02 febbraio 2016 11:45

All’inizio del suo nuovo libro Deep work. Rules for focused success in a distracted world, Cal Newport incontra un architetto che sogna “camere di lavoro”, una sorta di scatoloni insonorizzati delle dimensioni di una piccola stanza, che permettono di “concentrarsi e lavorare senza essere interrotti”. Ne vorrei una anch’io. In alternativa, mi accontenterei della soluzione di Mark Twain: un capanno dove scrivere, ai margini di una grande fattoria, così lontano dalla casa principale che all’ora dei pasti la famiglia doveva chiamarlo con un corno.

Di questi tempi, quasi tutti siamo convinti che raggiungere un’intensa concentrazione sia una cosa positiva, resa continuamente impossibile dalle email e dai social media. Il vero problema per chi vuole scrivere un libro su questo argomento è rispondere alla domanda: “Sì, ma come faccio a concentrarmi?”.

Non vogliamo più sentir parlare delle “settimane del pensiero” che Bill Gates trascorre regolarmente isolandosi in campagna con i libri come unici compagni. Vogliamo sapere come trovare il tempo per pensare, nonostante il lavoro, i figli, i superiori e il fatto che, pur avendoci provato con tutte le nostre forze, non siamo riusciti ad accumulare 70 miliardi di euro come Bill Gates.

Stanze insonorizzate

La prima parte della risposta di Newport riguarda l’incentivo economico. Il bisogno di concentrarsi non è “una fissazione romantica” degli scrittori e dei filosofi, afferma. Invece, è un bisogno essenziale per imparare bene un tipo di lavoro che ci permetterà ancora di guadagnarci da vivere quando i robot faranno tutto il resto.

Oggi le persone con gli stipendi migliori, osserva, non sono quelle che usano Facebook, ma quelle che lo programmano, cosa che richiede lunghi periodi di intensa concentrazione (ormai i nostri cervelli migliori usano la loro concentrazione per danneggiare tutti gli altri).

Quindi è un errore credere di essere troppo impegnati con le questioni dell’ufficio o con i figli per concentrarsi sul lavoro che stiamo svolgendo. È proprio questa concentrazione che ci permetterà di mantenere quel posto e di sfamare quei bambini.

È sbagliato pensare alla concentrazione come a un’altra cosa da infilare nella nostra routine

Il secondo punto che sviluppa Newport è più incoraggiante: in fondo non è necessario diventare monaci di clausura. Questa “filosofia monastica della concentrazione” di solito la associamo ai grandi artisti, che immaginiamo liberi da qualsiasi impegno lavorativo o familiare, ma è solo uno dei quattro possibili metodi per ottenere lo stesso risultato. Gli altri sono il “bimodale” (prendersi qualche giorno di seguito per concentrarsi), il “ritmico” (prendersi regolarmente qualche ora al giorno o alla settimana) e il “giornalistico “ (cogliere l’attimo quando si presenta).

È liberatorio smettere di sognare condizioni monastiche che non si realizzeranno mai e cominciare a vederci come persone che lavorano concentrate in modo ritmico o giornalistico. Un altro cambio di prospettiva possiamo ottenerlo smettendo di prenderci “una pausa dalle distrazioni” e cominciando a “prenderci una pausa dalla concentrazione”: cioè tenere sempre chiusa la posta elettronica o Twitter e farci ogni tanto delle incursioni. E si può fare, dice Newport, anche se la nostra attività è molto legata a internet. Basterà fare incursioni più frequenti.

Quello che emerge alla fine è che è sbagliato pensare alla concentrazione come a un’altra cosa che dobbiamo cercare di infilare nella nostra routine. L’intensità, dice Newport, modifica il modo in cui trascorriamo il resto del tempo: ci permette di sbrigare i compiti semplici più rapidamente, di partecipare di più alla vita familiare e di eliminare il tempo sprecato a passare da una cosa all’altra. La concentrazione, in poche parole, non è in contrasto con la vita di tutti i giorni, la semplifica. Comunque, io sono ancora convinto di volere una di quelle stanze insonorizzate.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it