12 gennaio 2016 14:58

In Arabia Saudita c’è un altro caso che sta facendo discutere in questi giorni la società civile internazionale: quello di Ashraf Fayadh, 35 anni, artista e intellettuale che è stato appena condannato a morte da un tribunale saudita. La mobilitazione internazionale indetta per il prossimo 14 gennaio punta a rovesciare la sentenza.

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Poeta, artista e curatore d’arte, Ashraf Fayadh da circa due anni si trova in carcere ad Abha, in Arabia Saudita, con l’accusa di apostasia, di offesa alla morale saudita e di aver diffuso idee ateiste con la sua raccolta di poesie intitolata Al taalimat bi al dakhil (Le istruzioni sono all’interno), pubblicata a Beirut nel 2007 dall’editore libanese Dar al Farabi.

Nel novembre del 2015 un tribunale saudita l’ha condannato alla pena di morte per decapitazione, respingendo così il verdetto precedente di un altro tribunale, che gli aveva inflitto quattro anni di detenzione e 800 frustate.

Trasformazioni radicali

Ashraf Fayadh è nato in Arabia Saudita, dove vive e lavora, da una famiglia di origine palestinese. Fa parte del collettivo di artisti anglosauditi Edge of Arabia, che promuove l’arte araba e saudita contemporanea, con cui ha curato la mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia del 2013. Fayadh è stato anche il curatore di un’altra mostra, Mostly visible, esposta nel 2013 a Jeddah. Mostly visible era un’esposizione indipendente, autoprodotta e creata dal basso, che riuniva una ventina di artisti sauditi dai 18 ai 45 anni e che aveva come obiettivo quello di “promuovere la scena artistica saudita, ancora effervescente e giovane, e far sì che lo sviluppo dell’arte contemporanea in Arabia Saudita diventi mostly visible”, cioè esca dall’ombra.

Ashraf era, ed è tutt’ora, molto conosciuto nel circuito artistico saudita indipendente. Era, ed è conosciuto nella città di Abha, diventata un centro importante per la produzione artistica locale. Su Rhizoma aveva detto: “Il nostro obiettivo è fornire una visione chiara delle trasformazioni radicali vissute dall’arte saudita, che oggi è più in connessione con le sue radici, con una cultura più genuina, rappresentata dalla consapevolezza delle diverse condizioni di vita in Arabia Saudita”.

Fayadh non ha potuto rivolgersi a un avvocato perché la polizia religiosa gli ha confiscato i documenti

Le notizie circa i reati di cui è accusato sono confuse, a volte contraddittorie. Secondo l’organizzazione Pen international, che difende gli scrittori e gli intellettuali oggetto di pressioni e minacce, Fayadh sarebbe stato denunciato da un uomo con cui nel 2013 aveva avuto una discussione in un caffè di Abha per questioni artistiche. Sempre secondo Pen, i sostenitori di Fayadh ritengono che il poeta sia stato punito per aver postato su YouTube un video in cui era ripreso un esponente della polizia religiosa saudita che frustava un uomo in pubblico.

Altre accuse lo indicano colpevole del reato di aver intrattenuto relazioni illecite con alcune donne, le cui foto sarebbero state trovate sul suo cellulare. In questo caso Fayadh aveva spiegato che si trattava di foto scattate durante un’esposizione artistica a Jeddah. Secondo l’attivista per i diritti dei migranti Mona Kareem, citata da The Guardian, Ashraf starebbe invece pagando per le sue origini palestinesi.

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Quel che è certo è che, nei due anni di detenzione, Fayadh non ha mai potuto rivolgersi a un avvocato perché, all’atto dell’arresto, la polizia religiosa gli ha confiscato i documenti, necessari per poter richiedere l’assistenza legale. The Guardian ha scritto che dopo l’emissione del verdetto di condanna a morte, lo scorso dicembre, un avvocato per i diritti umani è riuscito a presentare un appello nel quale sostiene che mancano le prove d’accusa contro Fayadh, e che tutto il procedimento è pieno di vizi procedurali talmente gravi da poter far cadere l’impianto accusatorio.

In particolare sarebbe falso che il poeta abbia pubblicamente rinunciato alla fede islamica, accusa che tra l’altro lo stesso Fayadh aveva contestato già fin dal febbraio del 2014, poco dopo il suo secondo arresto, quando aveva confermato di essere un fedele credente.

Da circa un anno Ashraf Fayadh gode del sostegno di una campagna internazionale che non ha mai smesso di chiedere la sua scarcerazione.

La mobilitazione del 14 gennaio

Nel febbraio del 2014, cento artisti e intellettuali arabi hanno firmato un appello in cui chiedevano la sua liberazione e condannavano “questi atti di intimidazione che hanno preso di mira Ashraf Fayadh e che fanno parte di una più ampia campagna che istiga all’odio contro gli scrittori e che usa l’islam per giustificare l’oppressione e reprimere la libertà di parola”.

