12 aprile 2015 12:56

Qualche settimana fa Barack Obama ha intervistato David Simon, il creatore di The wire, serie televisiva che meglio di qualunque altra ha raccontato il mondo della piccola e grande criminalità americana. Che il presidente degli Stati Uniti interpelli uno sceneggiatore per discutere di lotta alla delinquenza è un fatto senza precedenti. La domanda a questo punto è lecita: quanto può arricchire la nostra visione politica il ritratto artistico, narrativo di un pezzo di società?

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Ma proviamo a trasportare questo interrogativo nei nostri confini nazionali. Negli ultimi anni – mentre i problemi delle carceri italiane ingrossavano fino a urtare l’orecchio dell’Unione europea – un film ambientato nel penitenziario di Rebibbia, Cesare deve morire dei fratelli Taviani, ha vinto l’Orso di Berlino; sono andate in onda, girate nella stessa location, le docufiction Liberanti e Reparto Trans di Maurizio Iannelli, Matilde D’Errico e Marco Penso; è uscito il reportage fotografico su Rebibbia Cattività di Marco Delogu e sono stati pubblicati, tra gli altri, ben sei romanzi ambientati nel reclusorio della capitale.

I politici italiani ne sanno qualcosa? Parliamo di una serie di pellicole e volumi che, rovistando nel brulichio dentro e intorno alla galera romana, mettono insieme una tale mole di notizie, storie e personaggi da trasformare il penitenziario di Rebibbia in un vero e proprio luogo letterario, il corrispettivo carcerario della via Veneto di Fellini o delle borgate pasoliniane.

Il parlatorio del carcere di Rebibbia, Roma, 2011. (Eleonora Calvelli, Luzphoto)

Raccontare Rebibbia, come raccontare qualsiasi altro carcere, significa innanzitutto entrarci. Una delle crune per cui infilarsi in galera è l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, che consente l’accesso ai volontari.

Ed è proprio come volontaria che Penelope Anselmi, la protagonista di Il sogno cattivo (Mondadori 2007) di Francesca d’Aloja, riesce a incassare dalla direzione il permesso di frequentare celle e detenuti. D’Aloja è un’attrice e regista romana, con alle spalle due anni di volontariato in carcere e il documentario Piccoli ergastoli.

Il suo è un romanzo dall’intreccio ordinario, scritto in una prosa lieve e con qualche punta retorica, che fruga nella polvere nascosta sotto il tappeto delle vite dei protagonisti. Margherita che fa perdere le sue tracce per trent’anni; il terrorista Riccardo Serventi che rinnega suo fratello e predica l’oblio come metodo di sopravvivenza; Emanuele che si dissocia dalla lotta armata e cambia perfino nome nel tentativo di depistare il suo passato; e Penelope stessa che, scoperchiando le esistenze dei due fratelli alla ricerca di Margherita, finisce col ridestare i ricordi sonnecchianti di ciò che è stata: i primi approcci sentimentali, la morte del padre, la fuga nei paradisi sintetici dell’eroina.

Il sogno cattivo è dunque un libro sulla rimozione, su quel processo di cancellatura psicologica e sociale che permea le esistenze galeotte e non.

Nella stessa categoria di d’Aloja rientra Rosella Postorino, scrittrice ligure che ha messo l’esperienza con l’associazione “A Roma, insieme” al centro del suo ultimo romanzo. La storia di Il corpo docile (Einaudi 2013) orbita intorno al “nido”, sezione della casa circondariale femminile dove le condannate sono rinchiuse insieme ai figli di età inferiore ai tre anni.

Questa paradossale, devastante esperienza è stata quella di Milena, figlia di un’ex detenuta, e l’ha segnata a tal punto da spingerla, una volta adulta, a collaborare con un’associazione che si occupa dei piccoli ospiti del nido. Nel prendersi cura di quei bambini che sono la sé stessa dell’infanzia, la protagonista del Corpo docile finisce intrappolata in un presente che è l’immagine speculare e distorta del passato.

Con una prosa poetica a tratti anche troppo liricheggiante e compiaciuta, Postorino racconta lo sforzo di Milena di far scoppiare la bolla esistenziale in cui è rinchiusa. E lo fa puntando l’attenzione sulla materialità dei rapporti umani: attrazione erotica, amplessi, percosse, parti, allattamenti, distacchi. È così che Il corpo docile fa propria fin dal titolo, citazione da un capitolo di Sorvegliare e punire, la lezione di Foucault. Perché, prima e al di là delle parole, il carcere è innanzitutto questo: corpi. Corpi divisi da altri corpi.

Diari di scuola in carcere

Un’altra porta di servizio per avere accesso al carcere è la scuola. Se il diritto dei detenuti all’istruzione autorizza l’avvio di corsi nei reclusori, sul piano della narrazione carceraria permette di saldare due sottogeneri letterari: la narrativa di carcere e il diario scolastico.

È il caso di Rocco Carbone, scrittore calabrese e insegnante a Rebibbia dal 1998 fino alla morte in un incidente stradale. In Libera i miei nemici (Mondadori 2005), scritto in una lingua piana e calibrata, l’alter ego dell’autore, Lorenzo, fa i conti con il rapporto interrotto in gioventù con Francesca, quello irrisolto con il fratello Carlo e l’attività di docente presso il reclusorio femminile. Tra i banchi della scuola carceraria c’è Lucia, ex terrorista e punto di intersezione delle coordinate storiche del paese e di quelle private di Lorenzo.

Libera i miei nemici è un romanzo sulla colpa, o meglio sul senso di colpa. Anche per questo è attraversato da una pietas che non fa sconti, un moto di condivisione del dolore che investe parenti, amanti e sconosciuti. E lascia trapelare l’idea che si è tutti colpevoli, chi più chi meno, di macchiare di errori e omissioni la propria fedina esistenziale.

