09 settembre 2010 00:00

Con percentuali che oscillano intorno al 2 per cento, a seconda che si guardi a immatricolati, iscritti o laureati, l’Italia è in coda al grande flusso di studenti che popolano le università del mondo venendo da paesi stranieri. Dei tre milioni di universitari stranieri il 20 per cento va nelle università statunitensi, il 12 nel Regno Unito (28 e 14 secondo altre fonti), l’8 per cento in Francia.

Gli Usa selezionano e, però, finanziano con ricche borse un afflusso per loro prezioso. La Gran Bretagna sorveglia, studia con attenzione, ma si impegna assai meno nella ricezione. Questo minore impegno e, invece, l’impegno crescente della Cina (che esporta quasi il 10 per cento dei migranti) per trattenere in patria i suoi studenti e l’emergere di nuovi poli attrattivi, sia anglofoni (Canada, Australia) sia no (Giappone, oltre Francia e Germania), stanno producendo un leggero decremento annuo della quota di studenti universitari stranieri che sceglie il Regno Unito.

Sulla questione l’Economist è tornato con un’ampia inchiesta il 19 agosto. La higher education è un grosso affare finanziario che movimenta ogni anno 40 miliardi di dollari, più della pubblicità o delle linee aeree, e il 20 per cento delle entrate delle università è dovuto alla presenza degli stranieri.

Ma l’apporto dei giovani stranieri non è solo un fatto finanziario. Gli stranieri (specie cinesi) sono studenti solerti e brillanti e obbligano i nativi a un impegno maggiore. La loro presenza sprovincializza il paese e crea col resto del mondo legami durevoli.

Internazionale, numero 863, 10 settembre 2010

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