Poco dopo, Mona Kareem aveva invitato i traduttori a tradurre le poesie di Ashraf in varie lingue e a diffonderle online. Poi sono arrivati gli appelli, tra cui quello di Pen America indirizzato a Barack Obama, le azioni urgenti di Amnesty international e i reading internazionali. Lo scorso 3 dicembre le città di Ramallah, Gaza city, Il Cairo e Tunisi hanno organizzato quattro reading delle poesie di Ashraf in simultanea, coordinati dalla pagina Facebook Poetry for People/al-Shi’r lil-gami’a, che ha anche raccolto cento poesie di poeti di tutto il mondo scritte per Ashraf.

I testi saranno pubblicati in un libro intitolato 100 poems for freedom. No instructions to follow (Cento poesie per la libertà. Non ci sono istruzioni all’interno) che uscirà in inglese e arabo il prossimo 14 gennaio. L’antologia poetica sarà presentata al Cairo presso la casa editrice egiziana Dar Merit, da sempre faro dell’avanguardia letteraria del Cairo, che di recente è stata tra l’altro oggetto di intimidazioni da parte delle autorità egiziane.

Il 14 gennaio è anche la data in cui in trenta località di tutto il mondo si svolgeranno cento reading e incontri in solidarietà con Ashraf Fayadh. L’iniziativa è stata ideata e coordinata dal Festival internazionale di letteratura di Berlino, che ha anche lanciato un appello, firmato da centinaia di scrittori tra cui moltissimi arabi: dal libano-canadese Rawi Hage, alla siriana Hala Mohammad, dalla marocchino-statunitense Laila Lalami all’egiziano Mohammed Salmawy, solo per fare alcuni nomi. L’appello chiede la liberazione di Ashraf ed è indirizzato ai governi occidentali, quelli in particolare che sono in affari con il regime saudita.

Le poesie di Ashraf Fayadh non sono poesie “blasfeme”. Sono dei componimenti poetici

Ulrich Schreiber del festival di Berlino spera che i reading accendano l’interesse dei mezzi d’informazione per il caso di Ashraf Fayadh, e che questo a sua volta sarà utile per esercitare pressioni sul governo saudita: “Nonostante il fatto che ci saranno più di cento incontri in tutto il mondo, so bene che il regime saudita è difficile da impressionare. Però sono convinto che il coro di voci di persone diverse che provengono da varie parti del mondo farà in qualche modo la differenza”.

Suo malgrado, quindi, Ashraf Fayadh è diventato un simbolo. Ma non solo perché è considerato ormai a livello internazionale come un prigioniero di coscienza. Né perché la sua storia personale e la sua vicenda recente espongono in qualche modo, ancora una volta, tutta la drammaticità della questione palestinese e della diaspora. È un simbolo anche perché rappresenta un altro aspetto del mondo arabo contemporaneo che fatica a trovare spazio tra le notizie urlate che arrivano dal Medio Oriente, perché ci parla di normalità: la normalità della cultura prodotta nei paesi arabi, nei quali ogni anno, come in qualsiasi parte del mondo, si scrive, si traduce, si pubblicano libri, si organizzano festival ed eventi culturali di ogni tipo.

Il punto è che le poesie di Ashraf Fayadh non sono poesie “blasfeme”, come una certa stampa le ha etichettate. Sono dei componimenti poetici, alcuni brevissimi, sull’amore e sulla perdita dell’amata:

Chiedi allo specchio di spiegarti quanto sei bella! / Spargi come polvere le mie parole ammassate, / respira profondamente, e ricorda quanto ti ho amata…

Sono anche riflessioni, a volte filosofiche, sull’esistenza, sulla condizione dei rifugiati, sull’esilio, sulla cittadinanza:

Ogni Patria pacifica… o in guerra costante…/ Ogni Patria che, giorno dopo giorno, senza lamentarsi viene calpestata dai tuoi piedi… / Diventa nel cuore… qualcosa su cui l’esilio esistenziale non ha influenza…/ E che gli toglie importanza

Non credo che Ashraf Fayadh abbia mai voluto diventare un prigioniero di coscienza o un simbolo per l’arte araba e saudita. Forse voleva restare solamente un intellettuale, un uomo normale. E il mondo arabo oggi non ha bisogno di altri eroi o di simboli. Ha un estremo bisogno di normalità, che sia la bellezza di una mostra di opere d’arte, o la forza espressiva di un verso poetico.

La traduzione delle poesie citate è di Silvia Moresi. I reading italiani, sostenuti da Amnesty international Italia, si svolgeranno il 14 gennaio in varie città, tra cui: Roma (via dei Vascellari 40, ore 18.30), Milano (Libreria Les Mots, via Carmagnola, ore 18.30), Napoli (aula 2.1 palazzo del Mediterraneo, Università L’Orientale, ore 8.30), La Spezia (biblioteca Beghi, via del Popolo 61, ore 16.20), Bologna (Libreria Ubik, via Irnerio 27, ore 17.30), Ravenna (associazione Mirada, via Mazzini 83, ore 18), Pescara (spazio Matta, via Gran Sasso, ore 21), Sassari (presso la Sala delle Messaggerie Sarde, ore 19), Villacidro (presso il Caffè Letterario, ore 19).

La traduzione inedita di una poesia di Ashraf Fayadh sarà pubblicata il 15 gennaio su Internazionale.

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