12 dicembre 2014 18:01

La Gazzetta dello Sport, 2 agosto 2014. C’è un titolo a quattro colonne, dev’essere successo qualcosa. Pantani fu ucciso. In realtà è virgolettato, “Pantani fu ucciso”, ma probabilmente quasi nessuno ci fa caso. L’articolo è accompagnato da illustrazioni dell’“omicidio” di Marco Pantani, nel 2004. A quanto pare il ciclista è stato immobilizzato e gli è stata versata in bocca cocaina liquida da almeno due persone che nessuno ha visto e che ancora non hanno un nome. Ma è evidente che Pantani è stato “ucciso”. Il mondo del ciclismo (e non solo) è sconvolto. La storia fa il giro del pianeta e tutti si convincono che nel 2004, a Rimini, Pantani è stato ucciso. Assassinato. Questo è evidente. Dopotutto un grande quotidiano ha pubblicato la notizia in prima pagina. Dev’essere vero.

Ma qual è la novità? Cosa è accaduto di così importante da spingere la Gazzetta a pubblicare quel titolone? Se torniamo indietro nel tempo e scomponiamo la storia, possiamo imparare molto sul funzionamento dei mezzi d’informazione in Italia e sui collegamenti malsani tra il sistema giudiziario e la stampa, che si alimentano a vicenda in un gioco che lascia in disparte la verità.

I magistrati usano i giornali e le tv, che a loro volta vivono delle “indiscrezioni” rivelate dai magistrati (anche se le indagini non sono nemmeno cominciate). I processi, che hanno la tendenza a trascinarsi per anni, contano poco. Prima che il processo abbia inizio, infatti, tutti hanno già un’opinione. Ci sono gli innocentisti, i colpevolisti e i dietrologisti. Questo meccanismo continua a riproporsi in un circolo vizioso che serve a vendere giornali e creare un pubblico, ma che non tiene in considerazione il giornalismo, la giustizia e la libertà.

Ormai in Italia la giustizia è diventata come il calcio. I tifosi (le fazioni rivali, le tribù) si compattano per perorare la loro causa e “sostenere” il loro punto di vista. I mezzi d’informazione trasmettono questi dibattiti su eventi reali esattamente come trasmettono i dibattiti sugli arbitri, i rigori, i gol e la tattica. In un certo senso le tv e i giornali hanno sostituito i tribunali nel ruolo di arbitri di colpevolezza o innocenza, e la giustizia è stata “calcizzata”.

Il caso Pantani è un esempio lampante di questo fenomeno, e segue il solco di altri casi che hanno “spaccato l’Italia” – Amanda Knox, il caso Cogne, Marta Russo, Garlasco – e su cui i mezzi d’informazione hanno banchettato per anni, se non per decenni. Per non parlare della madre di tutti i casi di questo tipo, il mostro di Firenze. Tutte queste vicende seguono percorsi simili e sono state gestite nello stesso modo: discusse e dibattute in televisione (Bruno Vespa è il mastro cerimoniere di questi eventi) con l’aiuto di “esperti” e semplici rappresentanti della popolazione. Tutti hanno un’opinione, e chi se ne frega del processo. D’altronde nessuno sa davvero cosa accade nei tribunali. Come disse Mark Twain, “non lasciate che i fatti rovinino una bella storia”.

Nel febbraio del 2004 Marco Pantani è morto all’età di 34 anni in una camera del residence Le Rose, in seguito demolito. Da allora sono emerse diverse teorie contraddittorie sulla sua fine. L’indagine giudiziaria del 2004 è chiusa da tempo, e le sue conclusioni sono state chiare: Marco Pantani è morto per un’overdose. Le prove mediche sembravano schiaccianti (e nessuno nega che la cocaina, possibilmente combinata con antidepressivi, abbia provocato la morte di Marco). Allo stesso tempo, però, sono circolate teorie diverse sula fine del campione. In parte queste teorie sono arrivate dalla famiglia Pantani. La madre, in particolare, è sempre stata convinta che il figlio sia stato ucciso. Nel 2011 il giornalista francese Philippe Brunel ha pubblicato un libro in cui rivelava presunte incongruenze dell’indagini. Altre teorie scorrazzavano liberamente per il web, ma il caso non è stato riaperto.

Poi i giornalisti televisivi si sono interessati (e molto) alla vicenda, e le cose sono cambiate. Mediaset ha trasmesso un lungo documentario che conteneva presunte “nuove” informazioni sulla morte di Pantani. Il famoso criminale Renato Vallanzasca ha scritto una lettera alla madre di Pantani svelando l’esistenza di un “complotto” contro Marco (in riferimento alla sua esclusione dal Giro d’Italia del 1999, non agli eventi tragici del 2004). Vallanzasca non è esattamente un testimone affidabile, e inizialmente la storia è stata ignorata. Poi però sono entrati in scena Mediaset e il commentatore sportivo Davide De Zan, figlio del grande Adriano, e anche i magistrati hanno pensato di aprire una nuova indagine. La pressione dei mezzi d’informazione ha portato a una nuova inchiesta sulla morte di Pantani, che ha sua volta ha spinto la Gazzetta dello Sport a scrivere il suo titolo sensazionalistico. Le parole “Pantani fu ucciso” sono state pubblicate prima ancora che le indagini fossero portate a termine. Il titolo si basava esclusivamente sull’ipotesi avanzata da Mediaset e dall’avvocato della famiglia Pantani. Non aveva alcuna base giuridica. Tra l’altro, ora sembra che il caso sarà archiviato.

Sappiamo molto della vita e della morte di Marco Pantani. Il campione è stato oggetto di splendidi libri (La morte di Marco Pantani di Matt Rendell, pubblicato quasi clandestinamente in Italia da Limina nel 2007 e oggi introvabile, e il libro tanto interessante quanto onesto di Marco Pastonesi, Pantani era un dio), di un recente documentario e di svariate agiografie e resoconti di dubbia qualità. Ora esiste un nuovo genere di studi su Pantani: quello dei dietrologisti, pronti a dipingere a tinte fosche e polemiche l’ascesa e la caduta di Pantani come una gigantesca cospirazione (l’analisi del sangue del 1999 è stata “alterata”, Marco è stato “ammazzato”, ha pagato per tutti, è stato “ucciso due volte”, la mafia era coinvolta, eccetera eccetera).

Ma qual è la verità? Che fine ha fatto il vero giornalismo? A chi dovremmo credere? Diversi giornalisti e scrittori hanno esaminato attentamente i fatti (di allora e di oggi) e hanno concluso che Pantani non è stato ucciso ed è morto per un’overdose (leggete, per esempio, Delitto Pantani di Andrea Rossini). Il problema è che i loro resoconti dettagliati non conquistano le prime pagine. Un giornale che dovesse titolare a quattro colonne “Pantani non fu ucciso” difficilmente venderebbe molte copie. Nessuno si interessa alle teorie non cospirative. I fatti nudi e crudi e la morte di un uomo in una camera d’albergo di Rimini non eccitano la gente. Per questo motivo i fatti e questa triste realtà vengono ignorati, mentre giustizia e verità continuano a essere considerate un optional e una questione di opinioni. Il caso Pantani viene tenuto aperto a forza, e il campione non può ancora riposare in pace.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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