Cultura Suoni
Wild God
Nick Cave (Ian Allen)

Parlando di recente alla trasmissione The Late Show with Stephen Colbert, mentre faceva il giro dei mezzi d’informazione per promuovere il suo ultimo disco, Nick Cave ha detto: “La musica è una delle ultime opportunità legittime che abbiamo per fare un’esperienza trascendentale”. Una frase che sarebbe un cliché per molti altri, ma detta da lui diventa subito molto seria. Anche se la spiritualità, l’esistenzialismo e la fede hanno attraversato a lungo il lavoro del cantautore australiano, ultimamente è diventato lui stesso una specie di messia. Cave ha alle spalle un decennio molto difficile. Nell’arco di sette anni ha perso due figli, uno nel 2015 e l’altro nel 2022. Ma invece di chiudersi in se stesso e di nascondersi, è riuscito ad assorbire il dolore e a riflettere la speranza. Anche se i suoi Bad Seeds sono nati come un progetto post-punk cupo, a volte violento, che si crogiolava nell’oscurità, l’ultima iterazione della band vede il gruppo entrare in un cono di luce. Non è una svolta inaspettata. I due precedenti dischi di Cave insieme ai Bad Seeds, Skeleton tree e Ghosteen, affrontavano entrambi il dolore in modo diretto. Nel 2018 Cave ha anche creato The Red Hand Files, un sito in cui i fan sono invitati a spedirgli le loro domande più urgenti e personali, alle quali lui risponde in modo sorprendentemente rilassato. Inoltre nel 2022 l’artista ha pubblicato Faith, hope, and carnage, un libro tratto da una serie di conversazioni che ha avuto con il musicista e giornalista Sean O’Hagan e che cerca di riflettere sulla sua vita dopo i lutti. Wild God arriva come un’estensione di questi recenti sforzi. Sembra un esperimento filosofico quanto un disco, anche se è un ritorno al suono e alle sensazioni tradizionali dei Bad Seeds. La cosa più impressionante di questo album sono le sue qualità letterarie. In ­Frogs Cave seziona narrazioni bibliche, seguendo una coppia sulla via del ritorno dalla chiesa e prendendo in prestito la storia di Caino e Abele per interrogarsi sulla sofferenza umana. In Joy un fantasma selvaggio gli fa visita e grida: “Abbiamo tutti avuto troppo dolore, ora è il momento della gioia”. Anche la produzione dell’album si eleva. I cori gospel di supporto abbondano per supportare la voce straziante di Cave in tutto il disco, completati da potenti arrangiamenti orchestrali. Il brano di apertura Song of the lake fa partire l’album con una sferzata di energia. Batteria sincopata, archi elettronici, campane di chiesa e linee di basso pulsanti inondano gli ascoltatori come un suono galleggiante. È una canzone pensata per correre a piedi nudi nell’erba alta o sdraiarsi per guardare la luna. Il brano di chiusura, As the waters cover the sea, invece ha solo un pianoforte, un coro e la voce di Cave, e promette che anche i dolori più strazianti non verranno solo superati, ma saranno trasformati in qualcosa di migliore.
Laura David, Northern Transmissions

Ritual
Jon Hopkins (Imogene Barron)

C’è stato un momento a metà degli anni 2010 in cui il produttore londinese Jon Hopkins era probabilmente uno dei musicisti elettronici più entusiasmanti del mondo. Nei suoi album Immunity (2013) e Singularity (2018) aveva raggiunto nuovi livelli di trascendenza musicale, creando un’emozionante combinazione di suoni ambient ed eterei con ritmi pesanti e registrazioni sul campo. Music for psychedelic therapy (2021) aveva tutte le caratteristiche dei migliori momenti di Hopkins, ma le sue trovate si erano rivelate un po’ troppo deboli per reggere la durata del disco, superiore all’ora. Quindi il suo nuovo album Ritual dura appena 41 minuti ed è un unico brano diviso in otto capitoli. Il disco aumenta costantemente la tensione fino al picco dell’album, part vi – solar goddess return, per poi far calmare le acque negli ultimi due pezzi in scaletta. Come suggerisce il titolo, Ritual intende evocare le atmosfere di un rito. Anche se il disco possiede il marchio di fabbrica di Hopkins, la sua miscela di oscurità e luce, stavolta appare meno incisivo rispetto ai lavori precedenti. Gli antichi splendori sembrano lontani.
Adam Turner-Heffer, The Skinny

Il titolo di questo cd, Liszt mae­stoso, è molto appropriato, non solo per l’ampiezza lirica che caratterizza i pezzi, ma anche per le letture aristocratiche e autorevoli di Sandrine Erdely-Sayo. Come in passato Claudio Arrau e Jorge Bolet, Erdely-Sayo costruisce la sua ricca e lucida sonorità dal basso, e dispiega le lunghe frasi di Liszt con pazienza e senso delle proporzioni. Negli arpeggi della Bénédiction de Dieu dans la solitude evoca suoni simili a quelli dell’arpa, e una prospettiva tridimensionale. Le onde che s’infrangono nella Légende di san Francesco di Paola raggiungono climax potenti. I cantabili fluidi e le sottili sfumature armoniche di Erdely-Sayo nelle Consolations probabilmente superano quelle di Bolet. La nobiltà schietta del terzo Liebestraum contrasta con la melassa emotiva che sentiamo spesso in questo pezzo, ed è seguita da un En rêve efficacemente sobrio. Pochi pianisti moderni sono stati in grado di eguagliare la miracolosa varietà di voce e l’uso magico del pedale dell’anziano Horowitz nella trascrizione di Ständchen di Schubert, ma Erdely-Sayo ci si avvicina. Le selezioni sono state registrate in un solo giorno, penso con pochissimo editing. Di sicuro suonano come esibizioni dal vivo: l’atmosfera leggermente lontana ma calda accresce la mia impressione di sentire un’autentica interpretazione lisztiana della “vecchia scuola”. Un album molto raccomandato.
Jed Distler, ClassicsToday

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1578 - 30 agosto 2024
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