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Fuori i moralisti dalle discoteche

La discoteca Divina a Caraglio, Cuneo. (Antonio La Grotta)

Il dibattito contemporaneo sulle sostanze psicoattive dura da decenni, ma a differenza dei dibattiti su altre libertà individuali non sembra mai fare grandi progressi. Un dibattito-sabbia mobile che a ogni suo riaccendersi vede tornare le stesse posizioni: le richieste automatiche di tolleranza zero, le polemiche sul fatto che assumere sostanze possa rientrare nel libero arbitrio delle persone e sul costo sociale di una tale scelta, e le inevitabili retoriche del “una volta ci si drogava meglio”.

A cambiare negli anni, però, è stato il clima sociale in cui si svolge questo dibattito. L’idea di alcuni che le generazioni di un tempo avessero un rapporto più sano, o meno nichilista, con le sostanze, rivela per esempio proprio un cambiamento di dinamiche sociali. Chi assumeva sostanze nei decenni passati lo faceva spesso nell’ambito di una sottocultura, come quella hippy o quella dei raver anni novanta, che creava un senso di comunità e conferiva all’assunzione di quelle sostanze significati culturali (ovvero legati a una visione del mondo, discutibile o meno che fosse). Oggi gli adolescenti che frequentano la discoteca di Riccione Cocoricò, per citare il caso drammatico delle cronache recenti, ci appaiono invece danzare nel vuoto.

Il confronto con gli anni novanta resta probabilmente il più calzante. In quel decennio l’esperienza del clubbing e della musica elettronica, la cui eredità conserva ancora oggi un grosso peso nei consumi giovanili, diventò davvero di massa. Musica house e techno scandivano il ritmo della gioventù europea del dopo-Muro. Le street parade riempivano le strade. Andare a ballare era l’opzione principale del fine settimana: nei circuiti commerciali oppure in quelli clandestini dei rave.

La pista da ballo permetteva di sentirsi parte di un mondo altro, potentemente fisico e democratico

In Italia, cresceva e si consolidava il mito delle discoteche della riviera romagnola. C’erano anche allora le polemiche, c’erano le stragi del sabato sera, i locali chiusi dalle autorità. Non sembravano esserci, però, le ondate di moralismo rabbioso di questi giorni; o forse semplicemente mancava il moralismo da clic del perpetuo dibattito online.

In quegli anni, per chi ballava, era forte il sentimento che la pista da ballo fosse un “altrove”, diverso e più accogliente rispetto al sistema che imperava fuori. Una rivoluzione fatta di sudore e di musica. La Promised land annunciata da un vecchio pezzo house non cambiava il mondo, ma permetteva per una manciata di ultimi anni di sentirsi parte di un “mondo altro”, potentemente fisico e democratico. La sincerità del corpo che ballava in sintonia con altri corpi. Una forma di intimità collettiva che fuori non esisteva più. Oggi la pista da ballo dei grandi locali, quelli rimasti, rispecchia invece in pieno ciò che c’è fuori: il mercato, il controllo, la paranoia. E se l’ecstasy un tempo creava empatia, sorrisi e contatto visivo fra le persone, adesso crea sospetto.

Nostalgia moraleggiante

Non è facile per chi aveva vent’anni e ballava negli anni novanta rapportarsi alle logiche del clubbing di oggi. Ma nessuno ha bisogno dell’ennesima nostalgia moraleggiante. Ogni generazione, o fetta di generazione, si confronta come può, con i mezzi del suo tempo e con quelli lasciati (oppure manomessi) dalle generazioni precedenti con il nodo della propria fisicità e della propria presenza nel mondo.

Topkapi, Lido di Spina, Ferrara.

È lì che si gioca la differenza fra le politiche del proibizionismo e quelle della riduzione del danno: per le prime quel confronto tassativamente non deve coinvolgere sostanze illegali, e pertanto la repressione ha la priorità sull’educazione; per le seconde invece, se quel confronto avviene, e se coinvolge sostanze psicoattive illegali (o legali come l’alcool), che avvenga almeno in modo informato e consapevole, evitando magari le morti per una pasticca cattiva o una dose eccessiva presa per ignoranza.

Quei ragazzini sono una spia dei tempi. Sono i canarini nella miniera

L’età sempre più bassa dei frequentatori di discoteche aggiunge un ulteriore livello di complessità. In Italia e non solo, la cultura del clubbing è diventata una pura impresa economica che sopravvive assecondando le evoluzioni di un pubblico sempre più giovane. Le grandi discoteche-marchio, quelle che ospitano dj-popstar lucidi e fotografati quanto un calciatore, attirano masse di giovanissimi. E i giovanissimi sono quelli più esposti agli incidenti più drammatici.

I due approcci del proibizionismo e della riduzione del danno si sono affrontati da sempre: la differenza sostanziale è che il primo, ampiamente applicato, si è dimostrato fallimentare. Il secondo, in Italia, non è mai stato davvero applicato. Ciò che manca, certo, è una visione molto più ampia e radicale che si occupi non solo del sintomo, ma dei motivi profondi per cui i ragazzini nelle discoteche oggi sembrano spesso in cerca non più di una qualche forma di percezione alternativa del mondo, ma di un puro stato di non percezione, blackout senza progetto. In positivo o in negativo, la pista da ballo rivela sempre qualcosa del mondo. Quei ragazzini sono una spia dei tempi. Sono i canarini nella miniera.

Infine, altre differenze di clima sociale rispetto al passato traspaiono nella risonanza avuta dai recenti fatti di Riccione, dove un ragazzo di 16 anni è morto per overdose da ecstasy durante una serata al Cocoricò. Così come la politica, spesso, diventa un patchwork di emergenze in cui mobilitarsi questione per questione, a seconda della loro risonanza emotiva, così ordine pubblico e “governance” del territorio sembrano attivarsi oggi per singoli incidenti, a cui sindaci e prefetti reagiscono con punizioni modello.

I mezzi d’informazione fanno il resto, creando narrazioni ossessive che rimbalzano in rete e indietro sui media e ancora in rete in un lungo gioco di specchi. Le storie in grado di creare questo effetto sono quelle che non solo catturano l’emotività del pubblico, ma solleticano un bisogno di reazioni estreme. Il questore di Rimini ha definito il Cocoricò “un simbolo degli eccessi”. Il frastuono mediatico e la violenza di certi editoriali non sono stati da meno.

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