine, al livello globale – che è poi la dimensione entro la quale si muove la finanza – Oxfam ricorda che “il costo degli abusi fiscali societari per i paesi in via di sviluppo si attesta intorno a cento miliardi di dollari all’anno. Appena un terzo di questa somma sarebbe sufficiente per garantire l’accesso a cure mediche vitali capaci di prevenire la morte di otto milioni di persone”.

Davos e Oxfam, da sapere

Il 21 gennaio 2020 si è aperto il World economic forum a Davos, in Svizzera. L’appuntamento annuale, inaugurato nel 1970, riunisce primi ministri, banchieri, amministratori delegati e studiosi per parlare di economia e finanza. Puntualmente, nei giorni del forum, l’Oxford committee for famine relief (Oxfam), organizzazione non profit che si dedica alla riduzione della povertà, pubblica un rapporto sulla disuguaglianza. Nell’edizione di quest’anno si legge che a livello globale “l’1 per cento più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva, a metà 2019, più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose nel mondo era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane. In Italia, il 10 per cento più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza del 50 per cento più povero. Una quota cresciuta in 20 anni del 7,6 per cento”.

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