Ma lo scrittore che ha innalzato di alcune tacche la qualità letteraria del racconto carcerario è senza dubbio Edoardo Albinati. Collega di Carbone, Albinati è riuscito a depositare la propria esperienza scolastica a Rebibbia (esperienza che prosegue tuttora) in uno dei suoi libri più solidi e brillanti.

In Maggio selvaggio (Mondadori 1999) anche Albinati sceglie di mescolare al racconto del carcere frammenti di privato. Ma le assonanze con Libera i miei nemici si esauriscono qui. Mentre il privato di Carbone è politico, speculare alla realtà vissuta nel penitenziario, quello di Albinati colleziona eventi accessori e marginali che corrono paralleli all’esperienza dietro le sbarre: abbozzi di poesie, elenchi di canzoni, una traversata della città in auto, una gita al mare. Il contrasto non potrebbe essere più stridente, ma di uno stridore che si fa poesia.

Maggio selvaggio è un reportage che, a differenza di tanti altri, si stacca dalla riflessione sociologica e decolla su più alte quote filosofiche. La quantità e qualità di annotazioni spicciole sulla vita in galera non è che la base di un’indagine dostoevskiana sull’esistenza del male e la sua inestirpabilità dal mondo.

Lo sguardo di Albinati sulla galera è infatti non meno acuto che disincantato. Cinico per costituzione e necessità, l’io narrante concede poco e nulla all’indulgenza paternalista o alla retorica del dolore in cui finiscono insaccate molte scritture carcerarie.

L’esterno del carcere di Rebibbia a Roma, 2011. (Eleonora Calvelli, Luzphoto)

Ma l’esperienza della detenzione è così estrema e l’universo carcerario un tale teatro di diffidenze, menzogne e mezze verità, che il romanzo che li racconta non può che risultare, per dirla con Albinati, “un libro sull’Irrealtà”.

Meno straniata pretende di essere, invece, la narrazione di chi il carcere l’ha vissuto da recluso. Come Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice romana morta nel 1996, di cui è da poco tornato in libreria L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983, 2006; Einaudi 2012).

All’indomani della condanna per un furto di gioielli in casa di un’amica, l’autrice travasa i suoi tre mesi di detenzione in un libro che ha dalla sua almeno due punti di forza. Il primo è la vivace galleria di ritratti: l’“angelica” Marcella, la “mammina” Annunciazione, la “maestra di galera” Edda e tante altre.

Ogni detenuta è una tappa del romanzo di formazione carceraria che è L’università di Rebibbia. Atteggiamenti, massime e dialoghi delle compagne di reclusione danno forma al decalogo non scritto dei comportamenti da tenere in galera: un codice di valori ben distante da quello della realtà piccoloborghese da cui proviene ed è in fuga la scrittrice.

A questo aspetto è legato l’altro pregio del romanzo. L’eccitazione della benestante che ripudia il proprio mondo, e perciò è appagata dal contatto col popolo dei reietti, è palpabile in ogni riga. Sapienza cammina pericolosamente sul cornicione dell’idealizzazione della galera e dei suoi ospiti; ma il racconto è salvato da questa nota incongrua, dall’euforia della scoperta di un mondo comunque altro, che la allontana dai toni cupi di molti racconti carcerari.

Ben più austero e solenne è, invece, Il giardino delle arance amare del romano Sandro Bonvissuto, racconto lungo compreso nella raccolta d’esordio Dentro (Einaudi 2012). Sospeso tra cronaca minimale e riflessione filosofica, il testo ruota su pochi eventi e personaggi: i compagni di cella Antonio e Babba, l’Avvocato, lo Spesino e altre comparse.

La narrazione procede per piccoli quadri: un catalogo di oggetti, uomini e circostanze su cui lo sguardo di Bonvissuto si sofferma operando uno stravolgimento estetico non molto diverso da quello che Duchamp esercitava sugli orinatoi. Perché, come il peso di un oggetto traslocato sulla Luna, al cambio di contesto corrisponde un cambio di peso semantico delle cose. E sta proprio qui il talento di Bonvissuto, attentissimo a registrare anche il minimo scarto tra il significato consueto degli eventi più ordinari – una crepa nel soffitto, l’ammaccatura di un frutto, l’ombra di una lampadina, una televisione accesa – e il valore inedito, diverso che lo stesso oggetto assume sul satellite carcerario.

Tra iperrealtà e irrealtà

Per Goliarda Sapienza il penitenziario è un microcosmo dove persone e cose esistono al grado zero sociale, quindi sono più se stesse: “Qui il reale è così possente”. Per Bonvissuto il carcere, in quanto lato oscuro della collettività, la illumina per contrasto: “Quello che succede fuori lì dentro è più visibile” e perciò “in carcere è tutto vero; il carcere è l’ultima cosa vera che esiste”.

Siamo sulla riva opposta di Albinati, dell’“Irrealtà” della Rebibbia di Maggio selvaggio. Eppure nella traiettoria del pendolo tra queste opposte visioni si muove lo sguardo della narrativa galeotta.

Ce n’è abbastanza per saperne di più sulla Rebibbia reale e passeggiare nell’altro carcere: il suo doppio romanzesco, ma non certo meno vero.

Per questo è forte il dubbio che se i frequentatori di palazzo Madama e Montecitorio avessero sfogliato un paio di questi libri, magari avrebbero messo mano per tempo ai problemi degli istituti di pena e a quest’ora, chissà, la cintola di Pannella avrebbe un paio di buchi in meno.

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